Era difficile prevedere come si sarebbe evoluto il cinema di Kim Ki-duk dopo il reset di Arirang. Seguendo un percorso simile a quello di Kitano Takeshi, dopo l'esposizione-seppuku della propria mancanza di ispirazione, della sfiducia nella macchina-cinema e della conseguente depressione, non restava che sparire nell'oblio o provare a ripartire da terreni congeniali, dal proprio personale porto sicuro a cui fare ritorno in tempi difficili. Se per Kitano questo ha significato votarsi alla serialità dello yakuza eiga, per Kim vuol dire tornare a filmare il malessere, rimestare nella sofferenza di pagine come Bad Guy o La samaritana, alla luce di un rinnovato nichilismo, figlio della propria discesa agli inferi e del ruolo giocato dalla crisi economica sui destini di uomini sempre più piccoli e indifesi.
La frustrazione personale lascia quindi spazio a una riflessione più ampia sulla condizione umana odierna: una visione apocalittica che (ri)parte da Arirang, a cui Pieta si collegarsi idealmente attraverso una lisca di pesce che sembra quasi messa in mostra per ribadire che la sofferenza di Kang-do è una versione parossistica di quella di Kim Ki-duk, un orfano della speranza che si è isolato dalle umane genti per votarsi alla routine del male. Come lui intento a macellare cose vive – polli o anguille che siano – per convincersi di essere vivo; l'uomo si ricorda (o scopre) di essere tale in quanto strumento di morte, per ritornare all'osso di Kubrick e al tapiro massacrato, vittima imbelle.
Tormento e sofferenza, nel contesto dell'incedere di un progresso capitalistico che, dopo aver sfruttato e piegato ai propri voleri i ceti meno abbienti, tenta di spremerne i residui averi; i grattacieli destinati a cancellare la baraccopoli di Cheonggyecheon rappresentano la più elementare, finanche banale, delle allegorie, ma incarnano alla perfezione il sopra-testo del nuovo Kim Ki-duk, che gira un film alla Kim Ki-duk sulla crisi, ma sottopelle veicola altri e più oscuri messaggi. Mai prima d'ora nella poetica del regista di Bad Guy si era assistito a un simile dualismo tra umano e macchinico, contrapposizione e compenetrazione che si supporrebbe appartenere più a uno Tsukamoto che all'uomo da Bonghwa. Invece è forte la sensazione che la civiltà dell'uomo tradizionalmente intesa abbia trovato il suo termine tra i macchinari, i torni, le presse e le saracinesche di Cheonggyecheon. Non esiste nulla al di là di un claustrofobico contesto di rottami e negozietti bui, in cui il metallo e l'olio si confondono con esistenze disperate – e quindi inevitabilmente deboli – fatte di carne e sangue, destinate all'estinzione, alla scelta tra il suicidio e la mutilazione (per mano della macchina stessa). Quest'ultima anche volontaria, in una delle sequenze più toccanti e difficilmente sostenibili dell'intero Pieta.
In un contesto di morte e metallo, di metal hurlant, è ancora una volta la Madre (che sia vera o presunta in fondo non ha importanza) a ricomporre il caos, a restituire ordine alle cose. E qui sta un elemento di forte innovazione per Kim, da sempre oggetto a sé nell'ambito della cinematografia nazionale (in Corea gode di un seguito di culto, perlopiù minoritario), che pare confrontarsi con gli altri autori connazionali, figli della New Wave di inizio millennio. Con Mother di Bong Joon-ho e Poetry di Lee Chang-dong, Pieta forma una sorta di ideale trilogia sulla celebrazione della figura materna, con Kang-do come un novello Titano che vive solo perpetuando la distruzione di tutto ciò che è vivo e pulsante; mentre è ribaltato il modello di Old Boy di Park Chan-wook, giocando con lo spettatore sulla veridicità o meno dell'incesto (notoriamente ultimo dei tabù). Il cinema sudcoreano post-wave guarda sempre più al modello della tragedia greca, utilizzando archetipi universali e atemporali (la Madre, innanzitutto, che dona la vita e se la riprende) per interrogarsi sul destino dell'umanità intera. Kang-do e Mi-son come Edipo e Giocasta o Agamennone e Clitemnestra, con la tenacia e la reiterazione, tutta coreana, della gestualità a sottolineare ulteriormente la solenne brutalità di ciò che avviene. Quando non basta la ripetizione di uno schiaffo o di un calcio, Kim Ki-duk – mai così esplicito nell'accompagnare in maniera retorica le emozioni – utilizza addirittura la macchina da presa, scuotendola per incassare fisicamente le percosse di Kang-do.
Senz'altro non è il miglior(e dei) Kim Ki-duk, come diversi fan della prima ora sottolineano, ma era – appunto – tempo di riscuotere i sospesi. E, per farlo, ha scelto la maniera di Kang-do, giocando (volutamente) pesante con la propria poetica e con il sentimento del pubblico, allo scopo di ottenere (estorcere?) ciò che gli spettava di diritto.
Pieta, regia di Kim Ki-duk, Corea 2012, 104'.