Potrebbe intitolarsi “Il mondo di ieri”, il nuovo film di Wes Anderson, ottavo lungometraggio della sua carriera di regista e primo ad essere palesemente ambientato nel passato. Non si tratta più del tempo del ricordo, che popola da sempre la sua filmografia, capace di dialogare perfettamente con le nuove generazioni ancorate a una visione nostalgica del passato, possibilmente il recente passato, quell'altrove in cui si era bambini incantati o ragazzi perduti, in un corollario di vestiti a righe e giradischi colorati. Il Grand Budapest Hotel ci rimanda a un altro secolo, il Novecento, attraversato dalla progressiva scomparsa dell'aristocrazia e del suo modus vivendi, da una Mitteleuropa che verrà fatta a pezzi in seguito all'avvicendarsi di due conflitti mondiali, al declino di una centralità politica, storica e culturale del Vecchio Continente che fino a quel momento era stata raramente messa in discussione. Un tempo mai vissuto, solo sognato (probabilmente) da un regista che ha sempre esibito il suo versante dandy, attratto dalla perfezione del decoro liberty e dalla centralità della prospettiva rinascimentale.
Proprio la fascinazione per il “mondo di ieri” è tematizzata dalle tre cornici della vicenda, volte a suggellare la distanza incolmabile tra ciò che è stato e quello che ne rimane. I fasti del lussuoso hotel sono mortificati dalle geometrie severe della sua trasformazione in seguito alla guerra (una sovietizzazione dell'architettura, che nasconde nella sua regolamentazione la perdita di ogni voluttà) e proprio in queste fattezze scopriamo il luogo cardine della vicenda: qui un giovane scrittore riceverà, in una sorte di ideale staffetta, il segreto che sta dietro le mura dell'edificio, ormai in funesta decadenza. La hall spoglia, in cui i pochi avventori sembrano relitti di una società perduta o giovani imberbi spaesati e solitari, rivivrà del suo antico splendore, trasformando l'ordinarietà di un albergo nella fiaba di una crescita morale, avventurosa e romantica pronta a soddisfare i desideri di appagamento degli spettatori. Oggi e ieri, o meglio ieri e altro-ieri, visto che un attimo prima si assiste al racconto dell'ormai anziano scrittore che, disturbato da due giovani nipotini, cerca di creare un collegamento verso questo momento particolare della sua vita. Ma neppure quell'attimo è il presente: si tratta già un passato come ci indica la prima inquadratura, dove la statua mortuaria dello scrittore troneggia padroneggiando perfettamente lo spazio dell'assenza.
Solo attraversando le diverse cornici, dai tempi e dalla valenza diverse, si arriva a ripercorrere una storia che ci parla innanzitutto di un cinema che non esiste più: il cinema classico. Negli evidenti (e dichiarati) rimandi all'opera di Lubitsch, Anderson trova la chiave per attraversare un tempo e uno spazio che non gli appartengono, trasformandoli in una fantasmagoria e ricollegandosi alla pratica degli “esuli” europei che hanno reso grande Hollywood. L'ideale di un'Europa, trionfo dell'arte, dell'eleganza e della nobiltà, è riassunto nella creazione dello stato immaginario di Zubrowka – paese da operetta proprio come quelli creati da Lubitsch e Minnelli – in cui affiorano le turbolenze che hanno contraddistinto la storia europea. Sarebbe sbagliato voler collegare la storia a un'epoca precisa del Novecento, perché se certamente il potere che avanza è quello nazista, dall'altra parte l'assassino della nobile Madame M. (invecchiata e sardonica Tilda Swinton) rimanda a un'atmosfera da inizio secolo, come le figure spettrali dei discendenti della famiglia aristocratica (vampiri a cui è negata la parola). Così,il concierge Gustav H. (Ralph Fiennes, finalmente libero di esprimere il suo talento sottile e pungente) sembra uscire dalle pagine accurate di Stefan Zweig, un eroe che ben miscela tratti maschili e femminili, in un mix che non gli impedisce di rivestire la figura di padre simbolico, la cui mancanza è da sempre perno dell'opera di Anderson.
Nell'avventurosa vicenda narrata, che in un solo colpo riunisce commedia romantica, cinema carcerario (con tanto di rocambolesca e studiatissima fuga), film di guerra e melodramma, si compie il percorso di crescita del piccolo “lobby boy”, prescelto da Gustav come suo erede ideale: un viaggio iniziatico che per la prima volta nel cinema di Anderson permetterà all'armonia di trovare un suo compimento, e non una continua reiterazione come accadeva per i figli mai cresciuti dei Tenenbaum o ai tre fratelli di The Darjeeling Limited. Nel passato (o forse solo nella narrazione) esiste ancora una possibilità di scambio tra diverse generazioni, che non esclude il drammatico momento della separazione (quasi un sacrificio, sottolineato dai toni cupi del bianco e nero che irrompono nelle delicate sfumature pastello tipiche della fotografia di Robert Yeoman) e non travalica comunque la mancanza di libertà dell'uomo. Eternamente in divisa, i personaggi di Anderson possono soltanto scambiarsi di ruolo (indossando nuove uniformi) ma mai abbandonarsi alla libertà di essere se stessi, fuori dalla maschera sociale imposta o cercata. È stata definita “sineddoche materiale”: una strada per uscire da semplici psicologismi e per addentrarsi nelle pieghe di una società dominata dal consumismo, in cui riempiendo le proprie stanze di simulacri del sé si lasciano vuoti i soggetti, incapci di vivere il proprio tempo.
Nel presente restano solo statue e risuona l'eco di bambini in festa, pronti a rompere l'idea di cristallizzare il racconto in una forma, capaci di distogliere l'attenzione della macchina da presa, di rompere il quadro e mandare uno sberleffo a chi vuole ancora appagare il suo desiderio spettatoriale.
The Grand Budapest Hotel, regia di Wes Anderson, USA 2014, 100'.