Il film saggio viene spesso concepito come un fenomeno marginale, un trend minore che fa capolino qua e là nel corso della storia del cinema e in differenti aree geografiche. Non un genere, ma una categoria vagamente delimitata da confini profondamente incerti, così difficile da definire e inquadrare che sembra respingere ogni sforzo tassonomico – come si può evincere anche solo scorrendo l’elenco delle opere definite “film saggio” dai critici (1). Nonostante ciò, un’esperienza specifica del film saggio esiste, in una maniera riconoscibile da tutti, come nel caso di Sans Soleil di Chris Marker (1983), per molti un esempio paradigmatico di tale forma (2).
È mio intento mettere in discussione la marginalità del film saggio; con un gesto che potrà sembrare sproporzionato, ne sosterrò, al contrario, la centralità. Il mio discorso prende il via da una considerazione: il film saggio si situa saldamente sia al principio della storia del cinema che alla sua fine. Ma prima di discutere i come e i perché e approfondire i significati di quest’affermazione, prenderò in esame la storia della teoria sul film saggio.
Per sempre nuovo… Per sempre moderno
La prima teorizzazione esplicita compare, con ogni probabilità, nell’articolo di Hans Richter “Der Filmessay, eine neue form de Dokumentarfilm” (“Il film saggio, una nuova forma di documentario”), pubblicato originariamente sulla Nationalzeitung nel 1940 (3). In quell’occasione, Richter annuncia l’esistenza di un nuovo tipo di cinema, capace di creare “immagini per nozioni mentali” e di “ritrarre concetti”. Per Richter, non si tratta di un cinema puramente documentario ma di una sua nuova forma: “sforzandosi di dare corpo al mondo invisibile dell’immaginazione, a idee e pensieri, il film saggio è in grado di impiegare una quantità di strumenti espressivi decisamente superiori a quelli del documentario puro. Libero dalla necessità di registrare i fenomeni esterni in semplice sequenza, il film saggio può raccogliere il proprio materiale ovunque. Il suo tempo e il suo spazio sono condizionati esclusivamente dal bisogno di mostrare e spiegare l’idea” (4).
Si tratta, in altre parole, di un cinema capace di riprodurre la complessità del pensiero e offrire piena libertà espressiva al cineasta. Richter, qui, ha già identificato alcune delle caratteristiche che continueranno ad essere ascritte al film saggio anche dai teorici successivi: la trasgressione e l’attraversamento dei confini di genere; la libertà creativa nel distaccarsi dalle convenzioni e dalle costrizioni linguistiche; la complessità e la riflessività. È un cinema che permette al cineasta di pensare per immagini, consentendogli di esprimersi liberamente.
L’articolo che dai più viene associato alla nascita del film saggio è “Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo” (“Nascita di una nuova avanguardia: la cinepresa come una stilografica”) di Alexandre Astruc, originariamente pubblicato su L’Écran Français nel 1948 (5). Anche qui ritorna lo stesso accenno alla libertà espressiva già presente in Richter, riassunta nella riuscita metafora della macchina da presa come penna. Astruc paragona il cinema direttamente alla letteratura e annuncia l’avvento di un nuovo cinema che in futuro, come la letteratura, sarà capace di esprimere il pensiero in maniera versatile ed efficiente. Per Astruc – che cita Renoir, Welles e Bresson come buone approssimazioni di ciò a cui si riferisce – questa nuova tendenza verrà istigata dalle innovazioni tecnologiche, in particolare il 16 mm e la televisione. Astruc preannuncia un’epoca in cui tutti possiederanno un proiettore e potranno “recarsi alla libreria più vicina per noleggiare film scritti su qualunque argomento e di ogni forma, dalla critica letteraria al romanzo, dalla matematica alla storia e alle scienze” (6). Astruc, dunque, annuncia la nascita di un cinema d’autore capace di prodursi in una varietà di registri linguistici e discorsivi, compreso quello saggistico, e di potersi applicare a una ricca gamma di argomenti e discipline, esattamente come accade in letteratura.
Ciò è possibile per Astruc perché il cinema sta “gradualmente diventando un linguaggio”: “per linguaggio intendo una forma con la quale e nella quale un’artista possa esprimere i propri pensieri, per quanto astratti possano essere, o tradurre le proprie ossessioni, proprio come sarebbe in grado di fare se si servisse del romanzo o del saggio” (7).
A posteriori siamo in grado di valutare in maniera più precisa la portata del contributo di Astruc: la vicinanza del nuovo film alla letteratura e l’idea del cinema come scrittura – un concetto non lontano da quello che in seguito verrà chiamato cinécriture; la possibilità per il cineasta di esprimere i propri pensieri liberamente, approfonditamente e con precisione; e l’idea che nuove tecnologie danno vita a nuovi sviluppi linguistici, così come nuovi modi di fruire il cinema, nuove forme di spettatorialità. Queste proprietà esercitano tuttora una profonda influenza sulla maniera in cui concepiamo il film saggio.
Il primo articolo che paragona esplicitamente un film a un saggio è, a quanto mi risulta, “Lettre sur Roberto Rossellini” (“Lettera su Roberto Rossellini”) di Jacques Rivette, pubblicato nel 1955 sui Cahiers du Cinéma (8). Rivette sostiene che Viaggio in Italia è il primo film che offre al cinema le potenzialità del saggio – una forma che, fino ad allora, era possibile ottenere solo per mezzo della scrittura letteraria. Per Rivette, il film di Rossellini è allo stesso tempo un saggio metafisico, una confessione, un registro giornaliero e un diario intimo, in altre parole un saggio nello stile di Montaigne (9). Effettivamente Rossellini, in Viaggio in Italia, ha filmato sia le proprie idee che i dettagli della propria vita quotidiana (una vita che Rivette considera profondamente esemplare e istruttiva). L’importanza dell’impresa di Rossellini è messa in evidenza dall’affermazione di Rivette che il saggio è, in virtù della propria libertà, curiosità e spontaneità, il vero linguaggio dell’arte moderna.
Oggi, l’articolo di Rivette suscita alcune riflessioni e permette di trarre qualche conclusione: il cinema è qui ritenuto capace di esprimere la complessità del pensiero in maniera diretta e precisa, e di riflettere in maniera fedele ed eloquente l’individualità del regista—ancora una volta, un’abilità paragonabile a quella propria della letteratura e della scrittura; il film saggio, inoltre, attraversa i generi, è sperimentale e radicalmente moderno.
La più celebre tra le prime analisi testuali ad assimilare il film al saggio è la recensione di Lettre de Sibérie di Chris Marker scritta da André Bazin e pubblicata originariamente nel 1958 su France-Observateur (10). Sottolineando come Lettre de Sibérie non assomigli a “nulla di quanto abbiamo già visto nel campo del cinema documentario” (11), Bazin definisce il lavoro di Marker “un saggio documentato dal cinema”, evidenziando dunque la preminenza del testo scritto:
“La parola importante è ‘saggio’, inteso nel medesimo senso che ha in letteratura, un saggio allo stesso tempo storico e politico, ma scritto da un poeta. In genere, anche nei documentari politicamente impegnati o in quelli che esprimono un’opinione precisa, l’immagine (ovvero l’elemento strettamente cinematico) costituisce efficacemente il materiale primario del film. L’orientamento del lavoro viene espresso dalle scelte operate dal regista in sede di montaggio, con il commento che va a completare l’organizzazione di senso così conferita al documento. Non è quello che succede nel film di Marker. Direi che nel suo caso il materiale primario è l’intelligenza e la parola il suo immediato mezzo di espressione, mentre l’immagine interviene solo in terza posizione, in riferimento a questa intelligenza verbale” (12).
Bazin sottolinea anche la relazione tra il testo e l’immagine, e tra le varie inquadrature:
“Marker realizza con i suoi film una nozione assolutamente innovativa del montaggio che chiamerei ‘orizzontale’, in opposizione al montaggio tradizionale che gioca con il senso della durata per mezzo della relazione tra le inquadrature. Qui, una data immagine non si riferisce a quella che l’ha appena preceduta o a quella che la segue, ma si riferisce lateralmente, per così dire, a quanto viene detto" (13).
Ritengo che la nozione baziniana di montaggio orizzontale vada presa in considerazione nel senso di pensiero laterale, secondo cui, per usare le parole di Adorno, “il pensiero non procede in una singola direzione”; e quindi nel saggio, che riproduce le elaborazioni del pensiero, “gli aspetti argomentativi si intrecciano come nel tessuto di un tappeto” (14).
Non possiamo che riprendere le considerazioni di Bazin nel momento in cui cerchiamo di delineare le rimanenti componenti essenziali del film saggio – l’idea di un cinema della parola che non può prescindere dalla presenza di un testo scritto, poetico e intelligente, recitato da una voce over; il prominente ruolo del montaggio nella creazione del senso e nella riproduzione del movimento stesso del pensiero; l’enfasi posta sulla libertà del cineasta che può servirsi di “tutto il materiale utile all’occorrenza, comprese immagini fisse (stampe e fotografie), naturalmente, ma anche cartoni animati” (15).
Va notato come tutti questi contributi, apparsi nell’arco di un ventennio, tra il 1940 e il 1958, rilevino con sempre rinnovata meraviglia l’assoluta novità del film saggio e ne suggeriscano l’intrinseca modernità – il suo essere all’avanguardia, in anticipo sui tempi, quasi futuristico, e profondamente legato allo sviluppo tecnologico. È interessante notare come tali riflessioni siano generate da film di tipo molto diverso, che spaziano dal documentario alla finzione, evidenziando dunque una difficoltà tassonomica ma anche l’ubiquità dell’esperienza saggistica, un’ubiquità che va vista anche in senso geografico, temporale e di generica dispersione e mutevolezza.
È dunque il momento di introdurre un breve excursus narrativo riguardo alla maniera in cui la realizzazione del film saggio ha interagito con questo discorso critico, un discorso che riveste un’importanza sempre maggiore all’interno della ricezione delle forme filmiche sperimentali. Durante gli anni ‘60, il saggio sembra emergere più chiaramente come una pratica diffusa che, per quanto non raggiunga mai una forma stabile e univoca tale da potersi cristallizzare all’interno di una definizione di genere, è caratterizzata da alcune caratteristiche condivise, in particolare dalla predominanza di una modalità: quella politica. Mi riferisco, ora, a quegli esempi di sperimentazione caratteristici del cinéma vérité, nello stile di Chronique d’un été (1961), un film nel quale gli autori hanno filmato se stessi come fonte dell’atto comunicativo, iscrivendo nel testo un gesto tanto riflessivo quanto auto-riflessivo; ma anche alla tradizione dei “film pensanti” caratterizzati da un rilevante commento narrato socio-politico e rappresentata, in particolare, da Jean-Luc Godard, Alain Resnais and Chris Marker in Francia, e da Pier Paolo Pasolini in Italia. La predominanza nel saggio del modello politico durante la seconda metà degli anni ‘60 e nel corso dei ‘70 si riflette negli scritti di quell’epoca: Fernando Solanas e Octavio Getino, per esempio, menzionano il film saggio nel loro celebre manifesto come uno dei linguaggi filmici privilegiati per lo sviluppo del Terzo Cinema 16).
Il manifesto di Solanas e Getino è stato originariamente pubblicato nel 1969, anno in cui il termine “film saggio” si può ritenere definitivamente accettato. Lo stesso anno, infatti, vede la pubblicazione di Theory on Film Practice (Prassi del cinema) di Noël Burch (17). In un capitolo dedicato ai “soggetti non di finzione”, Burch prende in considerazione il film saggio in quanto tipo di documentario particolarmente attuale e rilevante. Per Burch, i primi esempi di film saggio sono Le sang des betes (1949) e Hotel des invalides (1952) di George Franju (18), che differiscono dal “documentario vecchio stile” perché non si occupano di un “argomento passivo” ma di un “tema attivo”: il soggetto [di Franju] è, in sé e per sé, uno sviluppo, o meglio, un’interpretazione di tale tema, che diventa dunque attivo” (19). Secondo Burch, i film di Franju non intendono offrire un ritratto oggettivo della realtà, ma un conflitto di idee; si tratta di mediazioni, riflessioni su argomenti non finzionali che “elaborano tesi e antitesi per mezzo della struttura stessa del film” (20). Questi film dialettici rappresentano per Burch anche “il primo utilizzo all’interno del cinema documentario di un approccio formale precedentemente appannaggio esclusivo del film di finzione” (21). Il film saggio consiste dunque di una “dialettica tra finzione e non finzione” (22); è un “cinema di riflessione pura, in cui l’argomento si fa base di una costruzione intellettuale capace di generare la forma complessiva e persino la struttura del film senza che questo venga snaturato o distorto” (23).
Nel momento in cui il film saggio raggiunge una forte diffusione e dà voce a un bisogno diffuso di testimonianza sociale e di un uso politico del medium, questi e altri contributi teorici hanno enfatizzato, una volta di più, la sua completa novità e modernità, e la sua capacità di cogliere la temperie della seconda metà degli anni ‘60 (24).
Il film di domani: tecnologie del futuro, utopie del passato
Al termine di quest’excursus, faccio ritorno alla mia affermazione di partenza, riguardo alla presenza del film saggio sia all’inizio della storia del cinema che alla sue fine. Ciò mi conduce a esprimere una considerazione essenzialmente saggistica e speculativa su quella che considero l’ampia e continua rilevanza cinematografica del film saggio. Fino ad ora ho citato solo teorie e film successivi agli anni ‘40, ma la definizione di film saggio emerge in precedenza. Il primo riferimento al termine “saggio” in relazione al cinema si trova probabilmente in una nota di Eisenstein del 1927 riguardante il suo progetto di adattamento de Il Capitale (25). Altri critici hanno definito saggi i film di Dziga Vertov e Hans Richter, che datano ai primi anni ‘20.
Inoltre, tutte le istanze teoriche con cui mi sono messa qui in relazione pongono forte enfasi sulla capacità del film saggio di diventare un veicolo espressivo dei pensieri del cineasta e della sua soggettività; e la riflessione su tale capacità del cinema (che, incidentalmente, è un argomento piuttosto controverso [26]) emerge molto presto, alle origini stesse della teoria cinematografica, come elemento di quella spinta costitutiva che cercò di definire e dimostrare le credenziali artistiche del cinema. Basti pensare alla maniera in cui i pionieri influenzati dall’impressionismo poetico, compresi teorici come Ricciotto Canudo, Louis Delluc e Jean Epstein, incoraggiavano i registi a esprimere la propria interiorità e visione personale nei loro film (27). La stessa questione emerge ripetutamente nel corso della storia della teoria cinematografica, ad esempio negli anni ‘50 e ‘60, in svariati ambiti, come gli scritti di Cesare Zavattini sulla natura personale del cinema (28), la teoria degli autori della nouvelle vague, gli articoli di Jonas Mekas sul cinema sperimentale (29), e la conferenza di Pier Paolo Pasolini del 1965 sul “cinema poetico” – un primo tentativo di teorizzare un’ideologia dell’uso personale e soggettivo della macchina da presa nel cinema d’autore (30). È proprio in quegli anni, come abbiamo visto, che l’espressione “film saggio” diventa di uso comune nella critica e nella teoria cinematografica.
E oggi? Alla fine dell’esperienza cinematografica così come l’abbiamo conosciuta finora, il termine “film saggio” si incontra con sempre maggior frequenza sia negli scritti accademici che in quelli critici, in risultato della proliferazione di film soggettivi e riflessivi in prima persona, un trend che ha preso il via qualche decennio fa, con quella che Michael Renov ha definito “l’esplosione autobiografica degli anni ‘80 e ‘90” (31). Il trend è diventato così rilevante che, nel 2003, Paul Arthur si è sentito di affermare che “galvanizzato dall’intrecciarsi di storia personale, soggettiva e sociale, il saggio è emerso come la forma non finzionale dominante, grazie alla sua innovazione intellettuale e artistica” (32).
Perché, dunque, il film saggio è così pertinente e cruciale tanto agli inizi quanto alla fine della storia del cinema? Credo sia perché, contrariamente alla sua apparente marginalità, detiene un ruolo unico e decisivo all’interno della storia del film e del discorso critico che l’accompagna. Questo perché si tratta dell’incarnazione più chiara e utopica di due tra i desideri più profondi e interconnessi del cinema: quello della possibilità di usare la macchina da presa come mezzo espressivo altamente duttile, personale e ricettivo, e quello di poter comunicare effettivamente e direttamente i propri pensieri allo spettatore (uno spettatore reale, e non un pubblico generalizzato).
Il primo di questi due desideri storici è emerso immediatamente, ai primi del ‘900, quando artisti provenienti da altri ambiti -letteratura, pittura e fotografia – si sono avvicinati al nuovo medium con curiosità ed entusiasmo sperimentale, e hanno cercato di servirsene come si servivano di penne, pennelli e macchine fotografiche. È poi tornato alla ribalta negli anni ‘40 e nei decenni successivi, grazie alla pratica personale e quasi privata del cinema delle nouvelle vague europee, al cinema diaristico delle avanguardie newyorkesi e alle sperimentazioni del cinéma vérité. A partire dai primi anni ‘70 è stato del fondamentale per il documentario autobiografico nordamericano e il cinema d’opposizione in prima persona di soggetti post-coloniali, migranti, esuli, femministi e gay. Il film saggio è funzionale a tutte queste forme di cinema in prima persona perché incarna nella maniera più evidente il sogno di un cinema d’espressione personale e intellettuale. Porta anche alla luce e racchiude il sublime e paradossale desiderio del cineasta di raggiungere un’audience incarnata, di comunicare direttamente con lo spettatore, di coinvolgerlo nella creazione del significato filmico e di superare in questo modo le inevitabili ristrettezze di un dispositivo che implica un divario incolmabile creato dalla separazione delle fasi di ripresa, montaggio e proiezione (33). Nello sforzo di soddisfare tale desiderio, il film saggio riconosce l’esistenza del corpo filmico, ed è in grado non solo di farsi percepire ma di percepire anche lo spettatore (34). Utilizzando tutti i mezzi a disposizione, e inventandone costantemente di nuovi, il film saggio interpella lo spettatore incarnato, gli chiede di entrare in relazione con il film e, per mezzo del corpo filmico, con il cineasta.
A questo punto vorrei attirare l’attenzione su un altro aspetto fondamentale delle istanze teoriche esplorate finora: l’idea che l’utopia del film saggio sia legata a uno sviluppo tecnologico adeguato, persino futuristico, un’idea cui ha dato espressione più di un teorico. Credo si tratti di un punto chiave per comprendere perché il film saggio costituisca oggi una delle espressioni più vitali del cinema documentario internazionale. In parte, ciò ha a che fare con argomenti di ampio rilievo quali il declino dei miti dell’oggettività e dell’autorità in quanto persuasori sociali. Nel cinema saggistico, infatti, il cineasta esce allo scoperto, utilizza il pronome “io”, ammette la propria parzialità e volontariamente mina la propria autorità, assumendo un punto di vista contingente e personale.
Ed è perché è sempre stato “il cinema del futuro”, così strettamente legato agli sviluppi tecnologici, che il film saggio è tuttora estremamente rilevante. Al momento, il film saggio è in una fase di evoluzione ed espansione proprio a causa dell’introduzione della tecnologia digitale, con tutta la sua potenziale disponibilità, l’accesso facilitato alla produzione e alla fruizione del materiale audiovisivo, l’offerta di nuovi canali distributivi anche per prodotti alternativi. Grazie alla sua natura sperimentale e trasgressiva nei confronti dei generi, il film saggio è da sempre stato aperto alla multimedialità, e la tecnologia digitale permette forme di espressione audiovisiva più flessibili, dirette e personali. Grazie a queste nuove tecnologie e, paradossalmente, alla scomparsa del film così come l’abbiamo conosciuto, la possibilità di usare la macchina da presa o il video come una penna e produrre una cinécriture pienamente personale è meno utopica oggi di quando, nel 1940 – dunque otto anni prima della caméra stylo di Astruc –, Zavattini scrisse il seguente passaggio: “Urgeva invece impadronirsi del mezzo con un costo così esiguo da metterlo alla portata di molti, degli individui, come la carta, l’inchiostro, la plastilina, i colori: introdurre nelle case pellicole e obiettivi come la macchina da cucire” (35). Qui il film saggio anticipa la fine del cinema, una fine in cui viene assimilato – semplicemente, completamente e invisibilmente – alla vita quotidiana. Qualcosa di simile viene detto nel seguente, visionario passaggio scritto da François Truffaut nel 1957, adottato da tanti videobloggers come loro motto:
“Il film di domani mi appare ancora più personale di un romanzo, individuale e autobiografico come una confessione o un diario. I giovani registi si esprimeranno in prima persona e ci racconteranno del loro primo amore o di uno più recente, di una presa di coscienza politica, di un viaggio, di una malattia, del loro servizio militare, del loro matrimonio, della loro ultima vacanza […] e ciò piacerà perché sarà autentico e nuovo. Il film di domani somiglierà a chi l’avrà fatto e il numero degli spettatori sarà proporzionale al numero degli amici che ha il regista. Il film di domani sarà un atto d’amore” (36).
In quest’epoca di grande proliferazione di narrative audiovisive personali, specialmente su internet, l’utopia della macchina da presa come penna sembra essersi finalmente realizzata e aver abbandonato, almeno in parte, la sala cinematografica per trovare spazio in altri media. Ma quest’utopia risale alle origini del cinema; ed è espressione di un profondo e sublime sogno paradossale.
NOTE
(1) Un campione, lungi dall'essere esaustivo, include: L'uomo con la macchina da presa (Chelovek s kino-apparatom, D. Vertov, 1929), Las Hurdes (L. Buñuel, 1933), Notte e nebbia (Nuit et bruillard, A. Resnais, 1955), Le mystère Koumiko (Ch. Marker, 1965), Il fascismo ordinario (Obyknovennyy fashizm, M. Romm, 1965), F for Fake (O. Welles, 1974), Ici et ailleurs (Gruppo Dziga Vertov, 1976), Lost Lost Lost (J. Mekas, 1976), Tokio-Ga (W. Wenders, 1985), La sottile linea blu (The Thin Blue Line, E. Morris, 1988), Arbeiter verlassen die Fabrik (H. Farocki, 1995), Histoire(s) du cinéma (J.-L. Godard, 1997-98), Les glaneurs et la glaneuse (A. Varda, 2000), Fahrenheit 9/11 (M. Moore, 2004), Super Size Me (M. Spurlock, 2004).
(2) Per una discussione approfondita riguardo alla natura e alle modalità dell'esperienza saggistica nel cinema, e delle strutture retoriche dei film in prima persona, si veda L. Rascaroli, The Personal Camera: The Essay Film and the Subjective Cinema, Wallflower Press, London 2009.
(3) H. Richter, "Der Filmessay. Eine neue Form des Dokumentarfilms", in C. Blumlinger, C. Wulff (a cura di), Schreiben Bilden Sprechen: Texte zum essaystischen Film, Sonderzahl, Wien 1992, pp. 195-98.
(4) H. Richter, citato in J. Leyda, Films Beget Films: Compilation Films from Propaganda to Drama, Hill & Wang, New York 1964, p. 31.
(5) A. Astruc, "The Birth of a New Avant-Garde: La Caméra Stylo", in T. Corrigan (a cura di), Film and Literature: An Introduction and Reader, Prentice-Hall, Upper Saddle River NJ 1999, pp. 158-62.
(6) Idem, p. 159.
(7) Ibidem.
(8) J. Rivette, “Lettre sur Roberto Rossellini”, in Cahiers du cinéma, no. 46, 1955, pp. 14-24.
(9) M. de Montaigne, The Essays of Montaigne, Printed for M. Gillflower et. al., London 1700 (ed. it. M. de Montaigne, Saggi, Adelphi, Milano 1966).
(10) A. Bazin, “Bazin on Marker”, in Film Comment, vol. 39, no. 4, luglio- agosto 2003, pp. 44-45.
(11) Idem, p. 44.
(12) Ibidem.
(13) Ibidem.
(14) T. Adorno, Notes to Literature, Columbia University Press, New York 1991, vol. 1, p. 160 (trad. it. Note per la letteratura 1943-1961, Einaudi, Torino 1997).
(15) A. Bazin, “Bazin on Marker”, cit., p. 45.
(16) F. Solanas, O. Getino, "Towards a Third Cinema" (1969), in B. Nichols (a cura di), Movies and Methods, University of California Press, Berkeley 1976, vol. 1, p. 55.
(17) N. Burch, Theory of Film Practice, Princeton University Press, Princeton NJ 1981 (trad. it. Prassi del cinema, Il Castoro, Milano 2000).
(18) Fra gli esempi successivi, Burch cita Salvatore Giuliano di Rosi (1962) e alcuni film di Godard, a partire da Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962).
(19) N. Burch, Theory of Film Practice, cit., p. 159.
(20) Ibidem.
(21) Ibidem.
(22) Idem, p. 164.
(23) Idem, p. 162.
(24) Si veda anche l'intervento di Italo Calvino ad un simposio del 1966 su “Cinema e Romanzo”, pubblicato originariamente sui Cahiers du cinéma; ora in I. Calvino, The Uses of Literature, Harvest-Helen and Kurt Wolff-Harcourt Brace and Company, San Diego- New York- London 1986, pp. 74-80.
(25) G. Fihman, "L'Essai cinématographique et ses transformations expérimentales", in S. Liandrat-Guigues, M. Gagnebin (a cura di), L'Essai et le cinéma, Champ Vallon, Seyssel 2004, p. 41.
(26) Si veda, ad esempio, E. W. Bruss, "Eye for I: Making and Unmaking Autobiography in Film", in J. Olney (a cura di), Autobiography: Essays Theoretical and Critical, Princeton University Press, Princeton NJ 1980, pp. 296- 320.
(27) Si veda H. Agel, Esthetique du cinéma, PUF, Paris, 1971, p. 9.
(28) Zavattini avvia le proprie riflessioni su un approccio alla regia personale e autobiografico già nel 1940, e continua a svilupparle nel corso dei decenni successivi. Si veda C. Zavattini, Neorealismo ecc., Bompiani, Milano 1979.
(29) Si veda J. Mekas, Movie Journal: The Rise of a New American Cinema, 1959-1971, MacMillan, New York 1972.
(30) P.P. Pasolini, Heretical Empiricism, Indiana University Press, Bloomington- Indianapolis 1988, pp. 167-86 (ed. it. originale, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972).
(31) M. Renov, The Subject of the Documentary, Minnesota University Press, Minneapolis- London 2004, p. XXII.
(32) P. Arthur, “Essay Questions: From Alain Resnais to Michael Moore”, in Film Comment, vol. 39, no. 1, gennaio- febbraio 2003, p. 58.
(33) La struttura retorica del saggio si basa infatti su una costante interpellazione del ricevente, cui l'“io” del saggista si riferisce come a un “tu” incarnato. Si veda L. Rascaroli, The Personal Camera: The Essay Film and the Subjective Cinema, cit.
(34) Si veda V. Sobchack, The Address of the Eye: A Phenomenology of Film Experience, Princeton University Press, Princeton 1992.
(35) C. Zavattini, Neorealismo ecc., cit., p. 38. Pubblicato per la prima volta su Cinema il 25 aprile 1940.
(36) F. Truffaut, Truffaut by Truffaut, Abrams, New York 1987, p. 25.
(Originariamente pubblicato in Francesco Casetti, Jane Gaines, Valentina Re [a cura di] Dall'inizio, alla fine: Teorie del cinema in prospettiva. Atti del XVI Convegno internazionale di studi sul cinema, Udine, 24-26 marzo 2009 [Udine: Forum Editrice, 2010]. Traduzione di Alessandro Stellino).