Il prossimo anno la Viennale, certamente uno dei festival di cinema meglio organizzati al mondo, celebra il suo 50° anniversario. Nel corso dell’ultima edizione ho invitato il suo direttore artistico Hans Hurch, al timone della rassegna per ben 14 anni, a illustrarci il dietro le quinte del festival, e a discutere del piacere e dei rischi della programmazione, degli alti e dei bassi del cinema contemporaneo, con un occhio di riguardo alle produzioni d’oltremanica e austriache.
Da quanto tempo dirige la Viennale?
Da 14 anni. Prima di allora ho lavorato come critico cinematografico per un settimanale di Vienna che si chiamava Falter e organizzato un evento dal titolo “1000 Anni di Cinema”, un grande progetto promosso dal Ministero della Cultura di Vienna.
Quanti addetti alla programmazione lavorano per lei alla Viennale?
Nessuno. Curo io stesso l’intero cartellone. Per programmi o tributi particolari, mi affido a una rete di collaboratori in diversi Paesi, ma si limitano a inviarmi informazioni e dvd, o a fornirmi qualche indicazione. Sono coloro che vengono al festival –- critici, registi ecc. – a consigliarmi titoli poiché ne conoscono l’orientamento e il gusto.
Quindi ha visionato ciascuno dei titoli presenti?
Circa il 95%. Parlo dei nuovi titoli. Sono 140 tra documentari e lungometraggi, senza contare il gran numero di corti.
Poco fa parlava di gusto della Viennale. In quale misura è espressione del suo gusto personale?
La Viennale rappresenta molto più del mio gusto: se seguissi la mia inclinazione, il festival sarebbe limitato a 20 film ogni anno – forse meno. Non è possibile trovare 140 buoni film ogni anno. Di conseguenza, le scelte sono dettate dal mio gusto, certo, ma anche da quello del cinema stesso. Il modo in cui è programmata la Viennale è piuttosto insolito, non c’è nessuno che interferisca, che mi dica come comportarmi o meno. Se un distributore mi dice “se vuoi presentare questo devi presentare anche quello” non ne presento nessuno. Pertanto, meriti e colpe della Viennale sono da attribuirsi al sottoscritto. Ritengo che sia l’attitudine giusta, la responsabilità deve sempre cadere su qualcuno. In fondo si è responsabili nei confronti dei registi, e un regista è tenuto a prendere le proprie decisioni, politiche ed estetiche. Se inizia a discutere sul set con 20 persone, non riuscirà a venirne a capo. Ma non si tratta di essere egocentrici. Non voglio che la Viennale sia il festival di Hans Hurch. Non penso di essere così bravo o importante. L’arte non è democratica. Ma allo stesso tempo non significa che sia anti-democratica. È molto difficile da spiegare il mio lavoro, se non dicendo che è l’unico modo in cui riesco a farlo. Se fossi qualcun altro, mi comporterei diversamente. So bene che non è una cosa normale, tutto questo è un privilegio e un lusso, ma abbiamo lottato per conquistarcelo. E un’altra cosa di cui sono consapevole è che fino a quando il festival avrà successo, potrò ritenermi fortunato. Diversamente, lo sarò lo stesso.
Quando parla di successo, intende in termini di partecipazione del pubblico?
Quello è un indice di successo, sebbene non ami molto l’idea. Ritengo sia necessario essere cauti quando si ha a che fare con la macchina del box office. Quando un festival cresce bisogna evitare che diventi troppo grande. Ci sono festival a cui sono affezionato e che hanno finito per esserne travolti. Rotterdam era un festival incredibile, ora si è trasformato in un evento senza cuore, senza un’idea artistica.
Qual è quindi la giusta dimensione di un festival?
Un festival non dovrebbe essere né troppo piccolo né troppo grande, ma una via di mezzo. Abbiamo cercato di realizzare qualcosa che andasse bene per Vienna e siamo stati fortunati. Allo stesso tempo, non è una pura questione di fortuna. Se ci paragoniamo ad altri festival disponiamo di fondi, splendide sale, non siamo obbligati a utilizzare cinema presenti nei centri commerciali. Abbiamo sale di epoche e dimensioni diverse. E sono tutte molto vicine le une alle altre. Abbiamo lottato per questo. Volevano chiudere il Gartenbau (il più grande e il più bello dei cinema cittadini) e ora la Viennale si occupa della sua programmazione annuale. Abbiamo combattuto duramente con la città; abbiamo chiesto fondi e sostegno, promettendo in cambio che ce ne saremmo assunti la responsabilità non solo per il periodo del festival, ma tutto l’anno.
Qual è il rapporto con gli sponsor?
Con gli sponsor c’è sempre da lottare perché le loro pretese crescono di volta in volta. Ma ci sono aspetti che sono assolutamente tabù. Ad esempio, nell’auditorium non otterranno mai nulla sullo schermo. Gli sponsor sono come un virus, proprio come il denaro, può insinuarsi ovunque e occorre essere cauti. Come dico sempre, dormo con una pistola sotto il cuscino, meglio non ignorare i pericoli. Da un lato mi considero un tipo molto diplomatico, dall’altro posso diventare piuttosto stalinista. È necessario esserlo. L’ho imparato da Jean-Marie Straub. Ho lavorato per lui per circa dieci anni ed è stato un’ottima scuola. Ho imparato a non farmi influenzare dai sentimenti.
Come riassumerebbe il gusto della Viennale?
Sarei felice se fosse un festival innocuo per la gente. Quello che sto dicendo può suonare assai difensivo, tuttavia non lo è. Ci sono troppe cose che feriscono in questo mondo, penso sia una vecchia idea di sinistra – tutto quanto facciamo si riflette sulla nostra esistenza. Quindi, se assumi una sostanza nociva, non potrai sentirti bene… Ovviamente, la mia è una semplificazione, è più complicato di così. Ma sono un vero istintivo sotto questo punto di vista, si tratta di qualcosa di insito in noi, non di qualcosa che ci attraversa, come un’infezione. E il mio desiderio è scovare e presentare film, essere un intermediario tra opera e pubblico piuttosto che una contaminazione. Di fronte a un film reagisco in modo molto istintivo. Ad esempio, ho qualche problema con la violenza. Nel programma sono presenti titoli probabilmente troppo violenti. Certi film di Pou-Soi Cheang, forse Drive. La violenza non mi piace. Per mostrarla, bisogna essere davvero abili. E la maggior parte dei film violenti sono solo brutali, alla stessa maniera in cui altri film non parlano di sentimenti, ma sono solo sentimentali. C’è una grossa differenza. Il discorso sarebbe molto lungo perché entra in gioco il fattore attrazione. In un certo senso bisogna essere attratti dalla violenza per realizzare un film sulla violenza, come un film di guerra o qualcosa del genere. A mio avviso, John Ford ne è l’esempio più significativo.
Quando parlava di Drive, si riferiva forse alla scena in ascensore?
Ho riflettuto molto sull’opportunità di presentare questo film proprio a causa di quella scena. Quando chiesero a un anziano Jean Renoir se avesse qualche rimpianto, affermò: “Penso spesso al coniglio soppresso in La regola del gioco. Quel coniglio talvolta mi tormenta”. Un film che mi piace molto nonostante una dose massiccia di violenza è L’argent. È un film violentissimo, ma la violenza non si vede. Parla di denaro, di eliminare persone che tengono a te, di freddarle la notte nel sonno: nascondono questo tizio e lui li uccide e non sappiamo il perché, ma alla fine qualcuno dice che sarà perdonato. È incredibile; mi fa venire la pelle d’oca solo a parlarne. Questa per me è la vera violenza. Lo stesso dicasi per l’amore e il sesso nei film: sono aspetti difficili da rendere. Reagisco istintivamente alle cose, ma lo faccio alla luce della mia esperienza mettendo insieme i pezzi, e se ha un senso allora va bene tutto.
Come descriverebbe il rapporto tra il festival e il pubblico viennese?
Per oltre 20 anni, insieme ai miei predecessori, ho cercato di costruire un rapporto tra festival e pubblico; la mia idea è che debbano fidarsi di noi e noi di loro. Perciò, se voglio rischiare, devo presentare titoli ed essere certo di stimolare curiosità, anche nell’eventualità che alla fine non vengano apprezzati. E da parte loro, dovrebbero avere la sensazione che non li stiamo trattando da semplici consumatori perché interessati al loro denaro. Abbiamo lavorato in questa direzione per anni ed è qualcosa di davvero prezioso con cui non si dovrebbe mai scommettere. Con Drive mi sono chiesto: sto forse scommettendo un po’?
Ma si faranno una loro idea…
Lo so, ma si tratta comunque di un rapporto di fiducia. In altri festival – e non è una cosa bella da dirsi – su dieci film che vedo, sette non mi piacciono. Ce ne saranno tre che mi piacciono e solo uno che mi piace davvero. Con la Viennale, tento l’opposto. Vorrei che il pubblico amasse sei o sette film. Questo è ciò che intendo quando dico che non mi piace far perdere tempo. È un valore. I soldi non c’entrano. Ciò che è importante sono l’energia e la sensibilità.
Il suo predecessore fu Alex Horwath, ora responsabile del Museo del Cinema di Vienna. Ritiene vi sia una differenza nel rispettivo approccio al festival?
All’inizio non era così evidente, tuttavia Alex e io siamo molto diversi. Alex ha più lo spirito dell’appassionato, sceglierebbe opere di registi particolari, come ad esempio Olivier Assayas. È una sorta di fan di alcuni personaggi.
Ma anche lei a quanto pare ha i suoi talismani, ad esempio Straub e Jean-Claude Rousseau…
La cosa buffa è che non mi ritengo loro fan. Alex è più giovane di me di dieci anni e ci conosciamo molto bene. Prenda ad esempio Mia Hansen-Løve: i suoi film sono assolutamente pretenziosi, roba da ragazzine francesi. Non mi piacciono affatto. Ad Alex sì, li presenterebbe tutti. In ogni caso, l’approccio personale di Alex è un aspetto molto apprezzabile. Farebbe vedere film solo perché piacciono a lui o perché è appassionato di determinati registi. Negli anni mi sono allontanato da molti cineasti. A un certo punto mi piaceva molto Jacques Rivette, poi mi deluse sempre di più. Così come non amo tutte le opere di Jean-Claude Rousseau, specie quando si ripete. Con Straub il discorso è diverso. Per me è Schoenberg, è il più importante. A oggi, è un regista che è sempre stato interessante in tutto ciò che ha fatto. È complicato parlarne. Alex direbbe che Martin Scorsese è un gran regista – e lo è – ma Straub è decisamente meglio. Negli ultimi 15 anni, la filmografia di Scorsese non è così interessante, Wim Wenders non lo è da 20 anni, stessa cosa per Bertolucci… C’è un gran numero di cineasti a cui non sono più interessato. In Straub c’è sempre qualcosa in cui mi identifico, uno o più aspetti che mi toccano da vicino. È qualcosa di diverso, di vitale, in ogni punto dello schermo, nelle voci. Ogni volta che vedo un suo film, mi sento rinascere. So bene che alcuni ritengono questo discorso noioso e non desidero neppure essere considerato il grande ammiratore di Straub. La sola idea mi infastidisce.
Apprezzo il fatto che la Viennale non abbia il tappeto rosso.
Non penso che i media ne siano interessati come tutti pensano. Almeno questa è la mia esperienza. Innanzitutto la cosa non mi affascina. Conosco alcune di quelle che vengono definite “persone famose”, ma non fanno per me.. Non credo sia necessario, il tappeto rosso è roba da XIX secolo, da opera, non è cinema moderno. Ciononostante. è comunque bello ospitare personaggi come Harry Belafonte. Ricordo, ad esempio, quando ospitammo Lauren Bacall – è davvero una star, ma non ha bisogno di un tappeto rosso. All’ultimo, proprio mentre stavamo salendo sul palco del Gartenbau, mi disse: “Hans, non sei vestito in modo adeguato”. Fu incredibile. Le risposi: “Grazie, Lauren, questo è il momento ideale per ricordarmelo”. Fu divertente e tagliente. Come in un film di Howard Hawks. Un festival come la Viennale non ha bisogno del red carpet. Forse non è così per gli altri festival o forse pensano di averne bisogno, non so. Esiste poi un’altra ragione per evitarlo: costa molto. Ci sono cose che non offrirei mai, come il trasporto privato. A cosa serve? Sono tutte persone agiate, con altre dieci persone al seguito.
A quanto ammonta il budget del festival?
Siamo molto vicini ai 3 milioni di euro, di cui una metà messi a disposizione dalla città e l’altra garantita dagli sponsor e dai biglietti venduti. In questo modo, non dipendiamo troppo dagli sponsor.
Lei è riuscito a durare a lungo in un ruolo che in altri festival sembra evidenziare un alto tasso di avvicendamento.
Ma ora il ruolo mi sta provocando qualche difficoltà. Sono famoso per i miei discorsi d’apertura. Quest’anno, ad esempio, ho dato un taglio piuttosto politico, e il Partito Socialista di Vienna non ha apprezzato. Ho affermato che in un paese ricco come l’Austria, non ci sono scuse per determinati comportamenti da parte dei politici. Non che siano corrotti, ma sono ormai una classe attenta solo ai propri interessi. Una cosa “alla Berlusconi” che va peggiorando ogni giorno di più. È evidente che non avvertono alcuna responsabilità per la res publica. Il giorno dopo dissero che avevo firmato la mia condanna a morte. Ovviamente non li prendo troppo seriamente, ma è meglio essere cauti. Non mi fanno paura, comunque.
C’è una certa tipologia di cinema che in linea di massima non viene presentata alla Viennale – e il cartellone di quest’anno è stato sorprendentemente utopico e anti-consumistico.
Però so anche scendere a compromessi. Se prendiamo ad esempio il film di chiusura, Le idi di marzo di George Clooney, è un buon film, scritto molto bene, ma è “liberal”, non radicale. Stesso discorso per il film di apertura, Miracolo a Le Havre, seppure in modo diverso. Ho deciso di programmare il film di Straub, Schakale und Araber, prima di Miracolo a Le Havre e in sala erano presenti 750 persone che non avrebbero mai visto un film di Straub. Gli sponsor e le loro consorti. Volevo che lo vedessero ed è forse questa l’idea: che non vi siano preconcetti quando si parla di cinema. Nessuna idea prestabilita, nessuna gerarchia, ma aspetti che si ricolleghino e tendano l’uno all’altro. Di conseguenza, non esistono lungometraggi, documentari o corti, ma solo film da considerarsi in modo equo. Sono le confluenze, le tensioni, le contraddizioni a costruire l’interesse e a dare consistenza. Tuttavia non è una cosa che pianifico, non credo sia possibile dire “Bene, darò consistenza politica al festival”. Emerge autonomamente. Il concetto, quindi, è che non via sia una gerarchia in termini di commerciale e non commerciale. Ogni film è commerciale, anche quando non incassa nulla.
Come riesce a evitare di annoiarsi nel suo lavoro?
Adoro essere sorpreso. Non capita molto spesso, ma succede. Avviene ogni tanto che spunti fuori qualcosa che mi rende felice. Conosco il mio lavoro, voglio lavorare per i film, desidero essere l’intermediario tra l’opera e il pubblico. E voglio che il regista sia presente. Questa è un altro aspetto che mi porta a pensare a Straub. Mi ha insegnato molto sui film. Un giorno mi disse “Ho visto un film, devi vederlo”. Gli chiesi: “Quale?”. Mi rispose “Il Dottor T e le donne di Robert Altman”. Gli dissi: “Jean-Marie, tu sei pazzo”. E lui: “È un film incredibile, molto intelligente, sull’America, la storia, l’invecchiamento. E Richard Gere è straordinario”. Ecco cosa mi piace: essere sorpreso. Dico davvero. “Robert Altman è il più grande regista americano vivente” mi ha detto “è molto meglio di Scorsese. Scorsese è un pretenzioso neo-realista europeo, è Altman il vero cronista dell’America. Anche il suo utilizzo della musica non è mai casuale”. È divertente, non lo ritengo un gran film, ma è interessante sapere che ci siano persone così aperte da apprezzare certi titoli. Per me non significa che si tratti di un buon film, ma mi piace che Jean-Marie non dica “Ho visto per l’ennesima volta Dreyer alla Cineteca”, è questa l’immagine che la gente ha di lui. Non è tipo da “Devo vedere Ordet 100 volte”. No, gli piace andare a vedere Richard Gere.
Tutti sembrano essere concordi nel dire che il cinema austriaco stia vivendo un buon momento? È d’accordo?
La verità è che sono sempre in guerra con il cinema austriaco. È sempre così quando si vive a stretto contatto con una realtà. A mio avviso, ciò che spesso e volentieri viene indicato come cinema austriaco è colmo di stereotipi. Si è seguito un certo genere, come Michael; troppo semplice farlo. Non penso che il cinema del mio Paese sia forte come viene percepito nei festival. Esistono film e aspetti interessanti, ma spesso riesco ad annusarne le pretese artistiche con troppa facilità.
Cosa pensa invece del nuovo cinema inglese? Marco Müller, direttore del Festival del Cinema di Venezia, dice di trovarlo piuttosto interessante.
Ho apprezzato Wuthering Heights di Andrea Arnold, sebbene non sia piaciuto a molti. Aveva le sue debolezze, è vero, ma c’era qualcosa di molto fisico nel film. La regista ha qualche problema con le atmosfere e i paesaggi – è tutto un po’ forzato – ma ci sono cose che mi piacciono. Non mi è piaciuto …e ora parliamo di Kevin. Non funziona, è eccessivo. Avrebbe dovuto farlo con la mano sinistra [sic]. Ho odiato Shame. Ritengo che il personaggio sia finto. Proprio come in Hunger. In Shame c’è tutto: è perfetto in ogni movimento della macchina da presa, nelle luci. Fassbender è bravo, ma il film è uno spettacolo per guardoni. Non lo volevo al festival. Non mi piace presentare film simili e spesso vengo criticato per questa mia scelta. Forse dovrei lasciare scegliere il pubblico, essere più aperto.
Mi piace anche il forte legame tra la Viennale e il Museo del Cinema di Vienna, che offre sempre un ottimo cartellone in concomitanza con il festival.
È ciò a cui abbiamo pensato sin dagli inizi: lavorare da un parte con il Museo del Cinema e dall’altra con l’Archivio Cinematografico Nazionale. Sono entrambe collaborazioni decisive, e funzionano. Questo è ciò che definirei privilegio. Non lo considero scontato – non prendo mai nulla per scontato. È questo il legame con la storia: vecchio e nuovo dovrebbero andare di pari passo. Un sabato pomeriggio, abbiamo avuto 750 spettatori per il film di Rossellini India, Matri Bhumi – è stato incredibile. È un aspetto che spesso mi manca quando frequento altri festival. Talvolta vedo film nuovi per due o tre giorni, poi avverto il desiderio di vedere almeno un film realizzato 25 anni prima. In fondo, cosa siamo se non Storia?
La prossima Viennale si terrà dal 25 ottobre al 7 novembre 2012. L’intevista di Kieron Corless è stata pubblicata online sul sito di Sight & Sound.
(Traduzione di Christian Olivo)