Appoggiato al cuscino, il volto della ragazza è ritagliato dallo spicchio di luce della porta socchiusa. Dalla piccola porzione di schermo che l’inquadratura le riserva, la vediamo agitarsi e corrucciarsi al suono bisbigliato delle frasi che, aldiquà dell’uscio, qualcuno sta spendendo nei suoi confronti. Questa breve e calibratissima scena si ripeterà pressoché identica in due momenti di La Fuga di Martha (Martha Marcy May Marlene), compendio dell’inevitabile estraneità avvertita dalla protagonista per entrambi i mondi tra cui si sente a suo malgrado sospesa e, proprio per questo, saggio esemplare della notevole capacità di scrittura visiva messa in mostra da Sean T. Durkin in questo suo lungometraggio d’esordio. La stessa già piuttosto matura abilità che gli ha probabilmente suggerito di far scaturire l’inizio della narrazione proprio dal punto di sutura dei suddetti mondi: Martha fugge attraverso i boschi dalla comune di fanatici tra i monti Catskills in cui ha vissuto gli ultimi anni (e dove si chiamava per tutti Marcy May) per ritornare piangente dalla sorella maggiore, rappresentante di quella famiglia e di quella normalità le cui sottili ipocrisie l’avevano fatta fuggire una prima volta. Ma il ben più disturbante rovescio di quelle ipocrisie si manifesterà agli occhi degli spettatore durante il soggiorno nella lussuosa villa al lago della sorella e del marito, sotto forma dei flashback degli abusi subiti con confusa e spaurita sopportazione dal luciferino leader della setta e dai suoi adepti dalla psiche assoggettata.
Avvicinandosi come sezioni di un foglio piegato a partire da quel confine iniziale, i due universi si guardano specularmente, a breve distanza, riecheggiandosi a vicenda nell’incapacità di comunicare in maniera efficace e profonda con la protagonista. Grazie un saldo controllo geometrico delle inquadrature perfettamente e una sceneggiatura asciutta che ci sottopone un elemento nuovo a scena con chirurgica pazienza, Durkin accumula un sempre meno sottile senso di angoscia e innesca un crescendo di cortocircuiti nella mente della ragazza e dello spettatore: le allucinate massime da lavaggio del cervello della setta e i sermoni sul decoro e il lavoro della famiglia, le tensioni incestuose rispettivamente elevate a normalità e morbosamente sopite, i calmanti usati ora per renderla impotente alle violenza ora per disinnescarne i comportamenti scomodi in pubblico, stordiscono come manrovesci la disorientata Martha/Marcy May (e addirittura, a un certo punto, Marlene), rendendola un groviglio inavvicinabile di paranoie, giudizi improvvisi e convinzioni posticce.
I due universi, tenuti assieme dai raccordi invisibili delle sensazioni inconsce della protagonista, finiranno per toccarsi in un finale di strisciante quanto vigorosa tensione. Il velenoso fascino dell’inquietante comunità settaria sprigiona tutto dagli arti nervosi e dal volto scavato, respingente e magnetico allo stesso tempo, di John Hawks, caratterista ormai iconico di un’America profonda e resistente a globalizzazioni e meltin’pot, interprete un anno prima di un personaggio non dissimile in Un gelido Inverno, film avvicinabile a quello di Durkin per tematiche, budget e incedere narrativo. Sorprende inoltre la prova di Elizabeth Olsen, ex idolo della tv per bambini insieme alle sorelle maggiori Ashley e Mary Kate, efficacissima nel distante e oscillatorio disequilibrio di un’adolescente due volte confusa, due volte profondamente turbata. La Fuga di Martha s’insinua in maniera personale e credibile nel solco eterno della perturbante coabitazione tra iperurbanità e e sconfinato universo rurale, che, prendendo la rincorsa dal western e dagli stessi miti fondatori del nuovo mondo, ha alimentato fin da Un tranquillo weekend di paura l’immaginario di un cinema americano genuinamente indipendente.
La fuga di Martha (Martha Marcy May Marlene), regia di Sean T. Durkin, USA 2011, 102′