Il tema della crisi economica aleggia nell'ultimo cinema di Manoel de Oliveira, da Singularidades de uma Rapariga Loura a O Estranho Caso de Angélica, a Painéis de São Vicente de Fora – Visão Poética per giungere a questo film, Gebo et l'ombre, che ruota attorno al denaro e alla sua assenza, tratto dall'omonima opera teatrale in quattro atti del 1923 di Raul Brandão, scrittore portoghese, praticamente concittadino del vegliardo regista, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. L'opera originale è una denuncia del rampantismo di una élite di filibustieri finanziari nella decadente Prima Repubblica portoghese, in un contesto sociale di complessiva povertà.
Nella Parigi di fine XIX secolo, Gebo, anziano patriarca, vive con la moglie Doroteia e la nuora Sofia, nell'attesa del ritorno del figlio João di cui non si hanno notizie da anni. Passa le sue giornate in attività di scrivano e di contabile, in una condizione di aurea mediocritas, fiero della sua vita integerrima. «Sento la pioggia cadere e, come cade, io non sono infelice, anzi!», afferma. La moglie lamenta questa condizione modesta, dovuta, a suo dire, alla mancanza d'ambizione del marito. Anche il figlio, tornato improvvisamente dal suo peregrinare, in cui era dedito ad attività criminose, sostiene come sia meglio morire che vivere spenti. Le ambizioni di João non sono le stesse di Doroteia, ma entrambi vorrebbero dare una scossa a quella monotonia. Paradossalmente il padre pagherà le colpe della condotta trasgressiva del figlio, assumendosene le colpe.
A parte due incipit e poche scene in esterni, de Oliveira, adatta il testo teatrale come un Kammerspiel, girato completamente in interni, nella casa della famiglia, rispettando sostanzialmente le unità di tempo, luogo e azione. E utilizzando, verosimilmente, fonti di illuminazioni diegetiche, lanterne, candele, lampade, alla Barry Lyndon. Il film si pone al limite del teatro filmato, ma senza mai ricadervi, e del resto de Oliveira ha già dimostrato un'abile padronanza in questo genere di discorsi linguistici in O Quinto Imperio. È una messa in scena incentrata su un secco e rigoroso minimalismo, governata dalla fissità e dall'immobilità, un grado zero cinematografico, qualcuno potrebbe definirlo anti-cinema. Lunghe scene di dialoghi tra personaggi seduti al tavolo, come dei tableaux vivant e disposti con precise geometrie spaziali: il figlio quando arriva prende il posto del padre nel tavolo e nell'inquadratura. E anche questo denuncia la struttura teatrale d'origine, come nel teatro classico Shakespeare e Cechov, fatta di atti e di quadri, e di un ricambio di personaggi che entrano ed escono in modo che in scena ne rimanga un nucleo variabile.
Una prima immagine sui titoli di testa che mostra João (l'immancabile Ricardo Trêpa) su un molo, scena che fuggevolmente rimanda a un mondo altro, quello delle scorribande di João, ma anche delle scorribande cinematografiche, dei viaggi in mare, oltreoceano, di de Oliveira, delle sue fughe dall'identità culturale europea, come in Um Filme Falado o Cristóvão Colombo – O Enigma. Il secondo incipit è una sorta di caverna platonica, o teatrino delle ombre, dove una lanterna in scena genera ombre giganti, deformate e minacciose come nel cinema espressionista.
L'inizio vero del film è ambientato al crepuscolo, quando i personaggi accendono i lumi e le lanterne, con un'inquadratura fissa di una finestra attraverso la quale Sofia contempla il vicolo di fuori. Esce per un attimo, e la vediamo sempre dall'interno. In quella situazione di scarsa luminosità, il cielo deve essere grigio, l'illuminazione fioca, la giornata uggiosa, la finestra agisce anche da specchio sovrapponendo le immagini dell'esterno con quelle dell'interno rappresentate da Doroteia. Dopo che, in O Estranho Caso de Angélica, aveva messo in scena il cortocircuito tra realtà e sua rappresentazione (l'immagine bidimensionale che prende vita), de Oliveira torna a fare un film attraversato di simulacri, immagini riflesse, fantasmi. Gebo ha l'impressione di essere inghiottito da un'ombra mentre Sofia è triste per questa loro vita in funzione di un'ombra. Si tratta dell'ombra di João, della sua assenza/presenza, della condizione esistenziale di attesa. Alla fine giunge improvvisamente il sole, con l'arrivo in casa dei gendarmi. Sono ancora le loro ombre enormi a sovrastare il povero Gebo, davanti alla quali confesserà un crimine mai commesso.
Con una messa in scena il più possibile sobria ed essenziale, de Oliveira coglie la natura intima della società contemporanea, ma lo fa mostrando situazioni universali, archetipiche. Il quieto vivere, l'immobilità esistenziale si scontra con l'avventurismo e il rampantismo. E de Oliveira, un uomo che ricorda come quando era piccolo il padre lo portasse al cinema a vedere Méliès, tratta queste tematiche attuali con un cinema che sembra eterno, senza tempo, a sua volta immobile, lontano da qualsiasi nuova tendenza o corrente, con un film che sembra attraversato dalla storia del cinema: l'espressionismo, il Kammerspiel, attori che fanno parte del grande pantheon cinematografico, Michael Lonsdale, Claudia Cardinale, Jeanne Moreau e Luís Miguel Cintra.
O Gebo e a Sombra, regia di Manoel de Oliveira, Portogallo/Francia 2012, 95'