Che Internet abbia contribuito a trasformare la critica cinematografica e televisiva (1) è piuttosto evidente, sebbene le modalità con cui tale mutamento si sia compiuto non sono certo di facile definizione. Il cambiamento più ovvio è di livello prettamente qualitativo: la tecnologia digitale ha reso il principio “tutti siamo critici” più vero che mai. Impresa ancora più ardua è la valutazione dell’effetto di Internet sulla qualità della critica cinematografica e televisiva, in particolar modo poiché gli sviluppi sono decisamente diversi e contraddittori. Lo standard qualitativo della critica online si aggira tra il brillante e banale, ed è facile sostenere che la critica cinematografica ne abbia giovato così come il contrario. Tutto dipende dal campo d’azione della nostra analisi e dai criteri valutativi cui ci affidiamo. Possiamo affermare con certezza che il digitale possiede un enorme potenziale in grado di rinvigorire la critica cinematografica e televisiva. L’obiettivo di questo articolo è tentare di esplorare in cosa consista e come possa essere raggiunto. Chiaramente, è impossibile affrontare un argomento così vasto mantenendosi a un livello generale. La critica cinematografica è un concetto di ampia portata, che spazia dai blog di semplici appassionati alle recensioni sui quotidiani e agli studi accademici impregnati di teoria e storia del cinema. Mi concentrerò proprio su questi ultimi, da un lato per rendere la discussione in qualche modo di facile trattazione, dall’altro perché occupano il settore maggiormente orientato alla critica tradizionale, quella che potrebbe trarre i benefici più concreti e affascinanti dal successo di tale potenziale (2).

Uno dei vantaggi palesi della critica digitale è la sua flessibilità. Ad esempio, a differenza delle sue declinazioni stampate, gran parte della critica online non deve preoccuparsi di conteggi di parole o scadenze di consegna. È inoltre libera di scrivere di qualsiasi film, non solo delle ultime uscite cinematografiche, e di mettere alla prova le convinzioni diffuse ed esplorare stili di scrittura alternativi, svincolati da politiche editoriali. L’interattività è un’altra delle risorse più frequentemente citate. I collegamenti ipertestuali possono indirizzare i lettori verso importanti informazioni di base, mentre le sezioni dedicate ai commenti rendono la critica online più simile a un confronto piuttosto che a un verdetto che piove dall’alto. Ma l’aspetto più importante – e promettente – è che i critici online possono incorporare nel proprio lavoro immagini e suoni. Il videosaggio, che negli ultimi tempi ha conosciuto un sempre più crescente sviluppo, utilizza comunemente sequenze tratte dalle opere oggetto di studio in modo da arricchire e amplificare la funzione della critica: far luce su diversi film, gruppi di film o sul cinema come forma d’arte.
 
L’impossibilità di citare l’oggetto di studio ha rappresentato a lungo uno svantaggio per la critica cinematografica, una problematica che è stata espressa in modo forse enigmatico nel classico saggio di Raymond Bellour The Unattainable Text. Per Bellour, il testo letterario occupa una posizione privilegiata dovuta alla “conformità assoluta dell’oggetto e dei mezzi di studio, nella piena contingenza materiale fra la lingua e il linguaggio” (1975: 20). Al contrario dei critici letterari, i critici cinematografici non avevano mai avuto la possibilità di riportare porzioni delle opere citate, dovendo affidarsi all’unico strumento possibile, la parola, e dunque simulando, evocando, descrivendo, “giocando con un oggetto assente”, come afferma Bellour (ibid.: 26). Nell’era digitale non è più necessario. Per la prima volta, vi è equivalenza materiale tra film e critica cinematografica, poiché entrambi esistono – o possono essere resi disponibili – semplicemente come archivi digitali.
 
Quest'ultima affermazione richiede tuttavia un paio di precisazioni. Innanzitutto, non è del tutto vero che la critica cinematografica non abbia potuto affidarsi a elementi cinematici. La pellicola è un mezzo multimodale e il suo registro comprende il mezzo d’espressione simbolo della critica stampata: la parola scritta. Ne deriva che le parti di film costituite da testo sono assolutamente citabili. Il problema è che di rado, per non dire mai, quel testo funziona in modo autonomo sullo schermo. Certo, quando all’epoca del cinema muto i registi si affidavano ai cartelli, i critici erano in grado di citare fedelmente i dialoghi del film, ma non – ed è questo l’aspetto cruciale – la relativa attuazione visiva precedente e/o successiva (con tutta probabilità il vero motivo per cui tali opere si affidavano primariamente a un impianto visivo piuttosto che letterario). Con l’introduzione del suono, dialoghi e recitazione si sono sincronizzati, evidenziando l’inadeguatezza della citazione parziale (o più precisamente, in questo caso, della trascrizione). La critica cartacea può certamente riprodurre il significato letterale del parlato sullo schermo, ma non l’atto stesso del parlare, vale a dire il “cosa” ma non il “come” (tranne, naturalmente, attraverso l’ecfrasi [3]).
 
Inoltre, sin dagli anni Settanta del secolo scorso gli studiosi di cinema hanno talvolta utilizzato fotogrammi per le loro letture ravvicinate. Se da una parte sono utili per determinati scopi – ad esempio analizzare la composizione dell’immagine o gli schemi d’illuminazione – le immagini fisse possono soltanto suggerire alcune delle caratteristiche chiave della pellicola come forma d’arte temporale: movimento della macchina da presa, montaggio ecc. Come mette in evidenza Kristin Thompson – la quale, insieme a David Bordwell, ha aperto la strada all’uso delle immagini fisse negli studi accademici –, i fotogrammi venivano usati sporadicamente poiché “per fotografarli erano necessarie apparecchiature speciali, come ad esempio obiettivi fotografici costosi, fonti di luce cromo-bilanciate, senza contare le competenze indispensabili al loro utilizzo” (2006: n.p.). Quindi, fino all’arrivo del DVD che ha di fatto agevolato la cattura delle immagini, la maggior parte degli studiosi ha continuato a fare uso di fotogrammi ricavati da sessioni fotografiche, che naturalmente risultavano inutili all’analisi ravvicinata, poiché “non riflettevano quanto realmente appariva sullo schermo, trattandosi di scatti sul set, spesso in pose diverse e con una diversa illuminazione e posizione della macchina da presa” (ibid.). 
 
Altro aspetto: non tutti i film sono disponibili in formato digitale. Numerose opere cinematografiche non possono essere citate neppure nei videosaggi, per il semplice motivo che non sono disponibili online o in DVD. Infine, se pensiamo alla distribuzione del film come “originale”, alcune informazioni audiovisive possono essere andate perdute o aver subito alterazioni poiché la pellicola in celluloide è stata convertita in formato digitale su computer. Ad esempio: assenza di suono avvolgente; grana della pellicola rimossa; immagine ritagliata intorno al perimetro (4). Eppure, per la maggior parte degli scopi questi sono problemi secondari (e a tal proposito vale la pena ricordare che neppure i critici letterari sono in grado di citare tutti gli aspetti di un libro: per valutare la qualità della carta, l’impaginazione o lo stile dei caratteri, anch’essi devono ricorrere alla descrizione).
 
 
L’evidente vantaggio per la critica cinematografica digitale sta nella capacità di citare allo scopo di illustrare ed esemplificare, offrire al lettore frammenti dell’opera come struttura condivisa di riferimento per le osservazioni e le valutazioni del critico. Nella fase attuale è complicato illustrare i risultati raggiungibili. Il videosaggio è un concetto in divenire e non ha ancora assunto forme o modelli certi. L’etichetta si riferisce a pellicole talvolta largamente divergenti. La splendida analisi in cinque parti di Matt Zoller Seitz della figura registica di Wes Anderson, The Substance of Style, è uno studio autoriale ragionevolmente convenzionale, che tenta di individuare le influenze chiave sullo stile e sui temi del cineasta. Tuttavia, piuttosto che proporre le sue argomentazioni in forma scritta, il critico si affida a una voce narrante accompagnata da sequenze tratte dai lavori di Anderson accuratamente montate, a volte sovrapposte a quelle degli artisti che lo hanno ispirato. Ciò permette a Zoller Seitz di conseguire in modo più economico, accurato e persuasivo lo stesso risultato che un lavoro scritto con l’uso di fotogrammi può solo sperare di raggiungere.
 
Al contrario, il videosaggio di Jim Emerson, Close-Up, presenta un approccio al formato decisamente diverso6. Il collage di sequenze da classici del cinema senza narrazione espositiva da lui proposto non offre tuttavia la stessa linea diretta di ragionamento vista come meditazione evocativa sul mezzo. Con alcune modifiche (a suo possibile detrimento), il saggio di Zoller Seitz potrebbe probabilmente essere adattato a un articolo accademico; allo stesso modo, il lavoro di Emerson non sfigurerebbe in una galleria d’arte. Questi esempi, comunque lontani dall’essere esaustivi, indicano l’obiettivo che si pone del videosaggio. Come vedremo, il formato coincide in un’infinità di modi a un certo numero di strutture generiche maggiormente stabilite. Lo scopo della presente discussione è in parte descrittivo – tenta, cioè, di delineare sommariamente i generi principali con cui il videosaggio converge – e in parte normativo, vale a dire cerca di indicare i percorsi attraverso i quali il videosaggio può migliorare la critica cinematografica.
 
Un chiaro punto di riferimento è il cosiddetto film-saggio, in sé creatura notoriamente sfuggente. Phillip Lopate lo definisce un centauro, “un genere cinematografico che a mala pena esiste” (1992: 19). Ciò che si propone, non certo senza difficoltà, è l'equivalente cinematografico del saggio letterario: un tentativo eloquente e personale di risolvere un certo problema ben definito o un nodo mentale attraverso argomentazioni coerenti che ostenta, segue, traccia o preserva l’atto del pensare. 
 
Se da una parte condivido il desiderio di Lopate di vedere questo genere fittizio portato a compimento, dall’altra rappresenta un argomento troppo ampio e al contempo limitato per poter essere trattato qui. Di fatto, non esistono vincoli tematici. Un film-saggio può trattare qualsiasi argomento, la critica cinematografica deve invece analizzare un film. Ma pensarla così sarebbe troppo restrittivo, dato che Lopate cerca di descrivere un certo stile, o per meglio dire un tono della voce: elegante, pungente, soggettivo, pensieroso, riflessivo e così via. Il film-saggio assume una posizione intermedia tra le pratiche avanguardiste e quelle documentariste. Da un lato, è più accessibile e meno radicalmente sperimentale dell’avanguardia. Per Lopate, il saggio presenta un discorso ragionato su un soggetto ragionevolmente identificabile. In tal modo, ha qualche difficoltà nel ritenere un cineasta come Jean-Luc Godard “saggista”, poiché “troppo modernista […], non si sognerebbe neppure di esprimere in modo diretto le proprie opinioni” (ibid.: 20). Mentre la forma saggio “consente la frammentazione e la disgiunzione […], continua ad avvilupparsi intorno a se stessa come un pezzo unico, resistendo all’alienazione, anche solo attraverso la potenza di una voce personale e sintetica con le sue antiquate supposizioni umanistiche” (ibid.: 21). In maniera più controversa, forse, Lopate insiste sul fatto che un videosaggio debba “contenere parole, siano esse in forma di testo parlato, sottotitolo o cartello”. (ibid.: 19).
 
Dall’altro lato, la retorica del saggista s’impegna con meno autorità rispetto al documentarista; è meno energica, imparziale, declamatoria o didattica: “Il testo deve offrire più che semplici informazioni”, scrive Lopate, “deve possedere un punto di vista forte e personale. La tradizionale voce fuoricampo nei documentari che ci riferisce, ad esempio, dell’annuale pesca alle aringhe è fondamentalmente giornalistica, non saggistica” (ibid.: 19). L’approccio tipicamente onnisciente del documentario è collettivo e condiviso. Il saggio, al contrario, ci invita ad adottare una posizione spettatoriale più singolare. Ci tratta da individui rappresentati piuttosto che come massa omogenea. Come osserva Laura Rascaroli, l’argomentazione del film-saggio è meno “chiusa” e la sua “retorica tale da prendere in esame problematiche e consultarsi con lo spettatore; invece di guidarlo attraverso una reazione emotiva e intellettuale, lo invita a partecipare personalmente al film” (2008: 35).
 
 
Se la forma del saggio può essere assai gratificante, sarebbe ovviamente insensato ridurre la critica cinematografica digitale a un letto di Procuste. Possiamo tutti essere d’accordo che il videosaggio – o, se si desidera evitare le limitanti connotazioni del termine, la critica cinematografica audiovisiva – trarrebbe giovamento sia dalle pratiche più documentaristiche sia da quelle più avanguardiste. Effettivamente, a me pare che, tra gli studiosi, la definizione avanguardista di critica audiovisiva sia la più prevalente. Ad esempio, la rivista online Audiovisual Thinking (5), recentemente lanciata e dal titolo sintomatico, è composta in gran parte da video sperimentali. Vectors è una rivista online dal taglio simile, che promuove se stessa come “una fusione di mezzi di comunicazione vecchi e nuovi per dare impulso a nuovi modi di conoscere e vedere che amplino i paradigmi basati sui testi rigidi della scuola tradizionale”. Sebbene questo lavoro sia piuttosto vario e particolarmente difficile da classificare, è possibile almeno affermare che parti di esso condividano certe affinità con alcune pratiche preesistenti, anche se in un certo senso marginali e interdipendenti. Di conseguenza, alcune parti sembrano avere un fine teorico, che riporta alla mente la tradizione di cineasti accademici quali Noël Burch, Laura Mulvey e Peter Wollen, altre sembrano ispirate da arte autoreferenziale e avanguardista impegnata nell’attivismo politico, richiamando ad esempio gli sforzi di autori situazionisti come Guy Debord. Di conseguenza, Eric Faden, autorevole sostenitore e professionista della cultura multimediale, scrive che i “media stylos” o “mezzi di comunicazione critici” (come definisce egli stesso i suoi videosaggi) consistono nell’“utilizzo d’immagini in movimento per mettere in gioco e criticare se stesse; immagini in movimento che illustrano concetti teorici; o persino immagini in movimento che rivelano il lavoro della propria costruzione” (2008: n.p.).
 
Questi sforzi sono interessanti e gratificanti, poiché non esiste una linea definita che separi nettamente i tentativi accademici da quelli artistici sempre e in ogni caso. Naturalmente, la maggior parte dei prodotti e delle pratiche che incontriamo possono essere assegnate esclusivamente a un ambito: arte o studio, e le distinzioni possono essere fatte in modo piuttosto semplice, in base a convenzioni generiche, ad esempio, o all’affiliazione istituzionale. È naturale, comunque, che talvolta ci si trovi di fronte a sovrapposizioni e casi limite. Detto in modo più semplice, una rappresentazione può fare riferimento a teorie o concetti accademici (alla filosofia, ad esempio, alla narratologia o alla psicanalisi), mentre la consapevolezza e la comprensione del mestiere che implica un’opera d'arte può perfezionare l’abilità analitica e teorica degli studiosi. 
 
Cercare tra le zone grigie, esplorare intersezioni e reciprocità può essere vantaggioso e dimostra quanto casuali possano essere i confini fra arte e studio. In alcuni casi, artisti e studiosi sembrano, generalmente, impegnati sullo stesso fronte, salvo adottare approcci diversi. Questa non è certo una rivelazione. Dopotutto, i dibattiti sulla natura distinta e l’interdipendenza di letteratura e filosofia possono essere rintracciate persino in Platone (6). È, o dovrebbe essere, indiscutibile che il limite tra campi adiacenti non sia determinato una volta per tutte dalle caratteristiche intrinseche dei rispettivi fenomeni. Tuttavia, il fatto che la linea di demarcazione possa essere tracciata in modo diverso non significa che possa esserlo ovunque. I modi in cui suddividiamo in compartimenti attività e creazioni artistiche e accademiche non sono certo interamente naturali, ma neppure completamente arbitrarie. Col tempo, i due settori hanno sviluppato regole e approcci piuttosto distinti, occasionalmente convergenti. Questi schemi sono, com’è ovvio che sia, in continua evoluzione, eppure esiste una notevole continuità, nonostante le divisioni pragmatiche persistano perché utili a determinati scopi.
 
Di conseguenza, sebbene non scoraggi di certo lo studio audiovisivo volto a metodi d’indagine e comunicazione sperimentali e “spettacolarizzati”, non ritengo sia questo il maggiore potenziale della critica cinematografica digitale. Ritengo infatti che adotti con eccessiva facilità l’astrattismo concettuale dell’avanguardia artistica e che non si sforzi abbastanza di conservare le competenze specifiche degli studiosi di cinema in quanto tali: vale a dire la capacità non solo di illustrare un pensiero complesso, ma di metterlo in primo piano e di articolare e comunicare tali idee con chiarezza (7). Ecco perché condivido l’auspicio di Lopate di vedere i lavori più intellettualmente ambiziosi tentare non solo di farci pensare – benché non vi sia nulla di male, naturalmente –ma di “comunicarci anche il pensiero del suo autore” (1992: 20). 
 
 
Naturalmente, condivido la preoccupazione di molti videosaggisti che il materiale audiovisivo non debba servire semplicemente da ornamento, ma contribuire a qualcosa che il semplice testo non è in grado di raggiungere. Concordo con Faden quando afferma che diverse riviste elettroniche si limitano a riprodurre le tradizionali pubblicazioni stampate sullo schermo di un computer, “gli stessi contenuti densi, solo più difficili da leggere” (2008, n.p.). Tuttavia ritengo che esageri le differenze tra critica cartacea e multimediale quando afferma che: "Il sapere tradizionale aspira all’esaustività, all’essere definitivo, al punto finale, all’ultima parola su un particolare argomento. Il “media stylo”, al contrario, suggerisce una possibilità – non è la conclusione dell’inchiesta accademica; è l’inizio. Esplora e sperimenta ed è destinato sia a ispirare sia a convincere (…) La differenza cruciale sta nello spostare il sapere oltre la semplice creazione della conoscenza e nell’assumere una funzione estetica e poetica" (ibid.). 
 
Non ritengo che questo conduca a una distinzione rilevante tra sapere tradizionale e multimediale. Piuttosto, Faden traccia arbitrariamente i differenti mezzi di espressione su diverse procedure e ideali epistemologiche, che sembrano corrispondere approssimativamente alla vecchia – ed evidentemente vaga – classificazione fra filosofia continentale e analitica. Quindi, da una parte, la descrizione di Faden del “media stylo” sarebbe esattamente applicabile al lavoro di molti influenti pensatori che hanno formulato le loro idee in forma cartacea: in Critical Excess, Colin Davis precisa che “ciò che preme a Heidegger è il prodotto filosofico delle sue letture, non il loro stimolo critico” (2010: 24), mentre Deleuze “intendeva creare qualcosa di nuovo attraverso i suoi incontri con [testi e film]” (ibid.: 56); Zizek, invece, “tentenna tra gli sforzi pazienti e oltraggiosi dell’immaginazione interpretativa” e “conta di più sulla testimonianza che sulla discussione” (ibid.: 128). Harold Bloom scrisse che “tutta la critica è poesia in prosa” (1973: 95), mentre Derrida preferiva affermare di aver scritto “verso” piuttosto che “riguardo” i testi (1992: 62).
 
D'altra parte, il sapere audiovisivo può naturalmente adottare modi d’inchiesta e presentazione più convenzionali e pedagogici , e ritengo che l’esplorazione più attenta offerta dai modi maggiormente espositivi – “documentaristici”, se si vuole – della critica cinematografica audiovisiva offra vantaggi importanti. Gli esempi di certo non mancano. Un’altra rivista online, Mediascape ha pubblicato alcuni videosaggi la cui retorica è più smaccatamente esplicativa che interrogativa o associativa. Altri siti Internet si rivolgono a un pubblico più generale di cineasti. Moving Image Source contiene diversi videosaggi, realizzati principalmente da Matt Zoller Seitz, caratterizzati da uno svolgimento chiaro e da una narrazione fuoricampo che guida lo spettatore. Il critico e regista Kevin B. Lee è un altro dei collaboratori più assidui. Zoller Seitz cura inoltre Press Play – un blog che nasce da Indiewire, un quotidiano di notizie online per autori indipendenti – costituito in gran parte da videosaggi. 
 
Raramente coloro che scrivono su questi siti sono eruditi; si tratta piuttosto di scrittori, critici o cineasti freelance. Questa osservazione non è affatto una critica, naturalmente; rappresenta invece un'indicazione di quanto gli studiosi siano stati reticenti a esplorare il sapere audiovisivo, se non come pratica avanguardista. Un progetto recente è Audiovisualcy, il cui sottotitolo ("studi su film videografici e immagini in movimento") e presentazione (“un forum online per videosaggi su testi di film, immagini in movimento e teoria cinematografica”) suggeriscono un taglio più accademico. Ma sebbene presenti contributi originali, funziona più da archivio, un contenitore che raccoglie videosaggi da tutto Internet. Di conseguenza, riproduce in gran parte ciò che è disponibile su siti web come Press Play.
 
Mi preme enfatizzare quanto tutti questi rappresentino validi contributi alla cultura cinematografica (8), spero dunque di non apparire troppo critico o precettistico quando auspico un utilizzo più efficace del videosaggio, almeno dal punto di vista accademico. In primo luogo, vorrei vedere la critica cinematografica audiovisiva offrire ulteriori idee, meglio esposte e più approfondite. Gran parte degli sforzi sinora attuati tendono a essere relativamente brevi, solitamente intorno ai dieci minuti (9). Si tratta di fatto di un compito arduo, naturalmente, ma è possibile immaginare il lavoro audiovisivo densamente divulgativo e intellettualmente ambizioso come un tradizionale articolo accademico (10). Certo, il ricorso alle citazioni visive elimina spesso l’esigenza di esposizione (11), tuttavia condivido il pensiero di Lopate che – contrariamente all’utopismo del celebre articolo di Alexandre Astruc del 1948 “The Birth of a New Avant-Garde: La Camera-Stylo” – afferma che la macchina da presa “non è una matita ed è piuttosto difficile usarla per pensare” (1992: 19). La critica cinematografica audiovisiva non dovrebbe accettare in maniera troppo acritica la vecchia massima del cinema: mostrare, non parlare. Ora, non intendo certo precludere troppo frettolosamente alcuni sentieri ancora da battere; è necessario sperimentare con il genere, senza vagheggiare in anticipo sulle possibilità future. Mi limiterò quindi ad affermare che nella mia, evidentemente timida, visione della critica cinematografica audiovisiva del futuro, è ancora la forma testuale – scritta o parlata che sia – a compiere lo sforzo maggiore nel veicolare il pensiero dell’autore. 
 
 
Esiste la preoccupazione comprensibile che, con l’aggiunta di immagini in movimento ai suoi strumenti d’indagine, la critica audiovisiva debba esprimere qualcosa che il semplice testo non è in grado sviluppare. Onestamente, gli elementi visivi non dovrebbero assumere un valore puramente iconografico, se con questo intendiamo semplice ornamento. Tuttavia, non riesco a vedere come possano essere “semplicemente” decorativi fintanto che sono accuratamente selezionati e utilizzati. Immaginate celebri esempi di critica cinematografica storico-teorica come “Visual Pleasure and Narrative Cinema” di Laura Mulvey oppure “The Cinema of Attractions” di Tom Gunning come voci narranti su spezzoni illustrativi: forse non si otterrebbero nuove intuizioni – o magari sì, anche se sarebbe difficile esprimerle in maniera ipotetica – ma si agevolerebbe la comprensione di alcuni autori con maggiore immediatezza e precisione, e si renderebbero i testi accessibili a un pubblico più vasto. Probabilmente il lavoro necessario non giustificherebbe l’enorme dispendio di energie, ma esistono buoni motivi per ritenere che aggiungerebbe qualcosa di valido. 
 
Altri scritti ne trarrebbero assoluto vantaggio; ad esempio, la celebre analisi “The Obvious and the Code” di Raymond Bellour di dodici inquadrature tratte da Il grande sonno di Howard Hawks. Per non parlare degli studi formalisti: David Bordwell – che più di tutti usa i fotogrammi in modo abile ed esteso per illustrare le sue osservazioni – ne gioverebbe enormemente. Immaginate solo la sua analisi – di strategie di allestimento scenico in profondità (12), di sequenze di azione da film di Hong Kong (13) o dell’accresciuta continuità nei film commerciali di oggi (14) – con il valore aggiunto delle immagini in movimento, insieme a confronti ravvicinati di film di diverse epoche e tradizioni. Chiaramente, i vantaggi sarebbero notevoli.
 
Qualsiasi tipologia di analisi ravvicinata, sia ermeneutica o descrittiva, ne gioverebbe: la critica della mise-en-scene, ad esempio, o l’analisi statistica dello stile, o ancora l’interpretazione di temi, simboli e riferimenti intertestuali. A un livello generale, renderebbe la critica cinematografica più ricca: non solo più attendibile e verificabile, ma anche più divertente e accessibile. La critica stampata tradizionale di ogni tipo tende innegabilmente a riporre enormi speranze (o fiducia) sulla memoria visiva del lettore. A questo proposito, “The Pervert’s Guide to the Cinema” di Sophie Fiennes (2006) rappresenta un caso intrigante. Un “documentario” di 150 minuti, riccamente illustrato con spezzoni, in cui il filosofo e psicanalista Slavoj Zizek, intrappolato nella diegesi, sentenzia sul significato di singoli film e sul cinema in genere e suggerisce come le citazioni visive possano servire a esemplificare e a chiarire le idee – anche se poi il film assume più i caratteri di un’introduzione generale al pensiero di Zizek che non quelli di un’analisi approfondita e concentrata di un'opera distinta (15).
 
Anche i commenti sui DVD a cura di registi, critici e storici possono fare allusione a certe forme che la critica cinematografica digitale può assumere, benché lo svantaggio sia enorme: la voce narrante è alla mercé – o perennemente nel tentativo di tenere il passo – dello sviluppo lineare e temporale del film. Come osserva Adrian Martin, ciò significa che la voce narrante si limita a “coincidere in modo approssimativo con il flusso del film, sequenza dopo sequenza, portando a ignorare in un certo senso il film e offrendo una semplice lettura del suo contesto, delle informazioni di base, della biografia del regista, etc.” (2010: n.p.) (16). Nella critica cinematografica digitale che ho in mente, testo e immagini sono attentamente coordinate o “co-scritte”. In tal modo, l’autore può interrompere l’azione, ad esempio bloccando il fotogramma, sviluppare un discorso approfondito sulla composizione della sequenza o inserire sequenze da altri film per operare un raffronto.
 
Altri contesti di riferimento per la critica cinematografica audiovisiva sono le conferenze e i corsi universitari, che uniscono normalmente parola detta, immagini fisse e in movimento, e testo sottoforma di elenchi puntati o citazioni. Anche tutti questi elementi potrebbero rientrare nel videosaggio, anch’esso forma di lettura di cui il presentatore possiede il controllo totale. Con il vantaggio di poter eliminare ritardi, distrazioni, imprevisti tecnici, digressioni, inquietudini, false partenze e dimenticanze. Il videosaggio permette infatti di sintonizzare ogni particolare della presentazione per illustrare un argomento con precisione e chiarezza.
 
Finora mi sono concentrato su come le citazioni visive possano ottimizzare il genere di critica e analisi che gli studiosi di cinema sono abituati a leggere. È indubbio che la capacità di utilizzo di immagini di movimento consenta al critico di esprimere le idee in modo più accurato e nitido, e l’importanza di questo aspetto non andrebbe sottovalutata. Eppure, il più grande motivo di esaltazione sta forse nell'idea che gli elementi visivi possano stimolare ulteriormente il pensiero. Questo, ovviamente, è un punto complicato da dimostrare; proverò in ogni caso a tentare di spiegare ciò che intendo attraverso un esempio: nel 2009 scrissi un articolo sull’intertestualità nella serie TV The Wire (2002-2008), osservando come l’attacco a Hamsterdam nel finale della stagione 3 ricordasse Apocalypse Now (1979) di Coppola grazie, tra l’altro, all'utilizzo della stessa musica (“La cavalcata delle Valchirie” di Wagner). In poche parole, ho portato avanti l’idea che questo parallelo, se considerato nel contesto di altri riferimenti e analogie, stabilisse determinate associazioni emotivamente e ideologicamente importanti in grado di contribuire alle preoccupazioni sociopolitiche di The Wire. Trovandomi allora agli inizi del mio interesse per la critica audiovisiva mi colpisce, quando rivedo queste scene, come vi siano ulteriori similitudini a livello formale anch’esse meritevoli di considerazione. Per essere più precisi – sebbene sia difficile esserlo troppo senza ricorrere a elementi audiovisivi – i due attacchi sono filmati in modo del tutto simile in termini di svolgimento, posizione della macchina da presa, e montaggio sonoro e visivo, con l’effetto complessivo, sia in The Wire sia in Apocalypse Now, di generare un contrasto intrigante sotto il profilo narrativo e morale.
 
Nonostante fossi vagamente a conoscenza di queste pubblicazioni quando ho scritto il mio primo articolo, non le avevo mai realmente considerate e non avevo mai pensato di includerle nel mio studio. Poiché stavo creando un’analisi basata su testi, non ritenevo di dover proseguire su questa strada. Intuitivamente avevo la sensazione che, senza la possibilità di citare in modo adeguato i due oggetti di studio, sarebbe stato troppo difficile e laborioso veicolare il mio messaggio al lettore. E anche se fosse stato possibile, non ne sarebbe valsa la pena poiché probabilmente avrebbe reso il testo terribilmente pesante e tedioso. Componendo invece un pezzo di critica in forma audiovisiva sarei stato certo di potere esplorare le mie idee in modo più approfondito.
 
 
Come ricerca per un progetto editoriale e per un videosaggio su The Wire, ho recentemente riguardato tutte le cinque stagioni della serie. E sono rimasto colpito dalla potenza con cui diversi mezzi d’espressione possano formare il pensiero. Ad esempio, con il saggio audiovisivo che ho in mente di creare, altri aspetti della serie si prestano a ulteriori riflessioni e analisi, come ad esempio la recitazione, i dialoghi e la complessità dei personaggi. A questo proposito, l’esperto di media Anders Johansen ha fatto un’osservazione generale: “Quando lavoro con lo stesso materiale su vari mezzi di comunicazione, vedo il mio operato da punti di vista leggermente diversi. Non cerco l’archivio nello stesso modo di quando sto scrivendo un libro o creando un database […] Il mezzo di comunicazione è uno strumento d’indagine” (2011: 73). In altre parole, mezzi di espressione diversi costituiscono strumenti di contemplazione diversi. Utilizziamo le parole, le immagini e i suoni non solo per catturare e comunicare idee preesistenti e già formate, ma anche come strumenti pensanti. Confinando la critica cinematografica esclusivamente a testo e immagini fisse, semplicemente non stiamo usando tutti gli strumenti intellettuali potenzialmente a nostra disposizione.
 
Chiaramente, le proposte espresse in questo articolo possono essere puramente utopiche. La critica, ricca di informazioni, sapere e idee quanto un articolo accademico accompagnato da elementi audiovisivi meticolosamente montati per illustrare ed esemplificare – concepito come unico esperimento intellettuale – rappresenta ovviamente una sfida enorme. Ad esempio, molti studiosi mancano delle competenze necessarie per creare video saggi, sebbene l’estrazione da DVD e l’inserimento di sequenze su presentazioni Keynote o PowerPoint stia diventando sempre più comune (17).
 
Coloro che possiedono dimestichezza con questi mezzi possono però ritenere vano lo sforzo. In primo luogo, l’estrazione di sequenze e successivamente il loro montaggio richiede molto tempo, per non parlare della sincronizzazione di immagini e testo/voce fuoricampo per rendere il tutto una discussione integrata e unitaria. In secondo luogo, ci sono poche (se ve ne sono) possibilità di pubblicazione tali da rendere utile un simile sacrificio. In particolare gli studiosi più giovani che non hanno ancora raggiunto posizioni definitive – per la precisione quelli che, con ogni probabilità, possiedono le abilità tecniche richieste – raramente pubblicano su riviste prestigiose. Detto senza mezzi termini, esistono pochi motivi validi per intraprendere oggi un lavoro audiovisivo serio (benché sia immaginabile, naturalmente, che nuotare controcorrente potrebbe essere una mossa saggia – certamente più rischiosa – per gli ultimi arrivati).
 
Il diritto d’autore rappresenta un altro ostacolo per la critica cinematografica audiovisiva. Attualmente, le norme che regolano il diritto d’autore sono confuse e difficilmente comprensibili. Nonostante i sistemi legislativi europei difendano l’uso di materiali protetti da copyright a scopo critico ed educativo, gli studiosi di mezzi di comunicazione generalmente non esercitano in modo sufficientemente energico il proprio diritto di citazione. Le università e le pubblicazioni universitarie, che dovrebbero capeggiare la campagna per i diritti digitali, tendono ad adottare assurdamente un approccio conservativo di difesa della propria incolumità legale. Ciò è deplorevole, poiché potrebbe portare a “una ricalibratura della legge stessa verso un contesto meno permissivo” (Jaszi, 2007: n.p.). Negli Stati Uniti, la situazione è in qualche modo migliore. Organizzazioni quali il Center for Social Media e l’Electronic Frontier Foundation si sono alleate intensamente e con successo per difendere i diritti digitali del pubblico americano. I loro sforzi si sono rivelati cruciali nel garantire nuove esenzioni rispetto alla controversa legge sul copyright digitale DMCA, allo stesso modo di quando il raggiro della protezione antipirateria sui DVD per scopi critici fu dichiarata legale per docenti e studenti di cinema e media nel luglio 2010 (18). In Europa, invece, è ancora illegale eludere la crittografia dei DVD, persino a fini assolutamente innocenti. Dunque, se da una parte è ammissibile utilizzare sequenze di film nella critica cinematografica audiovisiva, dall’altra è illegale raggirare la crittografia che consentirebbe di generare tali sequenze. Inoltre, negli Stati Uniti sono state pubblicate alcune linee guida per l’uso lecito (19) nell’ambito di una serie di pratiche, incluse quelle per scopi di ricerca accademica nella comunicazione (20), per i video online (21) e per l’insegnamento da parte di docenti di cinema e mezzi di comunicazione (22).
 
Chiaramente, esistono ostacoli pratici e legali considerevoli sul percorso di avvicinamento al mondo nuovo della critica cinematografica audiovisiva. Eppure, i potenziali riconoscimenti sono tali da suggerire una parafrasi delle osservazioni finali di Lopate (1992: 22) su questo genere centauro, metà-testo, metà-film: continuerò con pazienza a proseguire questo cammino, convinto che la vera, grande critica cinematografica audiovisiva debba ancora realizzarsi, e che il critico audace del futuro non si farà sfuggire un’occasione così ghiotta.
 
NOTE
 
(1) Il resto dell’articolo si riferisce esclusivamente al film-saggio, questo per tenersi alla larga da scomode formulazioni. È sottinteso che la mia opinione sulla critica cinematografica digitale è applicabile anche alla critica televisiva digitale. 
(2) Non intendo suggerire che questo genere di critica cinematografica debba essere effettuata da eruditi o basarsi su convenzioni accademiche. Effettivamente, parte della promessa avanzata dalla critica cinematografica digitale è la possibilità di sfidare le troppo spesso rigide distinzioni tra pratica “professionale” e “amatoriale”. Ciò a cui penso è, piuttosto, una critica riflessiva e misurata a un livello più generale – vale a dire risposte intellettualmente ambiziose, consce delle risorse espressive del mezzo e della storia, e in grado di offrire qualcosa di più rispetto a semplici opinioni e “guide al consumatore” – di cui l’attuale critica cinematografica è esempio.
(3) Si veda il contributo di Adrian Martin sull’ecfrasi sul presente numero di Frames.
(4) Per un confronto dettagliato tra fotogrammi catturati da DVD e impressi su fotografia da pellicola, si veda Kawin, 2008.
(5) La rivista non è dedicata alla critica cinematografica, ma descrive se stessa come “la prima rivista al mondo di video accademici su audiovisualità, comunicazione e media. Un forum innovativo in cui studiosi e docenti possono articolare, concettualizzare e diffondere le proprie ricerche sull’audiovisualità e sulla cultura audiovisiva attraverso il mezzo del video”.
(6) Per un’utile visione d’insieme dell’antico contrasto tra letteratura e filosofia, si veda il capitolo 1 in Davis (2010).
(7) La ricerca non è un concorso di popolarità e non dovrebbe essere consentito imporre risultati o metodologie. Ma vista la grave crisi in cui si trovano oggi gli studi umanistici, sembra saggio compiere uno sforzo condiviso per raggiungere e ricongiungersi con il grande pubblico. I videosaggi potrebbero inoltre rappresentare uno strumento utile a film e studiosi di media per raggiungere tipologie di pubblico che non sono alla ricerca di pubblicazioni accademiche altamente. È poco probabile, tuttavia, che lavori puramente sperimentali coglieranno questo obiettivo. È anzi più probabile un loro allontanamento, intensificando il problema di immagine di cui gli studi umanistici soffrono, giudicati eccessivamente alieni e oscuri. 
(8) Tra gli sforzi individuali, lo studio visivo di A.I. – Intelligenza artificiale di Steven Spielberg a cura di Benjamin Sampson; “Unsentimental Education: On Claude Chabrol’s Les Bonnes Femmes” di Catherine Grant; i saggi audiovisivi di Steven Santos su I compari di Robert Altman e su M – Il mostro di Dusseldorf di Fritz Lang; e il saggio in due parti di Matthias Stork su ciò che definisce “chaos cinema”. 
(9) Ci sono alcune parti più lunghe in cui le diverse sfaccettature di un vasto argomento sono pubblicate a puntate. Un esempio è “Magic and Light: The Films of Steven Spielberg” di Press Play, che consiste di sei capitoli, alcuni dei quali ulteriormente suddivisi. 
(10) Ciò che ho in mente è qualcosa di analogo a “Mapping Rohmer: A Research Journey Through Paris” di Richard Misek, di cui è stato presentato un estratto al workshop Remix Cinema di Oxford il 24 marzo 2011. È riportato nella sua integralità sul presente numero di Frames.
(11) Uno splendido esempio è la serie “Everything Is a Remix” di Kirby Ferguson. Ad esempio, la seconda parte riesce in meno di tre minuti a riassumere le numerose fonti d’ispirazione di Guerre stellari (1977) di George Lucas in modo più chiaro e persuasivo di tanti articoli scritti.
(12) Si veda a titolo di esempio Bordwell (1997).
(13) Si veda Bordwell (2000).
(14) Si veda Bordwell (2002).
(15) Naturalmente, la critica audiovisiva non deve operare autonomamente, ma completare in modo utile (o essere completato da) quella stampata. 
(16) Esistono tuttavia modi per raggirare questo problema. Si veda Rosenbaum (2010). Per ulteriori informazioni sulle sfide pratiche dei commenti su DVD, si vedano Bennett e Brown (2008).
(17) Come le indicazioni su come prepararli. Si veda Mittell (2010).
(18) Si vedano altre due importanti discussioni a cura di Steve Anderson e Jaimie Baron sul concetto di "uso lecito" e di copyright sul primo numero di Frames.
(19) Queste linee guida non hanno rilevanza legale, ma hanno spesso dimostrato di essere altamente utili, poiché specificano quanto pratiche e agenti – assistiti da esperti legali – considerino lecito. Ad esempio, il Documentary Filmmakers’ Statement of Best Practices in Fair Use (trad. Dichiarazione dei Documentaristi sulle Pratiche Migliori nell’Uso Lecito) ha reso più facile e meno rischioso l’uso di materiale protetto da copyright nei documentari. Si vedano Aufdeheide e Jaszi (2007).
 
(Testo pubblicato originariamente su Frames, a cura di Catherine Grant. Ripubblicato con il permesso dell'autore e della curatrice. Traduzione di Christian Olivo)