Ha senz'altro ragione il visibilmente commosso Gianni Da Campo a sottolineare con forza il radicale anticlericalismo del suo splendido Pagine chiuse, subito dopo la proiezione tributatagli da una Mostra veneziana di quarantaquattro edizioni successive a quella che lo vide esordire. Ha ragione, questo isolatissimo autore di tre soli lungometraggi (gli altri sono La ragazza di passaggio, 1972, e Il sapore del grano, 1986), a ribadire che l'educazione cattolica, come quella "subita" dal suo piccolo (undici anni) Luciano costretto a vivere in collegio dopo il divorzio dei genitori, è stata a lungo una vera e propria piaga che nei decenni e nei secoli ha prodotto danni incalcolabili per generazioni e generazioni di italiani. È insomma vero che, come dice nella stessa occasione Da Campo, non foss'altro che per questo motivo la sua opera prima vale come importante testimonianza di cui tener conto anche nel nostro presente (e oltre). Tuttavia, rivedere oggi questo suo esordio dietro la macchina da presa ripensando all'anno in cui vide la luce (1968), fa pensare non solo a un oggetto del passato che chiede cittadinanza nel nostro presente, ma anche, inevitabilmente, a uno sguardo che fu capace di posarsi sugli anni della contestazione come provenisse dal futuro.
 
Benché il racconto non esca mai dal perimetro di un collegio, e racconti di frustrazioni pre-adolescenziali a contatto con un mondo chiuso e angustamente pretesco, e di atmosfere che, a detta dell'autore stesso, si riferiscono più che altro al decennio precedente, ci si pensa eccome, alla contestazione che in quell'anno di climax già intravedeva la sua eclissi imminente. Quella di Luciano è una ribellione che non si smette mai di avvertire, ma che, nonostante una sempre crescente autocoscienza, non perviene mai a una forma, a un'eruzione, a un'espressione. A contatto con un ambiente mortalmente asfittico che rinuncia a qualsiasi ambizione vitale soffocandola in un appiccicoso, conformista cameratismo da quattro soldi, Luciano si macera in uno struggimento sommesso che non si avrebbe nessuna ritrosia a definire blues. La sua sensibilità "da scorticato vivo" (sono parole di Jacques Lourcelles), Da Campo la tiene sotto a un registro di efficace understatement, ottenuto anche attraverso un sapiente utilizzo dell'opacità e della reticenza espressiva degli attori. E dentro a questa coltre di uniformità, che marca stretto il grigiore di quell'ambiente, si aprono sistematicamente epifanie in cui all'improvviso quel mondo viene messo davanti, attraverso Luciano, alla coscienza della propria miseria. E ognuna di quelle volte, anche se poi tutto continua come prima, è come se si spalancasse l'abisso.
 
Valga per tutte la scena della confessione, nella quale Luciano, rivolgendosi inginocchiato al prete dietro la grata, sposa un'obiettività feroce che ribalta la propria presunta colpa in un'accusa agli accusatori stessi. Lo fa con calma, senza calcare mai i toni – e il regista con lui. Ma si tratta solo della punta dell'iceberg di una sagacia letteraria (il "padrino" del film fu Valerio Zurlini, e non per caso) capace di incrinare pressoché in ogni scena la grigia superficie con sbalorditiva discrezione e misura. Che sia con scene di sussurrato lirismo (l'incontro notturno con una coppia di amanti che si baciano in strada), di inatteso soggettivismo (il "monologo interiore" di immagini mentali sotto la doccia), o di enorme quanto trattenuto potenziale emotivo (l'incontro col padre che viene a dire a Luciano che le vacanze di natale non le trascorrerà in famiglia, ma lì all'istituto), sotto al tran-tran della spenta vita di collegio, la rabbia, la consapevolezza e l'amarezza si fanno sentire attraverso un crescendo che si fa strada lentamente, ma con allucinante regolarità, inarrestabilità e precisione. Fino al travolgente finale, in cui Luciano, pesce fuor d'acqua triste e tranquillo ma non dimesso, compie il semplicissimo ma rivoluzionario gesto di alzarsi ed allontanarsi nel bel mezzo di una funzione religiosa.
 
Anche Da Campo uscirà ben presto dalle scene (del cinema), dopo questo suo magnifico esordio fabbricato con una troupe ridottissima, capace non solo di infiammare la Venezia del 1968, ma anche di impressionare, a Cannes nel 1969, una Semaine de la Critique in cui gli altri concorrenti si chiamavano (fra gli altri) Emile de Antonio, Jean Eustache, Jim McBride, Barbet Schroeder, Fernando Solanas, Alain Tanner. Ma il sasso era stato lanciato, e il 1968 aveva ricevuto dal futuro una bruciante, straziante premonizione del muro invisibile su cui sarebbe andato a sbattere.