Avanzare il minimo rilievo critico su The Artist è ormai un compito gravoso. Cosa rimane da dire, infatti, dopo i trionfi degli Oscar (cinque: per il film, la regia, l’attore protagonista, la colonna sonora e i costumi), dei BAFTA (sette), dei César (sei), dei Golden Globe (tre)? Come si possono avanzare dubbi davanti a un film capace di “ritrovare la grazia, la sensibilità, il divertimento che il cinema è capace di fare su se stesso” (Paolo Mereghetti)? Quali perplessità di fronte a un “capolavoro”, grondante “amore smisurato nei confronti del cinema, per così dire, allo stato puro” (Valerio Caprara), al quale persino l’autorevole Sight and Sound ha concesso la prima copertina dell’anno (sotto l’eloquente titolo The best films of 2011)?
Mi correggo: avanzare il minimo rilievo critico su The Artist non è un compito gravoso: è un compito impossibile. Impossibile farlo senza passare per anticonformista ad ogni costo, senza essere accusati di essere dei cinefili incalliti. Ci si trova davanti un film impermeabile ad ogni tipo di critica che non sia entusiastica adesione alla sua proposta. Viene in mente una frase di Serge Daney (in Il cinema, e oltre) datata 1988: “[Questo film] non si rivolge alla critica cinematografica, esso istituisce un grande concorso il cui primo premio sarà il diritto di assistere alle riprese del film, senza dubbio l’unica cosa avventurosa del progetto”. Si faccia il confronto con le parole del regista di The Artist, Michel Hazanavicius: “…per una persona che ama il cinema, i sopralluoghi di questo film assomigliavano a un fantastico pacchetto vacanze! Abbiamo visitato gli studios, siamo andati negli uffici di Chaplin, nei teatri di posa […] Abbiamo girato il film in 35 giorni, alla fine eravamo sfiniti, ma eravamo là, a Hollywood, un manipolo di francesi in mezzo agli americani, eravamo una squadra. E avevamo fatto il film che speravo” (dal press-book). Come volevasi dimostrare.
Cosa può il critico cinematografico contro un simile entusiasmo? Nulla. Esautorato del proprio ruolo, il recensore avrebbe la tentazione di abbandonare il campo e passare al film successivo. Oppure potrebbe bollare The Artist come inutile (e lo è, a dispetto di tutti gli elogi, i premi e i milioni al botteghino), e riservargli come unico commento l’assoluto silenzio.
Certo, potrebbe. Ma sarebbe troppo comodo. Vale la pena ripercorrere il film, invece, anche solo per trovare le ragioni del suo successo (apparentemente) inaspettato e abnorme.
La trama è una storia di ascesa e caduta, quasi archetipica nella sua semplicità: a Hollywood, un interprete di successo, certo George Valentine (Jean Dujardin) rifiuta di adeguare la propria carriera all’incipiente cinema sonoro (siamo alla fine degli anni ’20) e finisce in miseria; in parallelo con la sua caduta, assistiamo all’irresistibile ascesa di Peppy Miller (Bérénice Béjo, molto bella e altrettanto brava), dallo stesso Valentine scoperta e lanciata. La gratitudine (e l’amore) della ragazza salveranno l’ex-star dal tracollo definitivo, e tutto finisce con un tip-tap in puro stile Golden Age.
Se si trattasse di un film qualsiasi, credo che in molti alzerebbero il sopracciglio un po’ sconcertati; ma dal momento che si tratta di un film muto, allora è più che lecito scambiare la superficialità del plot per leggerezza, e il puzzo di già visto per il fragrante aroma del tempo che fu. Uno dei punti su cui la critica (e i responsabili del marketing) più insistono è appunto questo: il fatto che si tratti di un film muto – meglio: di un film muto nell’era dei colossi in 3D. Il film di Hazanavicius non ha alcun peso specifico in quanto film, ma vale unicamente come organismo parassitario di un cinema che non è più. In altre parole, conta più il fatto che sia muto che non il fatto che sia un film: ma Aurora di Murnau, Nostro pane quotidiano di King Vidor, Lo sconosciuto di Browning (per limitarci ai soli cineasti citati da Hazanvicius nel press-book) erano semplicemente film, senza aggettivi. E lo sono tutt’ora.
La lista degli “omaggi” del resto, che quasi ogni recensore ha sentito il dovere di elencare, non si limita alla Silent Era: Dujardin (insopportabile, bisogna dirlo) che rifà Douglas Fairbanks; il cane Uggy che rifà Asta, il cane della serie de L’uomo ombra; il declino del protagonista mostrato attraverso il montaggio di una serie di breakfast (direttamente da Quarto Potere); la musica di Bernard Herrmann (da La donna che visse due volte); il montaggio alternato “alla Griffith” (che fa molto “cinema muto”)… e così via, in una ridda di riferimenti a un generico “vecchio cinema”, sorta di pappa omogeneizzata in cui finiscono per confluire tanto Maschere di celluloide, del 1928, quanto Cantando sotto la pioggia, di trent’anni successivo. Un film-Frankenstein, insomma. E per quanto lo “scienziato pazzo” Hazanavicius gli abbia infuso la vita con notevole perizia tecnica (il film, al di là di ogni scrupolo filologico, è formalmente impeccabile), The Artist rimane un assemblaggio (neanche troppo fresco) di brani di altri film. Non per fare gli apocalittici, ma a pensarci bene è strano che nessuno abbia avvertito il retrogusto “cadaverico” dell’intera operazione, la quale, più che essere una celebrazione di un passato glorioso, sembra alla lunga un canto funebre: come se non ci fosse più un futuro, come se il cinema non abbia più nulla di nuovo da esprimere, e che l’unico modo di andare avanti sia uno sterile ripiegarsi all’indietro, per tentare un impossibile (?) recupero dell’antica meraviglia.
The Artist, lungi da essere un “oggetto non identificato” nel cinema contemporaneo, è al contrario, come in fondo dimostra il suo successo (un incasso globale di 76.451.962 dollari, il costo approssimativo del film è stato di 15 milioni di dollari), uno dei sintomi più evidenti della “malattia del passato” che sembra negli ultimi anni aver colpito il cinema (e non solo). In questo non è poi così lontano dai “ricalchi” di Tarantino-Rodriguez (Grindhouse, 2007, è il riferimento d’obbligo): solo ha l’accortezza, rispetto a questi, di porsi come operazione “culturale”, di recupero filologico, e non come stramberia da cinefili compulsivi, finendo così per incassare il plauso dell’Academy (il film è soprattutto celebrazione del loro passato glorioso), l’incondizionato appoggio della critica e l’entusiasmo del pubblico colto (o pseudo tale), che si illude di aver assistito a un autentico film muto (quando The Artist, lo abbiamo visto, di quel cinema è solo l’imitazione). In definitiva, è un film alla moda.
Secondo la maggioranza dei critici, The Artist è il film “da portare” per la stagione invernale 2011-2012. Siamo impazienti di vedere cosa ci riserverà la collezione estiva.