“I don’t know what I’m doing, but it’s not flying”, confessa Tommy Egan, pilota di droni, alla moglie che stenta a comprenderlo. Ed è solo una delle tante battute a effetto che si potrebbero estrarre dalla sceneggiatura di Andrew Niccol. Il cineasta neozelandese scrive e dirige un film in cui ogni inquadratura, ogni riga di dialogo sembra studiata, rivolta a sostenere un teorema preciso. La guerra non sarà una partita alla Playstation, ma per chi la combatte, oggi, quella differenza si è persa. O quasi.
Passo indietro. Good Kill si colloca all’interno di un discorso cinematografico già ampiamente battuto e sondato: quello della crisi delle strutture di rappresentazione all’interno del genere bellico, sulle cui involuzioni recenti si è scritto parecchio e anche su queste pagine [http://www.filmidee.it/article/471/article.aspx].
Riassumendo: privato delle coordinate sulle quali si era storicamente fondato – il confine da attraversare, il nemico da affrontare alla pari, la necessità morale della violenza – il film di guerra americano, da Coppola in avanti, ha preso atto della propria impasse etico-mitologica. Per tutta risposta, in anni recenti si sono affermati due distinti filoni. Uno – riconducibile all’opera di Kathryn Bigelow – sceglie di ignorare l’impasse, focalizzando l’attenzione sulle psicologie private dei combattenti. L’altro – da Redacted a Body of Lies – attribuisce lo scacco a un determinato regime dello sguardo, un regime mediato dalle infinite immagini digitali che oggi saturano tanto l’immaginario quanto la pratica della guerra contemporanea.
Good Kill mescola elementi di entrambi i filoni. A emergere, nel film, è proprio il drone, comandato via satellite dalla parte opposta del mondo, eletto a emblema di una guerra snaturata e privata delle sue coordinate morali. Tommy e i suoi compagni colpiscono senza esporsi, a distanza: al nemico non resta nemmeno la possibilità di ricambiare lo sguardo e restituire il colpo, come (da Fenimore Cooper in avanti) esige la mitologia americana. Allo stesso tempo, al tema della guerra a distanza il film affianca quello privato dell’alienazione domestica, già accennato in The Hurt Locker e Stop-Loss. Tommy fatica a ritracciare il perimetro della propria esistenza: più distante a casa di quanto non fosse al fronte, come gli rinfaccia nuovamente la moglie, il personaggio abita una geografia irriconoscibile in cui – come il film stesso dichiara – non esistono confini. Non a caso, tanto la base militare quanto l’abitazione di Tommy si trovano nella periferia della città non-luogo per eccellenza: Las Vegas.
A questa geografia fluida, però, il buon soldato Hawke non si rassegna. Vuole tornare a volare (davvero) e mal sopporta le discutibili regole d’ingaggio della CIA. Nelle prime inquadrature del film, una serie di piani ravvicinati ci mostra l’iride del protagonista mentre scruta le immagini del flusso video proveniente dal drone, cercando di individuare il suo bersaglio. Ecco, l’occhio umano che – a dispetto dei potenti mezzi di ingrandimento – fatica a mettere a fuoco il proprio nemico: è difficile non rilevare fin da qui la cifra del discorso di Niccol, il tentativo cioè di superare l’impasse del regime scopico digitale attraverso un gesto di fede (nemmeno tanto implicito) nelle vecchie mitologie della guerra giusta. Più che alle immagini-arma teorizzate da Lev Manovich verrebbe da pensare alle inquietudini post-umane di Blade Runner. Non è un caso che una delle voci più importanti del filone bellico “digitale” sia quella di Ridley Scott. Se volessimo cercare la radice cinematografica profonda del malessere che affligge il genere, prima di Body of Lies e prima ancora di Black Hawk Down, dovremmo risalire agli ingrandimenti fotografici con cui Deckard affonda la differenza tra umano e non.
Alla fine, il protagonista di Niccol trova un suo riscatto: prendendo temporaneamente possesso del drone per portare a termine un atto di giustizia personale, sommaria ma moralmente nitida – l’uccisione di uno stupratore seriale – Tommy si riafferma come soggetto etico dietro le immagini-arma, per così dire, e dimostra che queste possono, se ben dirette, farsi strumento di uno sguardo (bellico) giustificabile, se non giusto. È una pezza: e ci sarebbe qualcosa da dire sul fatto che per uscire dall’impasse Niccol metta mano al più classico degli stereotipi patriarcali (il salvataggio della donna dalla minaccia sessuale dell’Altro: si veda, su questo, la recente monografia di Susan Faludi, The Terror Dream). L’escamotage, tutto ideologico, mostra la corda, al punto che verrebbe quasi da sperare in un intento ironico. Ma il film non offre appigli in tale direzione.
O forse sì. Ripetutamente la trama ci ricorda che tra il momento di fuoco e il raggiungimento del bersaglio esiste un intervallo di tempo: ed è in quel ritardo che si apre, necessariamente, una finestra di incertezza. Bersagli civili “innocenti” possono entrare nell’area di tiro dopo che il missile è stato lanciato. Questa incertezza, ineludibile, segna la differenza tra un’operazione ben riuscita (a good kill) e un crimine di guerra, e il suo ritorno nella sequenza finale dell’uccisione dello stupratore mi sembra importante. A dispetto del riscatto morale di Tommy, la trovata drammaturgica sembra suggerire (tra le righe) che né l’onnipotenza scopica dei droni né i principi del buon soldato Hawke garantiscono una guerra”pulita”. E almeno su questo, Niccol ci trova d’accordo.