Roberto Minervini è un giovane regista che di italiano ha il nome, il cognome e (forse) la nazionalità. Nasce e cresce a Monte Urano, nelle Marche, e dopo vari impieghi d’ufficio si trasferisce a New York per seguire la moglie Denise Lee. In seguito all’11 settembre perde il lavoro e decide di iscriversi ad un master in “Media Studies”, che una volta concluso fa subito fruttare volando nelle Filippine a insegnare cinema. Vicende personali – la malattia della suocera – lo fanno approdare a Houston, in Texas, dove nel 2011 realizza la sua opera prima, The Passage. Il film passa al festival di Bruxelles e, a distanza di poco, Minervini firma la seconda regia, Low Tide, selezionato a Venezia 2012 nella sezione Orizzonti. Nel 2013 il suo terzo film, Stop the Pounding Heart, passato agli Special Screenings di Cannes, ottiene enorme risonanza e parecchi premi.
Un percorso, un regista, che non hanno nulla di nazionale. Né nelle modalità produttive che nei risultati artistici. Di più: Minervini è, oggi, un southern director, un filmmaker che non può non girare e raccontare quelle latitudini, quelle società. Un autore che ha sovrapposto le proprie radici marchigiane a quelle dell’East Texas, le proprie paure alle ferite delle badlands, e ciò che tiene assieme lui e il suo doppelgänger sono temi universali e particolari assieme: immigrazione, welfare, armi, istituzioni, integralismo religioso.
Il suo metodo di lavoro è tanto preciso e calibrato quanto libero e curioso. Un cinema che viene prima, un cinema dell’attesa, che inizia da lontano, dall’insinuarsi di un percorso antropologico, amicale, che si fa costruzione cinematografica grazie a minime indicazioni di regia, di sceneggiatura, ricomposte, direzionate, in sede di montaggio con Marie-Hélène Dozo (abitué dei Dardenne). La trilogia texana di Minervini occupa uno spazio sottilissimo tra fabula documentaristica e intreccio finzionale, dove il disorientamento razionale ed emozionale si perde negli innumerevoli, onnicomprensivi, himself ed herself che narrano e mostrano allo stesso tempo.
Il regista è, in fin dei conti, un umanista. Appiccicato, stropicciato ai suoi personaggi, così tanto da far divenire il proprio sguardo pura ideologia, articolazione di un’idea di mondo e delle sue relazioni, che non traspare dal climax narrativo o dall’agnizione, quanto dalla ricerca incessante dello sguardo su quei corpi, quei movimenti, quei visi. E che si sublima nei titoli delle sue opere, effigi o bassorilievi di una precisione e affilatezza quasi classica, vere bilance drammaturgiche di quello che si è appena visto: il passaggio, bassa marea, ferma il battito del cuore.
Partiamo dall’immediato: ospite della rassegna organizzata da Uzak e dall’Apulia Film Commission “Registi fuori dagli sche(r)mi II”; partecipazione di Stop the Pounding Heart al Tertio Millennio Film Festival; poi, sempre con questo tuo ultimo lavoro, vittoria del Premio Speciale della Giuria di Internazionale.Doc all’ultimo TFF e primo premio al Filmmaker Festival 2013; infine, uscita progressiva in sala del film per i tipi della I Wonder Pictures. Un poderoso salto in avanti rispetto a un anno fa, quando eravamo davvero in pochi, pochissimi, ad aver visto il tuo cinema.
Un po’ è stato l’effetto Cannes, credo, ma lo vedo anche come un ulteriore passo in avanti di un percorso: seppure Low Tide l’avevano visto in pochi, ho continuato a costruire, a guadagnarmi visibilità. Le fondamenta le avevo gettate con Low Tide – ma in parte anche con The Passage. E Stop the Pounding Heart ha giovato di questo lavoro che mi ha fatto "emergere dal “sottosuolo”, per così dire.
Questa progressione di partecipazioni, premi, visibilità, offre parecchi spunti riguardo la triangolazione (nel tuo caso proficua) che si può creare tra festival-critica-distribuzione. Dopo Venezia 2012 con Low Tide e Cannes 2013 con Stop the Pounding Heart, le sempre più numerose segnalazioni da parte della stampa (quasi esclusivamente online, con rare eccezioni, come quella di Giulia D’Agnolo Vallan su “il manifesto”) e la presenza in festival “strategici” come il TFF e Filmmaker, hanno creato un feedback di interesse che ha portato il pubblico alle rassegne e, adesso, il film al pubblico, grazie alla distribuzione in sala.
Mi diceva appunto un ospite a Torino – personaggio di un certo rilievo nel nostro panorama cinematografico nazionale – che da tempo il mio nome circola e che mi si è creata intorno una sorta di “aura”, perché poi i film, concretamente, nessuno riusciva a vederli. Finalmente grazie a I Wonder Pictures le cose stanno cambiando. Devo dire, però, che Low Tide aveva trovato una sua distribuzione italiana con Minerva Pictures, sebbene non sia ancora uscito nelle sale. Mentre è vero che Stop the Pounding Heart sta raccogliendo parecchi consensi: ho fatto una ventina di festival e il film sta viaggiando, anche se il responso, come dicevi tu, è “limitato” – virgolettato, perché poi non è un limite – a poca stampa e alle critiche online, che peraltro funzionano molto bene.
Torniamo indietro agli inizi del tuo lavoro, anzi, alla vita che hai fatto prima di cominciare a girare film.
Per necessità di natura finanziaria, ho fatto tutt'altro per la maggior parte della mia vita. Sono nato e cresciuto in una famiglia e in un ambiente dalle grandi velleità artistiche: mia madre è pittrice, ed entrambi i miei genitori, nel loro piccolo, sono stati attori teatrali. Da loro ho ereditato la voglia di dedicarmi alle arti a tempo pieno, ma non ho mai potuto farlo. Di conseguenza gli studi obbligati sono stati quelli di Economia e Commercio e i lavori obbligati quelli d’ufficio – quando c’è n’era, di lavoro… Poi, tra mille difficoltà, sono riuscito ad approdare in America, con un altro impiego. Una volta perso questo lavoro a causa della tragedia dell’11 settembre, sono riuscito a pagarmi un master in “Media Studies”. A quel punto, avevo già superato i trent’anni. Parliamo quindi di un inizio tardivo, anche se credo che abbia giovato perché tutto questo bagaglio di esperienze, così come le difficoltà che ho incontrato lungo il percorso, contribuisce al mio modo piuttosto libero di fare cinema: quando lavoro ai miei film non esistono pressioni di sorta. Di pressioni ne ho conosciute in passato, e so cosa significa vivere sotto il loro influsso. Ora come ora, per me, è una benedizione fare quello che faccio.
Quanto cinema c'era nella tua vita prima dell'11 settembre, prima del master a New York?
C’erano molte letture e molte visioni. Io sono stato da sempre un appassionato. Lo devo anche ai miei genitori, che fin da ragazzo mi hanno messo a contatto con registi e opere cinematografiche importanti, come Oshima, i film del muto. Poi, negli anni Novanta, ho cominciato a scrivere critiche cinematografiche online per una rivista spagnola. Tornato a Roma nel ’99-2000, ho fatto di nuovo lavoro d’ufficio, anche se la sera studiavo cinema con un regista ucraino, Leonid Alekseychuk, che aveva rischiato la galera più volte per fare film. Ricordo che gli chiesi “chi te lo fa fare?”, e lui rispose “lo faccio perché quando morirò vorrei che sulla mia tomba scrivessero ‘At least, I tried’, ‘Almeno ci ho provato’ ”. Non l’ho mai dimenticato, perché mi è stato di grande ispirazione: studiare con un cineasta che aveva vissuto la sofferenza di produrre arte.
Hai fatto un percorso graduale: dal lavoro d’ufficio alla critica cinematografica, allo studiare cinema. E, in seguito, hai anche insegnato nelle Filippine. Sono curioso: come era il Minervini professore di cinema? Come ti rapportavi alla teoria, cosa facevi vedere agli studenti?
Penso di essere stato un insegnante d’assalto. Andai nelle Filippine perché mi interessava la scena cinematografica e il percorso storico del paese, un paese travagliato e con molte colonizzazioni che si sono succedute nei secoli. Il mio intento, quindi, era quello di spingere, esortare gli studenti a guardarsi attorno e raccontare storie personali, per un modo di fare cinema “verista”, che mi apparteneva. Era difficile, per dei ragazzi che avevano appena iniziato a studiare cinema: mi resi conto che il cinema filippino era in mano a pochi, agli intellettuali che, per quanto apprezzabili, ne facevano un discorso d’elite. Fu molto difficile, estenuante, e ci volle parecchia passione: è stato sicuramente più duro che produrre film.
Prima parlavamo del ruolo rivestito dal tuo percorso personale nell'approdo filmico: il tuo primo lavoro, The Passage, parte proprio da una vicenda privata.
L’insegnamento era il mio primo obiettivo dopo il master. Volevo continuare, in Spagna mi ero iscritto a un dottorato di storia del cinema, presso l’università Autónoma di Madrid. Ma mia suocera si ammalò di cancro e dovemmo tornare in Texas – io in realtà non ci ero mai stato – perché mia moglie è figlia unica. Quello che doveva essere un semplice "pit-stop" si è strasformato in una permanenza di tre anni. Tre anni, prima che mia suocera morisse. Durante questo periodo ho continuato la pratica del buddismo, intrapresa già da qualche anno, così il mio percorso personale si è congiunto alla vicenda di mia suocera, che doveva affrontare questo passaggio dalla vita alla morte. E da lì iniziai a elaborare questo concetto: trovai un’attrice che si era salvata dal cancro e lavorammo assieme al soggetto per il mio primo film.
Questa modalità è poi proseguita, ampliandosi oltre il famigliare, con Low Tide e Stop the Pounding Heart, anche geograficamente: Houston, le spiagge di Baytown, la contea di Waller.
Man mano che la mia conoscenza dei luoghi e delle persone si è approfondita ho iniziato a desiderare di raccontare questi luoghi, queste persone. Ho stretto amicizia con gente del posto: il mio primo grande amico era l’attore-non attore e musicista di The Passage, Mean Gene Kelton, poi deceduto in un incidente stradale alla fine del 2010. L'amicizia con questo motociclista bluesman mi ha aperto le porte a un mondo sconosciuto – anche dai mille sapori, perché imparai a mangiare la carne fritta due volte! Fu un percorso importantissimo, dentro usi e costumi di cui mi sono innamorato perché le periferie texane sono un microcosmo rappresentativo dell’America di oggi.
Mi sembra che questo sia il discorso centrale del tuo cinema: un rapporto univoco tra biografia e dimensione diegetica, ma non nella classica e a volte sterile “narrativizzazione” della propria vita personale, quanto nell'ottica di una sua problematizzazione: il tentativo di comprendere attraverso il cinema le dinamiche, gli ambienti, i gruppi sociali che ti stanno attorno.
Come dici tu, il cinema non narra la mia storia. C’è però sicuramente in atto un processo catartico, nel fare questi film: i miei lavori non danno risposte perché riguardano la continua ricerca delle risposte alle grandi questioni che mi si sono presentate nell’arco della vita. C’è qualcosa di terapeutico nel modo in cui faccio cinema, proprio perché i miei film, in fondo, sono lo specchio delle mie paure. Detto questo, non ho mai avuto intenzione di raccontare la mia storia: non mi interessa frappormi tra la macchina da presa e i personaggi che incontro. Per arrivare a questo è stato necessario un bagno di umiltà, qualcosa che si confà abbastanza alla mia personalità.
The Passage, Low Tide, Stop the Pounding Heart non potevano quindi non essere girati in questo momento e in quei luoghi: in definitiva, si tratta di quattro anni di vita e lavoro nell’East Texas. Una compenetrazione che diviene ideologia: hai rifiutato alcune offerte statunitensi per poter rimanere indipendente e sei andato via da Cannes perché non ti piaceva l’ambiente, per tornare in quello che tu chiami il tuo “esilio personale”.
La produzione cinematografica non mi piace tanto. Avevo tentato di fare cinema in modo convenzionale, assecondando con la macchina organizzativa consueta, che fa molto organizzazione militare: è come fare il militare – che tra l’altro non ho nemmeno fatto –, con gli arruolati che lavorano per cause di forza maggiore perché tutti devono guadagnarsi da vivere. Lo facevo a New York ed era un modo molto territoriale di lavorare, con i gruppi, i dipartimenti che non si mescolavano tra loro. C’era qualcosa di molto violento in questa struttura così rigida, e così decisi di non fare più cinema. La scelta di rifiutare progetti che provengono da case di produzione, anche importanti, deriva quindi dal fatto che a me non interessa fare quel tipo di cinema. Devo rimanere flessibile, per me è l’unico modo di far cinema. Farlo in modo artigianale: insieme a me lavorano un ex-collega insegnante nelle Filippine e tre ex-studenti formati da noi nel corso degli anni. Lavoro con gente che conosco, con la quale si è instaurato un rapporto di intimità e amicizia pregressa. Si tratta di un modo molto artigianale di fare cinema, che trascende sia il risultato finale che il budget – per noi tutto ciò ha un’importanza secondaria. Sono profondamente convinto che l’esperienza di far cinema in questo modo vada preservata.
Una parte dei finanziamenti arriva dalle strutture pubbliche statunitensi, in questo caso la Houston Film Commission. Che rapporto hai con loro?
Ci siamo cercati a vicenda, anche se ultimamente il rapporto è un po' cambiato e sono loro a cercarmi, forse perché a fare cinema qui siamo in pochi. Non c’è una vera e propria scena cinematografica, le porte da aprire sono poche. Ho un rapporto diretto con Alfred Cervantes, il direttore della Houston Film Commission. I finanziamenti sono bassissimi, parliamo veramente di cifre irrisorie. In America non fanno nemmeno i cortometraggi con i budget che utilizzo per i miei lavori. Per il prossimo film qualcosa è cambiato: alla fine ho deciso di lavorare con un produttore francese, perché loro sono abituati a lavorare in un modo più libero, portano i propri fondi e quindi non dobbiamo sottostare a mille revisioni da parte delle istituzioni.
Non so quanti abbiano colto la profonda valenza umanista del tuo lavoro filmico che diviene improvvisamente squarcio ideologico, politico: la scelta di vita e di morte dell’immigrata Ana, il mancato rapporto familiare tra Daniel e Melissa, l’educazione cristiana e le armi di Sara…
Di fondo, come forza motrice, ci sono le mie ansie, le paure che mi spingono a esplorare temi particolari. Ovviamente la mia ideologia è ben definita e in alcune prese di posizione critiche si può leggere il mio background culturale e politico. Allo stesso tempo, è con un certo timore che ho affrontato temi cruciali nel Paese in cui mi trovo a vivere – in parte mio malgrado, perché non avrei mai pensato di vivere negli Stati Uniti. L’immigrazione, la mancanza del welfare (specie quello medico e pensionistico), il rapporto tra gli americani e le armi (il Secondo Emendamento), la sfiducia totale nei confronti delle istituzioni (il fenomeno dell'homeschooling, per cui oggi sempre più figli vengono educati a casa), l’integralismo religioso (un concetto che cerco sempre di usare con estrema attenzione): tutti fantasmi che dovevo far uscire dall’armadio, così da poterli affrontare. In me c'è una sorta di paura fanciullesca, un approccio istintivo, forse proprio perché si tratta di inquietudini che mi porto dietro dall’età pre-adolescenziale.
Forse non è un caso se l’America che racconti sta tornando con prepotenza sugli schermi: penso alla filiazione diretta che c’è da Terrence Malick a David Gordon Green e Jeff Nichols, tutti nativi del Texas o dell’Arkansas, dei veri e propri southern director. E includerei anche te, in questo gruppo.
Sicuramente. Questo perché mi trovo nel Texas, anche se il mio approccio esiste a monte. Pensavo a volte di tornare a New York, dove ho vissuto per sette anni, e credo che se l’avessi fatto sarei andato a lavorare nelle comunità di Jamaica, nel Queens, con grosse spaccature sociali e sacche di razzismo molto esplicito. Sarei stato interessato ad andare a studiare la New York del sottosuolo e non quella che si conosce. In Italia pensavo di lavorare all’Enziteto di Bari oppure al Villagio Coppola di Napoli, realtà in transizione, luoghi di alienazione e isolamento. Ma come dici tu, in questo momento storico e in questo passaggio della mia vita non posso non considerarmi un regista del sud.
Tutto questo sostrato, personale e politico, a volte è difficile coglierlo nelle emozioni, nei visi dei tuoi personaggi. Dobbiamo afferrare l’attimo, l’evento: il percorso conclusivo di Ana in The Passage, l’abbraccio finale di Low Tide, gli ultimi minuti di Stop the Pounding Heart dove viene fuori tutto il percorso fatto con le domande inaspettate di Sara alla madre.
Nella maggior parte dei casi i film sono girati in modo sostanzialmente cronologico. Il finale di The Passage è l’ultimo ciak girato – tra l’altro una scena venuta fuori in modo spontaneo, inatteso, e mi chiedo spesso che film avrei fatto senza quella sequenza… In tutti i miei film mi affido e restituisco il potere ai soggetti, anche in The Passage, unico lavoro con un copione, poi però stracciato a metà riprese. L’evoluzione dei miei personaggi, quindi, è sintomatica dell’evoluzione del nostro rapporto. Un cinema dell’attesa – perché è anche un modo di fare cinema che valuta l’attesa –, dove i “tempi morti” sono momenti chiave per conoscersi, in silenzio. Spesso è un rapporto quasi tattile, olfattivo, molto animalesco, quello che si instaura tra me e i personaggi. Si tratta di un modo di fare cinema molto diluito nel tempo.
Tu arrivi a plasmare queste esperienze cinematografiche dando indicazioni minime di sceneggiatura e poi passando tutto al setaccio, sezionando e costruendo, in sede di montaggio. Questo permette una sorta di massima esposizione del tuo occhio/cinepresa e soltanto dopo, “creativamente” in senso stretto, intervieni in una sorta di retro-scrittura, di retro-regia.
Retro-scrittura, retro-regia: si, direi proprio che si tratta di un modo di fare cinema a ritroso. Parlo con i miei protagonisti e chiedo loro di raccontarmi esperienze passate, poi discutiamo circa l’opportunità di rimetterle in atto. Mi riferisco alla conversazione tra Sara e la madre in Stop the Pounding Heart riguardo l’anello, ad esempio, la promessa di purezza fatta nei confronti di Dio e del padre: quella è una conversazione che avvenne anni prima, quando Sara aveva 14 anni (mentre durante le riprese ne aveva 18). Chiesi alla madre di riparlarne, di reiterare quei concetti alla luce di quella nuova fase della vita di Sara, la transizione dall’età adolescenziale a quella adulta. Un modo di fare cinema a ritroso, quindi, come dici tu, un guardarsi indietro per raccontare una storia presente. La stessa cosa sta avvenendo con il mio nuovo film.
Ti abbiamo inserito tra i nostri "Cineasti del futuro": Raya Martin, Ben Rivers, Miguel Gomes… Tutti autori che fanno germinare la propria esperienza filmica da un dato reale che spesso sfuma nel discorso antropologico, nella profondità storica, nel cinema stesso. Una tendenza di cui partecipa anche il tuo cinema.
Sì, alla base c'è una ricerca di tipo antropologico, e questo è forse il vantaggio di essere straniero, benché radicato, in America; uno straniero non-straniero. La mia ricerca sul territorio, l'esplorazione di luoghi e persone, è sempre il corso, sempre in fase di approfondimento. Sento sempre di più di poter parlare con cognizione di causa, le mie conoscenze sul territorio si sono ampliate di molto. Il cinema di ricerca per me è fondamentale.
Ora stai lavorando a un film sulla “violenza texana”. Riesco solo a immaginare quanto possa essere terribile, spaventoso, un film sulla violenza fatto da un umanista come te.
Ritorniamo alle paure: si tratta di un film che non vorrei mai fare e questo è un motivo sufficiente per farlo. Questa catarsi sarà un percorso difficile: la violenza al maschile, verbale e fisica, è una nota dolente della mia infanzia e adolescenza. Sono cresciuto nelle Marche industrializzate, dove a 14 anni si lavora, si ha un certo benessere economico e ne conseguono violenza e dipendenze. Sembrerà un’esagerazione ma ho vissuto nel terrore i miei anni a Monte Urano. Mi difendevo con grandi silenzi, cercavo di passare inosservato per scampare dai pericoli quotidiani che mi circondavano. E qui ho trovato un ambiente per certi versi simile, quindi parlare di violenza maschile per me ora è fondamentale. Il progetto, poi, si sta evolvendo, perché dal Texas mi sto spostando nella Louisiana del nord e sto lavorando con i parenti della famiglia di bullriders di Stop the Pounding Heart, che mi danno un’altra chiave di lettura della stessa violenza. Sono zone disagiate, con il 60% di disoccupazione e una produzione massiccia di metamfetamina: si tratta di tossicodipendenti che vivono costantemente nel survival mode, e c’è qualcosa di molto sentimentale in questa loro lotta continua per la sopravvivenza. Quindi molta paura, ma anche molta empatia, da parte mia. Sarà un lavoro complesso dove cercherò di sondare i confini tra questa paura che mi fa fuggire e questa empatia che mi fa avvicinare ai personaggi.
Pensi che verrai mai a girare qualcosa in Italia, a Bari, a Napoli, o nelle stesse Marche?
Mi piacerebbe e ci penso spesso. Non vedo ostacoli particolari, se non il fatto che la condizione necessaria per fare film è quella di spostarmi sul territorio e instaurare relazioni profonde, intime, con i luoghi e le persone. Quindi prima di pensare a un progetto cinematografico dovrei compiere la scelta di trasferirmi, e per adesso non vedo le condizioni adatte a spostarmi in luoghi difficili come quelli del barese o del napoletano, o delle stesse Marche. Devo sentirmi pronto per fare una scelta del genere, sono scelte che devo considerare innanzitutto a livello personale. Dopodiché il film verrà da se.