In uno degli scritti di Mao Zedong, il leader comunista cinese menziona una celebre favola cinese, quella de “il vecchio Yukong che spostava le montagne”. In questa storiella ci viene raccontato come un vecchio saggio si trovò ad affrontare un problema letteralmente insormontabile: due grandi montagne si trovavano proprio fuori da casa sua e gli bloccavano l’entrata. Decise allora di provare a “spostarle” usando un semplice scalpello: un po’ per volta, pezzettino per pezzettino e con l’aiuto dei suoi figli, pensava che le montagne in questo modo sarebbero state tolte dalla sua vista. Quando il suo vicino di casa lo vide cimentarsi in quest’impresa cominciò a prenderlo in giro e a dirgli che non sarebbe mai stato in grado di portare a termine un’idea tanto folle. Ma Yukong gli rispose: “Quando morirò, ci saranno i miei figli. E poi le generazioni successive che continueranno. Dopo ogni colpo di scalpello le montagne diventeranno impercettibilmente un poco più piccole. Perché dunque non dovrebbero appiattirsi definitivamente, alla fine?”. Un Dio, commosso dalla dedizione di Yukong, decise allora di aiutarlo e di mandare sulla terra due geni celesti che si presero le montagne sulle spalle e se le portarono via. A questa conclusione Mao aggiunge: “il nostro Dio non sono altro che le masse del popolo cinese. Sono loro che sono capaci di portarsi persino una montagna sulle spalle”.
Impossibile non pensare a questa storiella – che tra l’altro dà il titolo a uno dei documentari più belli sulla Rivoluzione Culturale, Comment Yukong déplaça les montagnes di Joris Ivens e Marceline Loridan – vedendo Mountains May Depart di Jia Zhang-Ke, presentato in concorso al Festival del Cinema di Cannes. E non si tratta solo del titolo – che letteralmente vorrebbe dire “le montagne possono essere spostate”, proprio come quelle di Yukong – quanto più in generale della riflessione che il film propone sulla modernizzazione capitalistica cinese e sulle conseguenze che provoca soggettivamente nella vita delle persone. È paradossalmente proprio per il successo delle “masse del popolo cinese” – e di quel Partito Comunista fattosi stato, che di Mao continua anche oggi a considerarsi continuatore – che il divenire-capitalistico della Cina è giunto a questo livello, a un tempo di successo e di devastante squilibrio. E che questa potenza di trasformazione – che è stata capace di fare l’impossibile, persino di “spostare le montagne” – è stata in grado di cambiare nel profondo la vita di miliardi di uomini e donne, influenzando le loro biografie, il loro modo di relazionarsi e persino la loro percezione del tempo e dello spazio.
Il cinema di Jia Zhang-Ke ha sempre avuto un’attenzione particolare e per certi versi unica alla contestualizzazione socio-economica delle proprie storie. Nei suoi film si assiste spesso a un cambiamento di natura economica o produttiva – la chiusura di una fabbrica e la creazione di una nuova città residenziale, come in 24 City, o la costruzione di un grande progetto ingegneristico come la Diga delle Tre Gole e l’evacuazione di un intera città, come in Still Life – avere una conseguenza micrologica e diretta sulle vite dei protagonisti. La storia individuale e la Storia universale – che quanto meno a partire dagli anni Ottanta siamo stati abituati a pensare separate – nel cinema di Jia tornano a intrecciarsi, anche se lungo relazioni causali non lineari e spesso imprevedibili. Secondo alcuni, come l’intellettuale marxista cinese Wang Hui, nel suo cinema si intersecano in modo originale due tipi di influenze: il cinema di Ozu o di Hou Hsiao-Hsien con la loro attenzione per il dettaglio minuto della vita quotidiana; e l’influenza dei registi documentari politici cinesi dell’ultima generazione, dal Wang Bing di West of the Tracks allo Zhao Liang di Petition o Paper Airplanes che, invece, mettono in luce le trasformazioni generali del modo di produzione capitalistico e le loro conseguenze nella società.
Jia è l’esponente più importante di quella “sesta generazione” del cinema cinese[1], capace di portare al cinema i temi della modernizzazione capitalistica dopo che la generazione degli anni Ottanta, in polemica con lo stile real-socialista di stato, aveva invece enfatizzato la dimensione individuale e la sua irriducibilità a qualsivoglia generalità sociale. Così facendo, però, Jia non ci ha raccontato soltanto la Cina – ruolo a cui molti critici avrebbero voluto ridurlo, perché la legittimità di parlare di storie universali viene di solito “concessa” solo al cinema europeo o americano – semmai ha usato il punto di vista prospettico della Cina di oggi per raccontare il capitalismo e la contemporaneità del mondo in generale. Un mondo che, proprio perché capitalistico, non può che porsi il problema della rappresentazione della sua totalità, al di là dei particolarismi culturali e locali. Dato che la Cina del capitalismo contemporaneo è diventata in un certo senso il paradigma, parlare di processi sociali globali dal punto di vista della Cina ha voluto dire essere capaci di vederli con una chiarezza e una lungimiranza impensabili per la declinante Europa o per gli autocentrati Stati Uniti. E soprattutto di vederli nel modo più universale possibile. Non è un caso che a pensare la rappresentazione del capitalismo globale negli ultimi anni siano stati registi come l’indiano Anurag Kashyap o i cinesi della sesta generazione come Wang Bing o Jia Zhang-Ke che vengono da paesi dove i luoghi della produzione materiale hanno ancora una loro visibilità immediata. E dove quindi il cinema è più facilitato a raccontarceli.
Mountains May Depart, tuttavia, finito in fretta e furia nelle ultime settimane giusto in tempo per andare in concorso a Cannes, rappresenta un’ulteriore evoluzione nel cinema del regista cinese. L’inizio del film è fulminante: un gruppo di giovani che ballano in modo quasi coordinato e televisivo una Go West sparata a tutto volume nella versione dei Pet Shop Boys. E non può che fare un certo effetto vedere il logo del “Film Bureau. State Administration of Radio, Film & Television” (in poche parole, l’ufficio per la censura dello Stato Cinese) che stacca su una delle canzoni-simbolo della caduta del muro di Berlino e della fine dei paesi del socialismo reale. Tuttavia non dobbiamo farci ingannare: se c’è una cosa completamente estranea al cinema di Jia Zhang-Ke è la pseudo-riflessione (in realtà poco più che senso comune) che denuncia l’occidentalizzazione cinese rimpiangendo la perdita delle proprie tradizioni locali. Il divenire-capitalistico cinese visto da Jia non viene mai denunciato nel nome di una tradizione pre-capitalistica o nel nome di una specificità orientale. Basterebbe guardare il modo con cui nei suoi film vengono rappresentati i paesaggi naturali: ogni volta che c’è un campo lungo – un paesaggio, una valle, un orizzonte – vi è sempre qualche elemento umano che lo perturba: una fabbrica, una diga, un’autostrada, una ciminiera, un insediamento urbano in lontananza. La natura insomma non esiste più come altro da sé dell’uomo ed è deprivata di qualsivoglia spiritualismo. La natura è già da sempre mediata dalla produzione, dall’economia: in una parola, dal capitalismo. Come ha detto Jia Zhang-Ke in conferenza stampa, della canzone Go West andrebbe allora sottolineato il “go” più che il “west”.[2] Go West è la canzone che negli anni Novanta in Cina rappresentava la speranza, l’ottimismo nei confronti del futuro, la promessa di emancipazione data dallo sviluppo economico.
Mountains May Depart è composto di tre parti, che corrispondono a tre diversi periodi storici. Con la prima, quella che inizia con Go West e che si svolge a cavallo del capodanno del nuovo millennio, tra il 1999 e il 2000, siamo nel pieno dell’ottimismo: i protagonisti sono giovani e hanno la vita di fronte a loro; sono pieni di speranza, e credono che sia possibile che i propri sogni diventino realtà. La seconda, invece, è ambientata nel 2014 e rappresenta il momento del disincanto, delle promesse non mantenute, delle riflessione sugli errori delle proprie scelte passate. Prima vediamo il momento della vita, e poi quello della morte. Ma poi c’è la terza, nel futuro del 2025, dove questa dicotomia viene superata e si vive in un certo senso oltre la storia stessa, oltre la vita e la morte, in una dimensione indifferenziata dove non c’è più discontinuità tra presente, passato e futuro e il senso del tempo è completamente perso. Se i film precedenti di Jia, A Touch of Sin su tutti, si concentravano sulla dimensione spaziale, su come ad esempio il capitalismo riuscisse a negoziare la coesistenza e il concerto di spazi lontani e diversissimi tra loro, Mountains May Depart ne analizza il tempo: il divenire-capitalistico comporterebbe una vera e propria rimozione della temporalità. Ed è proprio nella figurazione futuribile della realizzazione perfetta di questo sogno capitalistico, dove il passato non esiste e le relazioni sociali si strutturano attorno a un eterno presente che investe persino le parti più intime delle relazioni famigliari, che la riflessione del film viene spinta versi i suoi esiti più interessanti.
La vicenda del film è facilmente riassumibile. Nel 1999 siamo a Fenyang, nello Shanxi, la regione del nord della Cina da dove viene Jia Zhang-Ke e dove gran parte dei suoi film sono ambientanti. Si tratta di un luogo decentrato rispetto alla regioni ricche e urbanizzate del Sud-Ovest dove l’economia è incentrata sull’agricoltura e l’industria mineraria. Tao è una giovane ragazza venticinquenne che è innamorata di Lianzi, un modesto operaio di una miniera di carbone, gentile e di buone maniere. Nel frattempo è però corteggiata anche da Zhang, giovane riccastro di provincia che tenta di conquistarla con macchine sportive e telefoni cellulari. I due pretendenti sono anche due metafore delle strade che potrebbe intraprendere la Cina di quegli anni: la Cina di provincia, del lavoro e della fatica, o quella che inizia ad arricchirsi e a guardare al mondo e al benessere materiale? La scelta è quasi obbligata. Come spesso accade nei film di Jia Zhang-Ke è la Storia a decidere al posto degli individui. Sono gli anni del boom economico e del PIL a due cifre, e la Cina che vincerà sarà quella di Zhang, che sfruttando il basso prezzo del carbone riuscirà persino a comprarsi la miniera dove lavora Lianzi, e quindi a diventare suo padrone. A vincere sono stati dunque i nouveaux riches, i padroni, che sono stati in grado di dare concretezza materiale ai sogni di emancipazione di Tao e dei giovani cinesi degli anni Novanta.
Per la seconda parte del film ci spostiamo nel 2014. Tao ha divorziato da Zhang, il figlio che hanno avuto (che si chiama eloquentemente Dollar) è in custodia presso il padre (i soldi riescono a comprare anche questo) che è riuscito anche a mandarlo a studiare in un’università internazionale a Pechino. Lianzi, che si è sposato e ha avuto un figlio, è invece malato: 15 anni di miniera l’hanno messo in ginocchio (il capitalismo è questo: la vita che la miniera toglie a Lianzi, la dà in forma di soldi e di ricchezza a Zhang). Tao lo va a trovare e ha modo di riflettere sulle scelte e gli errori della propria vita, di cui è stata vittima più che artefice. Jia Zhang-Ke vede la Cina di oggi con un disincanto e una cupezza che mai aveva avuto prima d’ora. Incombe un senso di morte e di fallimento, nonostante Zhang sia ormai parte della classe dirigente del paese: quella che ha vinto, nonostante tutto intorno abbia il sapore di macerie. In questa parte del film ci sono funerali, malattie, divorzi, così come nella prima c’erano corteggiamenti, scene di balli e corse in macchina all’impazzata. La Cina è sì la più grande superpotenza mondiale, ma non c’è più nulla da sognare, nulla da sperare nei confronti del futuro. C’è solo da rimpiangere il passato e da godersi la ricchezza materiale finalmente raggiunta.
Ma per comprendere questa dialettica di vitalità e di morte, di speranza e di disincanto, di desideri e di fallimenti, bisogna arrivare alla terza parte. Perché è lì che vediamo la vera natura del “capitalismo realizzato”. Siamo nel 2025, Zhang si è trasferito in Austrialia. La Cina è ormai il paese che domina il mondo (“vi ricordate quando c’era il dollaro? È come oggi il renminbi”), i cinesi sono ovunque anche all’estero, ma molti di loro non hanno più nessun contatto con la Cina. Il protagonista di questa terza parte è Dollar, il figlio di Zhang e Tao, che non conosce il cinese e che quando a scuola gli chiedono chi sia sua madre risponde: “sono nato in provetta”. Il passato non esiste: non esiste casa, non esiste origine. Il mondo del capitalismo realizzato è quello dell’eterno presente. Jia gioca qui una carta che mai aveva avuto il coraggio di giocare nei suoi film precedenti: il capitalismo non è solo uno sfondo che determina la scelte individuali; entra nella vita delle persone, nei loro sentimenti, nel loro modo di vedere il mondo e di desiderare. È insomma anche un sistema simbolico, non è solo economia. La scomparsa degli scarti temporali influenza anche il rapporto tra le generazioni: Dollar litiga con il padre – con il quale non si capisce, perché lui parla solo cinese, mentre il figlio parla solo inglese – e ha una relazione con una donna che occupa in tutto e per il tutto il posto simbolico della madre. La scomparsa del tempo organizza le relazioni in modo liscio, senza stacchi generazionali, perennemente incestuose e orizzontali. Tutto è uguale a tutto il resto e non c’è più niente che faccia differenza.
Il tema di questa terza parte è allora quello della rimozione non solo della madre, ma anche della propria casa, della propria origine e in definitiva anche della Cina stessa, che proprio nel momento in cui diventa globale si trasforma in pura astrazione e si universalizza. Il film è infatti costruito per mezzo di progressive generalizzazioni: dallo Shanxi dove si parla solo di dialetto locale; alla Cina della Pechino oggi dove si parla solo il cinese fino all’Australia (e in definitiva il mondo interno) dove si parla solo inglese e dove le comunicazioni sono risolte da un onnipresente google translate. Il capitalismo realizzato vuol dire allora perdita della lingua, perdita del tempo e dello spazio: e dunque necessariamente anche perdita d’identità. Dollar infatti non sa chi è sua madre, non sa da dove viene, non sa dove è nato e dunque non sa chi è. La dimensione soggettiva dello spazio e del tempo liscio del capitalismo è quella di una paradossale perdita del desiderio (Dollar infatti dice che vuole lasciare l’università perché non gli interessa niente).
Jia non costruisce però l’immagine cupa e uniforme di un successo della modernizzazione capitalista senza alcuna frizione e senza alcuna speranza di cambiamento. C’è, infatti, qualcosa che rimane e che non può essere cancellato, nonostante questi cambiamenti sociali ci restituiscano un mondo sempre più piatto, sempre più liscio, sempre più dispiegato su un eterno presente. Dollar, nella sezione conclusiva del film, a volte percepisce una sensazione di déjà vu, come se la rimozione del passato non potesse che provocare inevitabilmente un ritorno del rimosso. La donna con cui ha una storia d’amore è troppo somigliante a sua madre – e infatti chiederà a lei di aiutarlo per andare a trovare sua madre – così come la canzone che la madre gli cantava (Take Care di Sally Yeh, successo chinese pop degli anni Novanta) quando gli viene casualmente proposta a scuola gli sembra essere diversa dalle altre. Il processo di cancellazione del passato – che infatti è tecnicamente una rimozione – non può mai avere un successo definitivo. Qualcosa del passato è destinato a lasciare tracce, anche quando non sappiamo bene quale sia il vero significato di queste tracce.
La traduzione letterale del titolo del film in cinese sarebbe infatti: “i vecchi amici sono come le montagne e i fiumi. Immutabili”. La questione che interessa Jia non è allora tanto quanto il capitalismo completamente dispiegato sia in grado di creare effettivamente uno spazio liscio che tutto cancella e che tutto equalizza, ma quanto alcune striature, alcune tracce del nostro passato, alcuni ritorni del rimosso saranno letteralmente immutabili e destinati a ritornare in continuazione. Che lo vogliamo o no. Perché le tracce del passato non sono ricordi con un contenuto specifico, ma semmai buchi nella nostra vita presente che chiedono soltanto di essere riattivati nel futuro. Proprio come canta ancora una volta Tao alla fine del film sulle note di Go West. Anche quando tutto sembra essere diventato liscio e senza tempo, c’è ancora qualcosa che è possibile immaginare per il nostro futuro.
(testo originariamente pubblicato su Le parole e le cose)
[1] Si è soliti dividere storiograficamente il cinema cinese secondo “generazioni”: la quinta sarebbe quella che si è imposta sulla scena dei festival internazionali durante gli anni Ottanta con registi come Zhang Yimou o Chen Kaige. Si trattava di un gruppo di registi cresciuti dopo la fine della Rivoluzione Culturale e che hanno avuto un ruolo di vicinanza diretta o indiretta al movimento di Tienanmen. La sesta generazione è quella che invece ha iniziato a farsi conoscere negli anni Novanta (spesso con produzioni che bypassavano il visto di censura del governo in vista o di una distribuzione internazionale o del mercato undeground interno) e che ha vissuto sulla propria pelle la grande modernizzazione capitalistica degli anni Novanta e Duemila. Molti di essi documentaristi, tutti estremamente legati a temi sociali e politici (alcuni di essi in polemica con lo stato, ma non tutti, la caricatura dell’artista dissidente a tutti i costi è spesso una mitologia euro-americana), hanno rappresentato uno dei banchi di riflessioni più avanzate sulla trasformazioni della Cina contemporanea.
[2] Ci sarebbe poi da aggiungere che il timore reverenziale nei confronti dell’occidente è assolutamente assente in ogni cinese che abbia un minimo ruolo da classe dirigente. Vi è semmai la totale consapevolezza di essere già oggi la più grande superpotenza mondiale.