L’inquadratura di un conteggio di denaro precede, a pochi minuti dall’avvio, i titoli di testa di Anime nere di Francesco Munzi. Si tratta dei viziosi proventi dei traffici illeciti di Luigi (Marco Leonardi), di cui beneficia in sordina il fratello Rocco (Peppino Mazzotta), imprenditore di stanza a Milano, e da cui il maggiore, Luciano (Fabrizio Ferracane), vuole tenersi a distanza. Sullo sfondo, le nubi dell’Aspromonte e la macchia della ‘ndrangheta: due elementi che, come un laccio piuttosto rudimentale, vincolano le storie e i sentimenti dei tre fino all’emergere, in maniera circolare, di un nuovo dramma. Liberato dalle ingenuità di un film comunque interessante e per certi versi dirompente come Saimir (2004) e del meno riuscito – poiché soffocato da stereotipi e discutibili scelte in sede di sceneggiatura – Il resto della notte (2008), Munzi firma quello che è a oggi il suo film più maturo.
Plasma e rimodella un immaginario – quello della criminalità organizzata nel Mezzogiorno – seguendo percorsi tradizionali, e schivando licenze e concessioni che avrebbero reso il film un lavoro eccessivamente "sentito": è proprio la secca, verosimile – eppure mai "ricalcata" – verosimiglianza a fare di Anime nere un dispositivo importante per comprendere, una volta per tutte, che si può parlare di Mezzogiorno e mafie senza ricorrere a ovvietà da bigino. Attraverso la forza di un dialetto strettissimo, di un lavoro sul sonoro (realizzato da Stefano Campus) che contribuisce a rendere con efficacia i tremori di una tensione crescente e foriera di sangue, e di un clima di morte che rende notturno anche il giorno, la Gente in Aspromonte di Munzi si trascina con circospezione, martoriata dai drammi del passato, irrisolta negli interrogativi del futuro e divisa in intestine lotte di priorità.
I personaggi, con un asterisco importante per i fratelli protagonisti, sono trattati con un rispetto quasi anomalo per le consuetudini dell'attuale cinema italiano; ed è quasi un divertente controsenso constatare come, pur nella prossemica della famiglia criminale-tipo, Munzi (anche sceneggiatore insieme a Maurizio Braucci e Fabrizio Ruggirello) sia in grado di procedere senza imbastire macchiette e figurine, ma insistendo sull’umanità dei caratteri e sull’incisività che la essa mantiene nell'imminenza della tragedia. Gli ingranaggi che muovono i tre fratelli protagonisti si ricollegano a nature differenti, e incontrano i nuovi ardori di Leo (Giuseppe Fumo), il figlio di Luciano che brama la fuga e, al contempo, non è immune al virus familiare; e Ferracane, Mazzotta e Leonardi riescono, con impressionante abilità, a fornire tre prove attoriali di istintivo vigore, cui Munzi regala primi piani immorali, molte ombre e poca luce. Circondati da un coro di caratteristi (come Aurora Quattrocchi, matrona in lacrime e in sottrazione) e attori non professionisti, i fratelli viaggiano tra timidezza e terrore, guidati da una struttura narrativa che fonde cronaca e tragedia, approfondito studio sui caratteri e consapevolezza di un paesaggio luttuoso e omicida.
Sarebbe poco sincero, tuttavia, disconoscere ad Anime nere la sua colpa più grave, un finale dal sapore vagamente moraleggiante (e preso di peso da Fratelli di Abel Ferrara) che rimette in discussione, in forma minima, quanto di positivo l’opera porta con sé; nel gesto finale di uno dei protagonisti si nasconde, in fondo, la noiosa ipocrisia di chi guarda a certe storie e a determinate vicende con binocoli dorati e i baffi freschi di barbieria. Una scelta discutibile, quasi reazionaria nel suo ergersi a catalizzatrice finto-fatalista e drastica di una condizione storica e sociale drammatica. Se il film avesse avuto il finale – magari ordinario, ma coerente con la disposizione del film – ipotizzato nel dialogo tra la “diversa” Barbora Bobulova e il marito Rocco, si sarebbe evitata l’esistenza di un epilogo a sorpresa che probabilmente piacerà tanto ai salotti, soddisfatti nel vedere il male «estirpato» alla radice e la vittoria di una superiorità morale che sovrasta ogni legame. Peccato.
ANIME NERE, regia di Francesco Munzi, Italia/Francia 2014, 103'.