Ho capito quanto le serie tv fossero diventate improvvisamente importanti per la mia generazione una sera di alcuni anni fa. Chiesi ad un amico se volesse venire al cinema con me. Mi rispose che avrebbe passato la serata a casa con la propria fidanzata.
Il dialogo che seguì fu:
“Ma che fate a casa?”
“Quello che fanno le coppie quando stanno a casa.”
“Sesso?”
“No, guardiamo una serie tv.”
Fino a pochi anni fa, se aveste chiesto a un cinefilo cosa pensasse della televisione in generale, e delle serie televisive in particolare, egli vi avrebbe probabilmente risposto con un semplice anatema: “spazzatura”.
Cosa è successo nel frattempo?
L’interesse attorno alle serie televisive è cresciuto, e quello che era un soggetto di nicchia o un segreto guilty pleasure di molti critici, studiosi e cinefili, ha ora assunto un ruolo centrale nelle discussioni in riviste e università, bar e social media.
Che cosa ha sdoganato la televisione nella percezione di spettatori e cineasti stessi?
L’ascesa della serie nell’ambito dei media studies ha senza dubbio favorito un ricambio generazionale e ideologico. Ha permesso a quanti per anni avevano affermato “il cinema è morto” e a tutti coloro che non avevano mai amato il cinema, di poter smettere definitivamente di andarci.
A chi detestava i lunghi dialoghi fra adolescenti parigini dei film di Eric Rohmer ha dato la possibilità di sostituirli con le battute pronte e catchphrases dei teenager di Josh Whedon (Buffy l’ammazzavampiri, 1997 – 2003). Ha concesso a molti autori caduti nell’oblio (giustamente o meno), svuotati, una seconda chance per provare la propria conoscenza del mestiere e in rarissimi casi l’opportunità di utilizzare il mezzo televisivo per sperimentare ciò che è precluso dalla durata di un film.
Sarebbe ingiusto non sottolineare come anche cinefili e cinefaghi un tempo tolleranti solo verso serie d’autore quali Twin Peaks (Mark Frost, David Lynch, 1990), Heimat (Edgar Reitz, 1984) o Berlin, Alexanderplatz (Rainer Werner Fassbinder, 1980), abbiano in gran parte messo da parte la propria diffidenza e impugnato nelle pallide e nervose mani il sudaticcio telecomando (o mouse).
Ed è utile partire proprio dall’ultimo dei registi citati per fare un po’ di chiarezza e provare a tracciare alcune coordinate nel panorama sconfinato dei rapporti fra cinema e serie tv.
Seppure criticato da molti, Fassbinder capì in un momento cruciale come quello a cavallo fra gli anni ‘70 e ‘80 che l’accesso a strutture e risorse produttive della televisione offrisse possibilità ad autori, spesso privi di sostegno istituzionale, di realizzare progetti e consolidare gruppi di lavoro in una logica laboratoriale derivata idealmente dal teatro (a tal proposito si potrebbe scrivere di Ingmar Bergman prima e di Lars Von Trier in tempi recenti).
È risaputo che fra le maggiori influenze del regista tedesco vi fosse il connazionale Douglas Sirk, per il quale Fassbinder recitò in Bourbon Street Blues, cortometraggio del 1978. Sirk stesso nell’ultima fase della carriera fu insegnante presso la scuola di cinema e televisione di Monaco di Baviera. Negli stessi anni scrisse in una autobiografia (Sirk on Sirk, Viking Press, New York, 1972) queste parole:
“This is the dialectic: there is a very short distance between high art and trash, and trash that contains the element of craziness is by this very quality, nearer to art.”
Prendiamo nota delle due parole chiave in questa citazione che risulteranno utili nella nostra riflessione: trash e art. Prima di iniziare però facciamo un ulteriore salto indietro: due anni dopo l’arrivo di Sirk a Hollywood (1937), il critico d’arte Clement Greenberg pubblica su Partisan Review uno dei propri saggi più popolari: Avant-garde and kitsch. Sono innumerevoli i tentativi di sistematizzazione dei due poli nella dialettica fra arte e cultura popolare. Tuttavia sintetizzeremo il pensiero di Greenberg individuando due elementi fondamentali: l’avanguardia muove da una riflessione profonda sul proprio linguaggio espressivo, sul medium e sulla sua specificità (materiale o concettuale) e da questo punto di partenza cerca di innovare e liberarne il potenziale rivoluzionario; il kitsch riproduce solo l’effetto di quel linguaggio, l’apparenza sclerotizzata nell’immaginario popolare. Per Kundera quello del kitsch è un mondo senza morte né deiezioni. La foto di un leader politico che abbraccia un bambino, una parata di regime: è “l’oggi fossilizzato” del cinema di intrattenimento. Se in un film, l’ultimo luogo dell’epos e ontologicamente stereotipico, si può riconoscere il kitsch nel suono di una porta che scricchiola o nella bionda svampita di una detective story, nella televisione, tradizionalmente, il suo regno è quello della soap opera.
Che cos’è la soap opera, con i suoi salotti asettici, le star mummificate e soprattutto le ripetute resurrezioni dei protagonisti se non l’epitome del kitsch? Nella soap la morte è un virus passeggero.
Sulla forma, sulla sperimentazione nel linguaggio filmico, sull’estetica della serie tv lasceremo le dovute considerazioni ad altri. Che si tratti di una fotografia “leccata” e di minuziose scenografie (Mad Men, 2007, Boardwalk Empire, 2010) o di una regia frenetica e di un montaggio spezzettato (Battlestar Galactica, 2004 – 2009, American Horror Story, 2011), è difficile ricordare un solo minuto di televisione americana degli anni 2000 che abbia proposto qualcosa di ambizioso o degno di nota. Concentreremo l’attenzione dunque essenzialmente sull’aspetto narrativo, con il quale gli autori delle serie televisive hanno dovuto, volenti o nolenti, confrontarsi.
Il primo caso sul quale vogliamo soffermarci è quello che ha senz’altro avuto l’impatto più decisivo sulla cultura popolare: Lost (2004 – 2010).
Il mito dell’autore J.J. Abrams, indicato durante il periodo di maggior successo della serie come una sorta di mistico o visionario, è stato già sfatato dai suoi numerosi fallimenti nei successivi lavori per la televisione, oggetto di frequenti cancellazioni (Alcatraz, 2012, Undercovers, 2010 – 2012, Almost Human, 2013 – 2014). Ingaggiato per rivitalizzare franchise pluriennali in sofferenza (Mission Impossible, Star Trek, presto Star Wars), Abrams ha dimostrato i propri limiti di sceneggiatore ricorrendo a continui deus ex machina fantascientifici, riferimenti cabalistici e cameo di vecchi personaggi per sbrogliare impianti narrativi deboli e confusionari fin dalle fondamenta.
È emerso nel frattempo un dato fondamentale: il creatore di Lost non fece altro, nel 2004, che ideare il pilota, senza avere la minima idea di come sviluppare il gigantesco e traballante impianto narrativo dei seguenti 117 episodi. Aldilà dei giudizi sulla riuscita di tale progetto, è evidente che esso abbia segnato un punto di svolta nella narrazione seriale. Hollywood aveva negli stessi anni abbandonato definitivamente i tre atti e la struttura “forte” ereditata dal cinema classico (del quale non costituiva l’essenza ma solo lo scheletro, ciò che per la narrazione orale poteva essere anticamente la metrica) nel cinema mass-cult così come in quello mid-cult. Il genere del film d’avventura rivitalizzato negli anni '80 aveva già iniziato a fare posto agli adattamenti da videogame, fumetti, cartoni animati, giocattoli.
I soggetti originali quasi scomparsi per essere sostituiti come mai prima nella storia del cinema americano da biografie, remake, sequel e prequel, spin-off, reboot e innumerevoli altre fonti spurie. Il primo successo di Lost è stato quello di riempire questa voragine, servendosi di tutto quanto fosse stato abbandonato dal cinema hollywoodiano in questi anni. Abbozziamo a mano libera un elenco di figure, meccanismi e materia estetica che gli autori hanno riesumato rovistando nel patrimonio, o discarica, della cultura popolare: L’Isola del Tesoro di Stevenson, L’invenzione di Morel di Bioy Casares, tutta la letteratura di Philip K. Dick, quella di Flann O’Brien e Jules Verne, Dickens, la Bibbia, le serie tv Fantasilandia, L’isola di Gilligan, Survivors, Ai Confini della realtà, X-Files, The Brady Bunch, il Risiko, la caccia al tesoro e la sciarada, il videogame Monkey Island, i filosofi Locke, Hume, Jeremy Bentham, Jean-Jacques Rousseau, gli scienziati Fibonacci, Faraday, Ockham, B.F. Skinner, Star Trek, Star Wars, Ritorno al Futuro, Indiana Jones, Il Mago di Oz.
Il secondo successo della serie è consistito nell’utilizzare alcuni “effetti” e cliché di un impianto narrativo classico, esasperandoli fino alla saturazione e alla definitiva sublimazione. Se in precedenza altre serie televisive avevano sfruttato la possibilità della continuity per sviluppare un arco narrativo oltre la propria vita naturale, Lost l’ha prolungato artificialmente perseverando fino al diabolico. I continui cliffhanger, le celebri “domande” sui misteri dell’isola, hanno funzionato da defibrillatore per un mastodontico, infinito secondo atto. Un conflitto che non ha risoluzione, in opposizione al movimento teleologico della struttura forte in tre atti, ma si rigenera in un ciclo narrativo di partenogenesi. Come in una soap anche i personaggi la cui storia viene portata ad una (seppur lunga e lacrimosa) conclusione vengono resuscitati con viaggi nel tempo, dimensioni parallele, flashback e flashforward o letterali reincarnazioni. La metafora più comune usata dagli spettatori per “l’isola” è stata quella del purgatorio. Un luogo escatologico in cui a essere intrappolato non è il personaggio, bensì lo spettatore stesso. Non è un caso che Lost abbia fallito proprio nel finale, oggetto di critiche feroci e proteste anche dei suoi adepti più fanatici. Il terzo e più innovativo risultato ottenuto dagli autori è stato quello di creare un luogo escapistico, infantile e molto riconoscibile, nel quale alla domanda del bambino “cosa succede dopo?” vi fosse sempre una risposta, o meglio un’altra domanda. Realizzato il passaggio dal purgatorio al paradiso, esplicitato dal finale dalla serie, interrotto il suo moto perpetuo, tale mondo non aveva più ragione di esistere.
Torniamo alla citazione di Sirk. Lost è riuscito a riciclare qualcosa di molto vicino alla spazzatura: elevare il trash, il rifiuto risultante dal ciclo di vita del blockbuster hollywoodiano, a qualcosa di più alto, di folle, e di innegabilmente rivoluzionario. Se questo sia stato “arte” cercheremo di stabilirlo alla fine di queste riflessioni.
Come vedremo, serie con ambizioni superiori e minore pressione commerciale hanno fallito dove Lost ha vinto brillantemente.
Con I Sopranos (1999 – 2007) la psicanalisi ha fatto irruzione sul piccolo schermo. Un soggetto di difficilissmo adattamento, come la storia del cinema ha ampiamente dimostrato, ma estremamente efficace in televisione (In Treatment, 2008 – 2010, Curb your Enthusiasm, 2000).
Film anomali eppure interessanti quali Freud: The Secret Passion di John Huston (1962), The Cobweb di Vincente Minnelli (1955) o il recente A Dangerous Method di David Cronenberg (2011) si sono scontrati con la natura discorsiva del “metodo”. Il percorso dell'analisi, il flusso di pensieri, la digressione procede in direzione opposta a quella “verticale” dello sviluppo drammatico in sceneggiatura. Il mezzo televisivo, con i suoi tempi e la sua durata, ha offerto negli anni 2000 possibilità inedite per confrontarsi con il tema. I Sopranos, servendosi del sostegno di un immaginario di riferimento consolidato come quello del gangster movie, riesce a mostrare uno spaccato del percorso di un singolo personaggio, senza portarlo a una forzata conclusione. L’analisi non si conclude con una guarigione né tantomeno con una redenzione, e le idiosincrasie di Tony non trovano alcuna chiusura. Tutto si interrompe con un fotogramma nero, che al contempo ipostatizza e rende infinita la sospensione che aveva caratterizzato tutta la serie. I frammenti infuocati dell’universo imploso in questo spazio vuoto e oscuro, continuano ancora oggi lentamente a muoversi nell’etere: Mad Men, Boardwalk Empire e, in una certa misura, House of Cards (2013, remake di una serie britannica del 1990) possono considerarsi tutti epigoni de I Sopranos.
Le tre storie raccontano di personaggi in una crisi di mezza età, schiacciati fra la generazione precedente e quella successiva, caratterizzati da un rapporto problematico con figure parentali. Qui a imperare è solamente “l’effetto” Tony Soprano: la nevrosi da destino (wiederholungszwang), la ricaduta continua nelle medesime situazioni ed errori, il disperato vitalismo espresso nella lotta per prevalere nei rapporti di forza sociali e sessuali. Il fallimento di questi progetti sta nel poco coraggio dimostrato nello sviluppo dell’arco narrativo del personaggio. Il modello è quello, perlopiù maschile, di sociopatico ad alta funzionalità in una lotta titanica per l’appagamento dei suoi desideri. Con i successi del protagonista gli autori ottengono al contempo un altro risultato: titillare e fidelizzare un pubblico intimamente complice. Stagione dopo stagione la formula e il risultato rimangono invariati per compiacere uno spettatore abitudinario e ansioso di vedere solo ciò che è familiare, riconoscibile. Se la serie I Sopranos è riuscita nel mostrare l’incontrollabile e caotico scorrere di un’esistenza alla deriva, Mad Men ne ha imbottigliato una parte in un'accattivante confezione colorata, gli anni ’60, e l’ha riprodotta in centinaia di esemplari per spettatori consumatori.
Che cosa attrae lo spettatore nella parabola di un adulto che rifiuta di crescere, o in quella di un uomo di mezza età che rifiuta di invecchiare?
La serie televisiva, come scritto nell’incipit di questo articolo, sembra essere una questione generazionale. La soglia di attenzione dello spettatore medio va abbassandosi sempre di più: un film è troppo lungo, si dice. L’episodio medio di una “serie adulta” americana, ha una durata di 40 minuti. La visione raramente si ferma a un singolo episodio, e più spesso viene esperita come una “maratona” di due o più parti. È all’opera una dinamica molto chiara, provata dalla recente uscita di trilogie, saghe al cinema, nelle quali i capitoli vengono distribuiti in tempi molto più serrati di quanto fatto nel passato recente (The Matrix, 1999 – 2003, Il Signore degli Anelli, 2001 – 2003).
L’esperienza del cinema, della “dinamite dei millesimi di secondo” sembra ormai quasi fare paura. L’appagamento reale, derivante dall’investimento emotivo implicato nell’esperienza e nella fruizione di quella che ancora oggi può essere un’opera d’arte, fa sempre più spesso posto al soddisfacimento di un bisogno compulsivo, di un consumo.
Una analogia crudele, validata dal personaggio di Don Draper in Mad Men con la lettera aperta che titola questo saggio: si pensi a ciò che per un fumatore è la sigaretta. Il dilatarsi del tempo, la pausa, il progressivo e inesorabile avvicinarsi alla morte. Come per il fumatore, in chi si rende conto di consumare voracemente la serie televisiva vi è un compiaciuto e colpevole senso di autodegradazione. Centinaia, migliaia di ore di vita si dissolvono nell’ascolto di “spiegoni”, ripetizioni, in tempi morti e passaggi a vuoto. È prevedibile che presto la serie tv lasci il posto ai webisodes, alle clip di Youtube. Forme sempre più brevi, più adatte ad occupare o consumare il tempo di una pausa, vicino ai circa 3 minuti di una sigaretta.
Il deficit emotivo dello spettatore viene compensato dal ritorno a un luogo, quello della serie, familiare e rassicurante. Le possibilità del linguaggio televisivo non vengono sfruttate come una risorsa, ma usate come la stampella per sostenere la debolezza di autori a corto di idee, costretti ad allungare e annacquare lo stesso brodo per anni.
Eppure non tutte le serie tv seguono questo canovaccio, non tutte sono occasioni sprecate. The Wire (2002 – 2008) fa da contraltare ai precedenti esempi negativi.
Si tratta di un racconto corale, la cui durata pluriennale concede agli autori la possibilità di sviluppare parabole di dannazione, di rinascita, di redenzione. Di dimenticare alcuni personaggi e di ritrovarli anni dopo, identici o profondamente cambiati. Una gigantesca sinfonia metropolitana della città di Baltimora, alla fine della quale si ha la sensazione di aver imparato qualcosa di nuovo su un luogo in precedenza sconosciuto, su personaggi veri, vivi, sulla società americana in trasformazione dell’ultimo decennio. Un racconto nel quale gli autori hanno avuto il coraggio di responsabilizzare lo spettatore a tenere insieme i fili, in cui tutti i pezzi hanno la loro importanza, nel quale azioni, decisioni prese dai personaggi hanno risonanza a distanza di anni. Ogni stagione ha come tema un livello differente della città: la strada, il porto di Baltimora, l’edilizia, la scuola, i media. David Simon, autore e giornalista del quotidiano The Baltimore Sun, è riuscito grazie ad una minuziosa osservazione della metropoli a creare un microcosmo oggettivato, nel quale i protagonisti possono scomparire per interi episodi, lasciando il posto a figure minori la cui epica quotidiana non è meno coinvolgente. È possibile riguardare The Wire al contrario, dall’ultimo al primo episodio, senza perdere il senso dell’orientamento, e al contempo restando sorpresi dai dettagli, dai dialoghi, dalla loro verità. Tutto ciò forse è consentito soltanto in una serie tv: il paziente e graduale avvicinamento alla verità di un luogo, dei personaggi che lo abitano. Gerhard Zwerenz suggeriva come già nel periodo classico l’arte fosse “forma fenomenica della verità”. Guardando un film di Sirk è possibile stupirsi all’improvviso, notando sotto l’imponente impianto del melodramma, sotto il denso technicolor e le performance stilizzate e grossolane di Rock Hudson, qualcosa di antico e di commovente. Come in molti musical, noir, western, sotto la spessa patina di un prodotto pensato per la società dei consumi, senza la pretesa di essere un’opera d’arte, si intravede una tensione, gratuita, inconsapevole, verso qualcosa di più alto. È così che è sempre stato nella cultura popolare, fin dall’antichità: come scrive Sirk esiste una “distanza” sottile, che a volte, forse per caso, viene superata. Se la televisione è riuscita a “rubare” pubblico al cinema lo ha fatto disilludendolo, convincendolo subdolamente che non ci si debba più porre questi interrogativi, e che l’immagine in movimento non sia che un altro bene da consumare.
Qualcuno mi dia una sigaretta.