Uno sguardo anche rapido sulla ricezione di Deleuze in ambito accademico, soprattutto anglosassone, mette molto presto l’osservatore davanti a un’amara verità: a prendere Deleuze per fargli dire quello che si vuole serve davvero molto poco. Per questa ragione, nel mettere insieme questo piccolo speciale, deliberatamente snello (e, ci si augura, agile), ci siamo lasciati guidare da tre linee direttive. La prima è quella di non cadere a nostra volta in questo rischio, e dunque di non essere l’ennesima rivista che, a corto di “Speciali”, saccheggia L’immagine-movimento e L’immagine-tempo giusto per sentirsi in diritto di scrivere cose a caso impunemente.
La seconda è quella di riconoscere con umiltà che, per chiarire i rapporti di Deleuze col cinema e l’importanza dei suoi due libri sul cinema, è ben vano “prendere” Deleuze e “applicarlo” al cinema, quando invece è il cinema stesso a consegnarci il Deleuze cinematografico appropriato, digerito e “risputato” fuori. Deleuze e i suoi due libri sul cinema non vanno cercati nel cinema, ma in quest’ultimo semplicemente trovati. È sufficiente affacciarsi alla superficie del cinema contemporaneo per trovarne tracce piuttosto vistose: ci è dunque sembrato opportuno non andare oltre a un paio di esempi affiorati da soli giusto buttando l’amo, proprio per sottolineare quanto sia facile imbattersi, anche nel cinema di oggi, in ciò che il dittico deleuziano aveva affrontato nella sua tassonomia con acutezza e, a posteriori, lungimiranza. E, si badi, non è solo Deleuze ad avere ancora molto da dire sul cinema di oggi: è il cinema di oggi ad avere ancora molto da dire su Deleuze. E lo dice. Lo dice il cinema mainstream come lo dicono le propaggini più “sperimentali”. Abbiamo dunque preso da una parte come dall’altra. Da un lato c’è il magnifico The Thoughts That Once We Had di Thom Andersen, film-saggio che si confronta consapevolmente e deliberatamente con “L’immagine-movimento” e “L’immagine-tempo”. Dall’altro c’è Inside Out, capolavoro della Pixar di meritato successo, che con la grandezza di chi davvero sa misurarsi con l’“inconscio collettivo” (nozione forse vecchia ma mai confutata, e della cui effettività anzi proprio Inside Out finisce per fornire una folgorante prova per assurdo) si piazza, senza bisogno di averne la minima intenzione, nel bel mezzo delle diatribe riguardanti l’eredità eventuale del pensiero deleuziano.
La terza linea direttiva, infine, è quella di sorvolare con una certa disinvoltura sull’ahinoi ipertrofico mercato editoriale che gravita intorno a Deleuze. Liberissimo chiunque di pubblicare volumi su Deleuze e il giardinaggio o Deleuze e la pesca sportiva, liberissimi noi di disinteressarcene completamente. Tanto attaccati siamo stati a quest’ultima regola, che non abbiamo esitato ad appellarci all’eccezione. Abbiamo infatti deciso di segnalare il libro di Rocco Ronchi su Deleuze, proprio perché rimaniamo convinti che di Deleuze sia ancora possibile parlare, dicendo le cose giuste, nonostante l’indiscriminata proliferazione di discorsi sulla sua filosofia rischi costantemente di annegare tutto nell’insignificanza.
Lo abbiamo fatto anche in contrapposizione all’anti-intellettualismo che oggi va tanto di moda. I tristi intellettuali da social network di oggi, peggiori financo di quelli “da salotto” di ieri, sostengono apertamente che la teoria non serve più a niente, e che dunque tanto vale usare il sapere per divertirsi, per “spararsi le pose” (cit. Io speriamo che me la cavo) neodandy che alla lunga sul mercato intellettuale pagano. Di contro a questa idea di libertà, che è poi l’idea di libertà del fare i simpatici con i capi e tenere la battuta sempre pronta per farsi allungare la pausa-sigaretta, continuiamo a preferire l’idea di libertà di Deleuze, perverso kantiano vero e recidivo, per la quale la libertà consisteva nell’attaccarsi alla sigaretta contro ogni evidenza di convenienza, contro la propria stessa salute.