Tutti i film di Paolo Sorrentino hanno al centro un personaggio dal passato glorioso, vivace e, in molti casi, creativamente prolifico: tutti sono issati dall'opulenta giostra del regista nel momento del loro massimo stallo, quando, arenati e incapaci di emozioni, possono soltanto lavorare sulla presa di coscienza del tempo trascorso, abbozzare un bilancio retrospettivo, lasciare emergere i nodi di un percorso fallimentare ma, forse, ancora aperto alla rivelazione.
In Youth – La giovinezza il consuntivo è termale: come in tutti i film ambientati in un grande albergo, la location polarizza il racconto e lo frammenta in episodi, tutti elevati a scene madri dall’eco felliniana (ma nulla più). I personaggi si incrociano e rincorrono, sconosciuti a se stessi e agli altri, alimentando una comune impasse esistenziale senza davvero riuscire a prendersi cura l'uno dell'altro. C'è Fred Ballinger, ex direttore d'orchestra ormai in pensione, restio a tornare sul palcoscenico persino su invito della regina d'Inghilterra; c'è il regista in caduta libera Mick Boyle, stoicamente impegnato nella scrittura del prossimo lavoro con squadra di hipster sceneggiatori al seguito; ci sono gli altri ospiti del resort svizzero sui quali si innesta la mappa concentrazionaria e autosufficiente dell'intreccio, tutti malinconici, sornioni, divisi tra chi vuole ripartire e chi vuole nascondersi, incerti se la loro vita sia reale o appartenga ormai a uno mondo altro, fatto di sogni, lapsus, déjà vu, fantasticherie. Da ogni prospettiva la si guardi, la giovinezza è stato il tempo della possibilità: abbandonata per carenza di volontà, rimpianta con l'avvicinarsi della morte o sarcasticamente riletta per non soccombere al dolore, risulta per Fred, Mick e gli altri un capitolo concluso, di cui non è possibile tornare a toccare l’autenticità. Se mai tale autenticità è esistita.
Entro questa cornice di ambiguità, il cinema di Sorrentino percorre ormai la propria personalissima tangente: se un film – illusione demodé – può ancora mettere in discussione il proprio autore, a interrogare Sorrentino è il legame tra individuo e immaginario, la possibilità che l’uno ha di nutrire l’altro fino all’eccesso della caricatura, al carnevale, al kitsch più inaspettato. Quale sia il compito del cinema all'interno di questo rapporto, però, è cosa ardua a definirsi. Non tanto perché Sorrentino rinunci a prendere una posizione, dotato com'è dell'ossessione di prevedere e strutturare il ritmo, cioè la vita, che pulserebbe sotto le sue inquadrature, ma perché di fronte al risultato finale, sempre più uguale a se stesso, emerge cristallina la certezza che Sorrentino nelle immagini non nutra, e forse mai ha nutrito, una vera e irrinunciabile fiducia.
L'accumulo e la tendenza alla sovrapposizione con cui si dispiega il linguaggio di Sorrentino, orientato fin dagli esordi a sottolineare la vanità dei destini individuali, sembrano in Youth più impegnati a mascherare il vuoto, a renderlo scintillante, che a denunciarlo o penetrarlo. Il procedere per adiacenze narrative, calcate nella scrittura e ancor più vistose nella messinscena, non giova a un racconto che dello scavo in cerca del dolore non propone alcun viatico, trasformandolo piuttosto in una chimera irraggiungibile, un pretesto per continuare a verbalizzare e affastellare artifici, in una sorta di ipertesto lontano dalla realtà e potenzialmente infinito. È inevitabile: c’è uno straordinario potere attrattivo nella combinazione di segni di cui Sorrentino è capace, non ultimo quello musicale, probabilmente il suo più libero e, talvolta, inatteso. L’emozione che Youth suggerisce nello spettatore non concede tuttavia la possibilità di varcare la superficie e verificare le profondità: tutto è movimento di macchina, vorace scarto di montaggio, citazione letteraria, maschera, fantasma in posa. Persino nella riflessione obliqua su caducità e splendore di corpi spettacolari – Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Jane Fonda, Miss Universo e un sosia di Diego Armando Maradona – lo sguardo di Sorrentino sembra fermarsi, non avere il coraggio di andare al di là della pelle, delle forme appunto esteriori, dell’indovinato dettaglio, del tic.
Ecco, il tic: nella carta delle caramelle Rossana che Fred Ballinger scorre tra le dita per sfuggire al disagio si condensa forse tutto il senso del gesto sorrentiniano. Compulsivo, inatteso, sinestetico, stereotipato, tanto puntuale quanto inutile, clamoroso a un tempo nello sfuggire alla semplicità, nel dichiarare guerra a ogni forma di intellettualismo, nel fondare, passo dopo passo, una personale poetica sullo spreco del sé (sullo spreco di sé).
YOUTH – LA GIOVINEZZA, regia di Paolo Sorrentino, Italia/Francia/Svizzera/Gran Bretagna, 2015, 118'.