Dušan Hanák è probabilmente il più celebre tra i registi meno noti del cinema dell'allora Cecoslovacchia. Nato nel 1938 a Bratislava, diplomato al Famu di Praga nel 1965 grazie al saggio dal titolo Učenie (Apprendistato, in cui riprende con approccio semi-documentaristico un gruppo di ragazzi che suonano musica rock e alcune ragazze in attesa di sostenere la prova d'esame di parrucchiera), Hanák inizia la sua carriera realizzando alcuni corti agli Studi Koliba, centro di produzione in cui lavorerà a lungo prima di diventare, dopo la caduta del Muro di Berlino e la Rivoluzione di velluto che rovescerà il regime cecoslovacco, docente di cinematografia presso la Facoltà di Cinema e Televisione dell'Accademia di Arte e Spettacolo di Bratislava. Attivo anche come fotografo, nel 2008 è stato premiato al Karlovy Vary International Film Festival per l'insieme della sua produzione.

Quando Hanák si diploma, il cinema cecoslovacco gode di particolare fama, nonostante fino all'inizio del decennio il paese non abbia attraversato un periodo facile dal punto di vista economico e sociale. Dal punto di vista cinematografico, l'anno di rottura è il 1962, quando sugli schermi appare Slnko v sieti (Il sole nella rete), dello slovacco Štefan Uher. Prontamente, il primo segretario del Partito Comunista Slovacco Karol Bacilek dichiara: “Finché sono qui, quest'arte antisocialista non sarà distribuita”. Semplici residui di znadovismo, si potrà pensare. Nello stesso 1962 esce Pytel blech (Un sacco di pulci), della ceca Vĕra Chitilová, regista che diventerà la prima del paese ad essere particolarmente nota all'estero. Del 1963 è l'esordio al lungometraggio di Miloš Forman, Černý Petr (L'asso di picche), con cui si può pienamente dirsi avviata quella che sarà ribattezzata come Nová Vlna, la nuova ondata cecoslovacca. Ben presto si crea una certa distanza tra il cinema di Praga e quello di Bratislava: infatti, dopo Il sole nella rete, le produzioni slovacche fanno particolare fatica ad emergere, mentre quelle ceche riescono a distinguersi in modo regolare. Tra queste, Sedmikrásky (Le margheritine, 1966), di Chitilová – vero manifesto delle capacità di sperimentazione del cinema dell'epoca -, Ostře sledované vlaky (Treni strettamente sorvegliati) di Jiří Menzel (di certo il film cecoslovacco più noto all'estero, anche e soprattutto grazie al Premio Oscar per il Miglior Film Straniero ottenuto nel 1966) e Zbehovia a pútníci (I disertori e i nomadi, 1968), di un coetaneo di Hanák, Juraj Jakubisko.
 
Una delle conseguenze dell'invasione sovietica che nell'agosto del 1968 porrà termine alla Primavera di Praga, sarà anche il sostanziale blocco della produzione più libera e sperimentale del cinema nazionale. Ad inizio degli anni Settanta il numero dei film a soggetto si ridurrà alla metà di quella registrata nel quinquennio precedente, con un'accelerazione verso la produzione di documentari piuttosto allineati con le direttive delle autorità. Nel 1973 verrà reso pubblico una sorta di “indice dei film proibiti”: forse è scontato ricordare che vi compariranno gran parte delle pellicole più importanti del cinema cecoslovacco dalla seconda metà degli anni Sessanta ai primi anni del decennio successivo. E infatti, Chytilová non riuscirà a lavorare per sei anni, Menzel per cinque, Evald Schorm si dovrà “rifugiare” nel teatro, Forman e Passer si trasferiranno all'estero.
 
 
È in questo contesto complesso e non certo agevole che Hanák esordisce al lungometraggio. 322 (1969), tratto da un racconto dello scrittore slovacco Ján Johanides, è spesso considerato come il primo film dell'Europa del blocco sovietico ad affrontare i temi della solitudine e della malattia. La sceneggiatura viene approvata nel 1967, ma le riprese inizieranno solo l'anno seguente, alla fine dell'occupazione della Cecoslovacchia. Presentata senza l'assenso delle autorità al Festival di Mannheim (dove ottiene il Gran Premio Speciale della Giuria), la pellicola pone al centro la vicenda di Josef Lauko, un cuoco di mezza età a cui viene diagnosticato un cancro. Intorno alle sue vicissitudini, quelle della ex moglie e del suo compagno ventenne, quelle di una collega di lavoro dell'uomo e quelle di un giovane sbandato incontrato per caso da Lauko.
Il titolo è riferito al numero della pratica medica riguardante l'uomo: allusione ben poco velata alla spersonalizzazione dell'individuo in un mondo già dominato dalla comunicazione di massa (spesso vediamo televisori accesi e sentiamo radio che emettono messaggi di ogni genere, come quello dell'imminente sbarco sulla luna, notizia che Lauko ascolta distrattamente mentre prepara la valigia prima del suo ricovero), come mostra il fatto che nel film ritorna spesso una certa “ossessione” per la numerazione seriale, da quella dei vitelli destinati al macello mostrati in una delle prime sequenze a quella dei bambini nel reparto maternità dell'ospedale in cui Lauko si reca per fare visita alla collega che ha appena partorito.
 
Non mancano alcuni riferimenti alla “normalizzazione” in corso nella società cecoslovacca dopo l'occupazione sovietica: per esempio, la prima sequenza del film mostra Lauko che, percosso da una banda di giovani di strada, è costretto “a ringraziarli”, umiliandosi pubblicamente. Si tratta di un evidente riferimento al potere e al suo abuso da parte del gruppo dirigente di turno. Nel corso della pellicola non manca poi la critica alla connivenza da parte della piccola borghesia, preoccupata dal moderato benessere di quegli anni e incapace di pensare ad un vero cambiamento.
A differenza di quello che si potrebbe immaginare nel leggere la sinossi, il tono non cede mai al drammatico: ricco di sequenze liriche (per esempio quella dell'aquilone in volo all'esterno delle mura del cimitero in cui è sepolta la madre del protagonista e quella di un'inaspettata nevicata che sorprende i passanti per strada), il film è percorso da una vena sì malinconica, ma non priva di un carattere surreale, cui contribuisce anche la musica prevalentemente jazz di Ladislav Gerhardt.
 
Il resoconto piano non interessa ad Hanák, che infatti ricorre spesso all'uso di stilemi che mettono sempre in primo piano la presenza della cinepresa e la manipolazione ottico-fotografica: zoom, macchina a mano, sovrimpressioni, sovraesposizioni luminose e le tanto amate immagini fotografiche che saranno al centro del successivo film del regista, Obrazy starého sveta, Immagini del vecchio mondo, 1972, sono ricorrenti. Non solo: Hanák si avventura spesso in quel territorio di mezzo tra cinema di finzione e documentario realizzando alcune sequenze dal sapore semi-documentaristico girate (come d'altro canto l'intero film) in esterni reali a Bratislava, Praga e Brno, ricorrendo anche ad attori non professionisti, come accadrà anche in futuro nei suoi Ružové sny (Sogni rosa, 1979) e Ja milujem, ty miluješ (Io amo, tu ami, 1980).
 
Nel 1972 Hanák riceve la proposta di girare un documentario su Martin Martinček, fotografo slovacco che aveva dedicato alla popolazione rurale delle regioni di Liptov, Orava e Kysuce (sui monti Tatra) cinque celebri serie fotografiche. Le immagini colpiscono profondamente il regista, che si getta nell'impresa appropriandosene in fondo, superando quindi l'iniziale dimensione di commissione dell'operazione. Hanák si cimenta in un opera di sperimentazione che diventa la base di questo atipico documentario (per il quale la stessa definizione di documentario è piuttosto limitante e discutibile: il regista ha dichiarato di recente che più va avanti nel suo lavoro e meno distingue tra cinema di finzione e cinema documentario) con al centro le storie di contadine e contadini anziani usciti da un mondo già arcaico all'epoca delle riprese. Storie semplici (dalla vicenda della donna quasi centenaria vedova di guerra a quella dell'uomo appassionato della “corsa allo spazio” e che vive con il culto di Gagarin, passando per quella del pastore cacciato di casa dalla moglie e che vive con un grande cane bianco). Povertà, alcolismo, emarginazione, solitudine, assenza di un tessuto sociale e assistenziale, accettazione dell'esistente e nessun culto del progresso: un panorama delle campagne cecoslovacche che evidentemente non poteva piacere alle autorità, che lo accusarono di “apologia della bruttezza estetica” e che lo censurarono immediatamente (sarà finalmente visibile solo nel 1988).
 
 
Immagini del vecchio mondo è composto da un'interessante alternanza (non regolare) tra una quarantina di fotografie di Martinček (e una decina di altri scatti firmati da Vlado Vavrek e dallo stesso Hanák) e immagini in movimento riprese dal regista utilizzando spesso l'obiettivo grandangolare per dare rilievo agli elementi rappresentati. Alle volte, alcune immagini che paiono ad un primo sguardo come fotografie, si rivelano invece dopo qualche secondo in movimento. Proprio come per il precedente 322, il regista fa sentire la macchina da presa mettendo in mostra gli svariati procedimenti di cui dispone, facendo intervenire direttamente l'intervistatore (con tanto di microfono spesso in campo, strumento tecnologico ai nostri occhi alquanto sorpassato, ma in grado di suscitare lo stupore di numerosi intervistati, i cui nomi, come quelli di tutti coloro che appaiono nella pellicola, vengono citati per esteso nei titoli di testa) che pone quella che è la domanda di fondo dell'intero film: “Quale è la cosa di maggiore valore nella vita?”. A volte le risposte sono generiche (la salute e la pace), altre volte sono del tutto assenti (gli intervistati dichiarano di non sapere cosa rispondere). La risposta di un uomo sembra cogliere nella sua semplicità quella che ai nostri occhi appare essere la migliore definizione dello stesso sguardo morale dell'intero cinema di Hanák: “L'uomo, nient'altro che l'uomo”. Un cinema antropologico, quello del cineasta slovacco, un cinema capace di essere costantemente incentrato sull'uomo, sulle sue debolezze, sui suoi moti del cuore e dell'animo, senza mai perdere di vista la pratica intesa come mezzo di riproduzione e senza mai dimenticare (e sottovalutare) il suo potere manipolatorio.
 
Prima collaborazione tra Hanák e lo sceneggiatore Dušan Dušek (noto anche come scrittore, poeta e autore di pièce radiofoniche), Sogni rosa è una commedia dal tono melanconico e dal finale non esattamente positivo (da più parti è stato definito, forse con qualche eccesso, una “tragicommedia”) che segna una certa discontinuità nella produzione del regista. Recitata da numerosi attori non professionisti (su tutti i due protagonisti Juraj Nvota e Iva Bittova, destinati ad importanti carriere, l'uno nel cinema e nel teatro, l'altra nella musica) è certamente la pellicola di maggiore successo della filmografia di Hanák, tanto da essere addirittura l'unico film cecoslovacco degli anni Settanta ad avere avuto una regolare distribuzione anche in Europa occidentale.
 
La vicenda al centro della narrazione è quella dell'amore tra un postino di paese, Jakub, e una giovane zingara, Jolanka: nonostante i tentativi, la loro relazione non porterà ad una vita in comune. Contrariamente al divieto delle rispettive famiglie, che vedono nelle differenti culture di appartenenza un ostacolo insormontabile alla riuscita del legame (possiamo propriamente parlare di atteggiamenti razzisti sia da una parte che dall'altra), i due giovani si trasferiscono in città dove vanno incontro a numerose difficoltà. Se Jolanka è amante di una vita libera e girovaga, Jakub si mostra invece più propenso ad una vita piccolo borghese fatta di effimere certezze. Le previsioni delle relative famiglie si avvereranno: a fine film Jolanka, nonostante ami ancora Jakub, sposerà un ragazzo zigano, mentre il giovane postino attenderà la partenza per il servizio militare di leva. Un finale che contrasta fortemente con le direttive delle autorità che all'epoca spingono fortemente per matrimoni volti a garantire una maggiore integrazione tra le varie comunità presenti sul territorio nazionale. E infatti, la sceneggiatura originaria resterà congelata per circa un anno e il via libera alle riprese (realizzate tra il maggio e l'agosto 1976) sarà dato solo quando Hanák e Dušek inseriranno una nuova sequenza in cui si annuncia il futuro matrimonio tra il pompiere e una donna zigana, inteso come segno di apertura alle unioni miste.
 
Sogni rosa è un film percorso da un sottile ottimismo melanconico, ma non è privo di tensioni interne costantemente smorzate da situazioni grottesche e al limite del paradossale, da dialoghi ironici e spesso vicini al non sense e da una fotografia che va dalle forti tinte pastello delle situazioni “comuni” a quelle più sfumate degli incontri amorosi della giovane coppia. La stessa musica, profondamente contaminata dai canti zigani, contribuisce al risultato finale: un film lirico cui non manca un forte ancoraggio ad un certo realismo esteriore (cui Hanák non rinuncerà mai nel corso della sua carriera) anche frutto delle ricerche che regista e sceneggiatore hanno condotto presso numerose comunità zigane della regione di Zahori, nella Slovacchia orientale.
 
 
Io amo, tu ami, girato nel 1980, proiettato solo nel 1988 (a causa di un  nuovo blocco da parte della commissione di censura) e vincitore l'anno dopo dell'Orso d'argento al Festival di Berlino, è stata definito dallo stesso regista una “commedia documentaria”. Realizzata nonostante i problemi con le autorità sorti dopo i film degli esordi, Hanák riesce a girare, rinnovando la collaborazione di Dušek in sede di sceneggiatura, una pellicola che affronta (seppure in maniera diversa dal precedente Sogni rosa) il tema dell'amore di chi vive ai margini della società. Il protagonista è Pista, un impiegato delle ferrovie postali che conduce insieme al collega Vinco una vita fatta di precarietà, povertà e ubriachezza finalizzata a dimenticare le brutture quotidiane. I due parlano spesso di donne: Vista è slanciato e capace di suscitare interesse nell'altro sesso, Pista, invece, è ben poco attraente, basso e sgraziato. Questi ama Viera che, attratta da Vinco, ne rimane incinta. La donna considera Pista un poco di buono, la cui miglior compagnia è una bottiglia di vodka. Ma gli eventi, la faranno ricredere: Pista si propone infatti di prendersi cura del futuro nascituro e, nonostante una separazione a seguito di un forte litigio, nel finale sospeso ambientato durante la suggestiva parata carnevalesca del Martedì Grasso, il loro rapporto sembra poter avere davvero un futuro. Anche in questo film il tono è melanconico, e spesso si lambisce il grottesco in situazioni al limite del paradossale. Un'altra prova in cui il regista mostra la sua propensione verso l'assurdità tragicomica del quotidiano. A fare da contraltare numerose sequenze fortemente realistiche: come nel caso delle abitudini di vita dei gitani protagonisti di Sogno rosa, Hanák e Dušek si informano a lungo sulle attività delle poste ferroviarie lavorando alcune settimane come impiegati a Bratislava.
 
Tra la metà degli anni Ottanta e la metà del decennio successivo Hanák realizzerà tre lungometraggi, continuando il suo isolato discorso a metà strada tra documentazione e finzione. Tichá radost′ (Gioia silenziosa, 1986), ambientato in un ospedale, è la storia della fine di un amore fotografata utilizzando solo la luce naturale del set; Súkromné živote (Vite private, 1990) è un altro studio sulla crisi di coppia; mentre Papierové hlavy (Teste di carta, 1996) è un montaggio di scene documentarie e di immagini girate per l'occasione ricorrendo a particolari creazioni sceniche, in particolare grandi teste di carta carnevalesche che altro non sono che un riferimento ai potenti del regime da poco caduto. Un evidente atto di irrisione nei confronti di quelle autorità che per più di vent'anni hanno reso Dušan Hanák uno dei registi più censurati e ostacolati del mondo del cinema.
 
 
322, regia di Dušan Hanák, Cecoslovacchia, 1969, 95'
IMMAGINI DEL VECCHIO MONDO (Obrazi starého sveta), regia di Dušan Hanák, Cecoslovacchia, 1972, 74'
SOGNI ROSA (Ružové sny), regia di Dušan Hanák, Cecoslovacchia, 1977, 81'
IO AMO, TU AMI (Ja milujem, ty miluješ), regia di Dušan Hanák, Cecoslovacchia, 1989, 95'
TESTE DI CARTA (Papierové hlavy), regia di  Dušan Hanák, Slovacchia, 1995, 96'
(Malavida)