Il Cinema Ritrovato è stato una finestra sul tempo e sullo spazio. Camminare lungo le strade di questa XXVI edizione – in una Bologna ubriaca di sole – voleva dire toccare con mano la sostanza di un’utopia. Uso la parola ‘utopia’ nel suo senso etimologico di spazio negato, rimosso. Il festival – e questo festival più di tutti – diviene un meta-luogo: un altrove della mente che improvvisamente si apre nel tessuto della città. Le diverse identità culturali di chi vi transita perdono i propri confini esclusivi: l’essere italiani, francesi, europei o americani acquista un senso nuovo all’interno di uno spazio astratto, capace di riarticolare passato e presente in una specifica koinè cinefila. A partire da questa operazione di traduzione, o riscrittura, si schiudono così una geografia e una storia immaginarie, e un’intera comunità ideale giunge a riconoscere se stessa. Bologna, Parigi, New York. Nei discorsi e nei riferimenti che rimbalzano da una conversazione all’altra si disegnano i centri e le periferie di una mappa cosmopolita e raffinata. Immergersi nei luoghi del festival, in questi giorni, voleva dire entrare a pieno titolo nella cittadella del cinema: voleva dire – per una volta – esserci. E questo – in un Paese ormai abituato a essere periferia di se stesso – può fare tutta la differenza del mondo.