Ora che le elezioni si sono concluse, si possono riprendere certi argomenti che rifiutano una sbrigativa battaglia a base di slogans, ma esigono piuttosto una tranquilla riflessione ed un corretto dibattito. Uno di essi, che diede luogo – in tempi passati – ad altri scontri, riguarda l’atteggiamento di una gran parte della critica di sinistra di fronte alla produzione cinematografica sovietica, in questi ultimi dieci anni.
Dobbiamo premettere, al discorso che faremo, una doverosa avvertenza. Se parleremo di errori altrui, nessuno dovrà intenderlo come un atto di sciocca superbia. Ciascuno di noi (e il sottoscritto in particolare) ha alle spalle una tale serie di giudizi sbagliati da essere costretto, anche suo malgrado, alla reciproca comprensione e tolleranza. La passione e la franchezza con la quale scriveremo certe cose dovranno soltanto servire a scuotere il sacco, nel tentativo di farne uscire un briciolo di verità, che ci aiuti nel lavoro futuro.
Ma veniamo ai fatti. La recente sconfessione, da parte della Gazzetta Letteraria di Mosca, di film come La caduta di Berlino e Il giuramento, dove l’idolatria di Stalin aveva condotto ai monumenti di cartapesta, ci ha fatto ricordare alcune discussioni ed uno spettacolo al quale assistemmo, ai tempi della presentazione del film di Čaurelij in Italia. Chi non apprezzava Il giuramento, ebbe modo di paragonarlo a Camicia nera di Forzano. L’analogia non era soltanto formale. A parte lo zibaldone di stili sempre grossolano e oratorio; a parte certe sequenze, che parevano riportate di peso da un film all’altro, l’idolatria del Capo si esercitava secondo una concezione mistico-magica in base alla quale le trasformazioni sociali russe avvenivano in un clima miracolistico (dalla palude alle mele; da un trattore a mille mietitori, d’un colpo) determinato dal cenno della divinità celebrata. Lo stile magniloquente di Čaurelij rivelava ancor più la montatura cartellonistica.
Erano quelli i tempi del piano Bolšakov per la cinematografia. Nello stabilire i temi che i registi sovietici avrebbero dovuto trattare, Bolšakov partiva, ogni volta, da una frase di Stalin: Stalin ha detto, Stalin ha scritto; noi dobbiamo fare, noi dobbiamo dire. Ne usciva un quadro di una specie di arte dei caporali, che non poteva non offendere chi ha sempre creduto nella libertà dell’arte.
Ma ecco il punto: quando si obiettavano queste cose, c’era sempre qualcuno che rispondeva: «Il procedimento è giusto. Infatti Stalin ha sempre ragione perché è il vero simbolo del popolo: e il popolo ha sempre ragione» (vent’anni di educazione fascista – che ci aveva specializzati nell’adorazione dei dittatori – impedivano di dimenticare persino le parole).
Ma c’era dell’altro: di fronte a film come Il giuramento, non ci si accontentava di giustificarli. Si andava più in là: si diceva che essi erano forme nuove di arte, forme mai viste, superiori a tutte le precedenti, poiché sapevano mescolare la lirica con la satira, il giornale Luce con la lirica e via dicendo. E più, agli occhi del buonsenso, molti tratti erano soltanto errori, insufficienze espressive, mancanza di sincerità degli autori, più quegli errori venivano trasformati in meriti “di tipo nuovo”. Se un film, non riuscendo a risolversi, continuava a finire per due o tre volte di seguito, ecco, quello era un fatto rivoluzionario. Se un trasparente ballava sul fondo (un banale difetto tecnico), si trattava di una finezza per creare una certa atmosfera. Se una favola – pure fornita di pagine pregevoli – si concludeva in un paesaggio da Fiera di Milano, con preoccupanti discorsi cantati, chi avrebbe mai potuto concepire un film più bello?
La noia della rappresentazione, l’impaccio dell’esposizione, il didascalismo, l’eroe positivo e il mondo sano con l’inevitabile mancanza di autentici conflitti, il nazionalismo evidente, oppure la goffa imitazione degli americani (occorre citare i titoli?), diventavano altrettanti segni di una civiltà superiore, diciamolo pure, in questi casi per noi incomprensibile. Il pubblico popolare, operaio, bisogna dire che – in questo senso – era migliore di certi suoi critici. Perché – anche se magari preferiva un film di Judin a uno di Ejzenštejn – non faceva di ogni erba un fascio, non si esaltava irrazionalmente: frequentando certi spettacoli (che hanno incassato: Uomini coraggiosi), disertandone altri (L’educazione dei sentimenti), minacciando di incendiare il locale per altri ancora (Ivan il Terribile), manteneva, almeno, una certa indipendenza di giudizio.
Al contrario, questa critica era votata all’apologia ad ogni costo, secondo il principio base per cui “ciò che posso recuperare ideologicamente è bello; ciò che è russo è bellissimo”, applicato totalitariamente. C’è, nella casa in cui abito, una nonna che stravede per la sua parentela: “Guarda com’è grassa mia nipote!”. Tutti vedono la nipote, è magrissima, si allontanano preoccupati. Un simile atteggiamento correva continuamente il rischio di essere strabattuto da un criterio né complicato, né profondo: il buonsenso. (Ma noi conosciamo l’insidia: l’offesa al buonsenso dà spesso, a chi la esercita, l’illusione di perseguire mete superiori alla media, alla mediocrità – appunto – del buonsenso. È una sublimazione narcisistica, che trova validi appigli nella giustificazione rivoluzionaria).
Tuttavia la ragione vera, più seria, di quel modo di giudicare, stava in un vizio di ragionamento, che pareva rispettare i modi della logica. Poiché la società socialista – si pensava – è superiore alla società borghese, ovviamente i suoi prodotti (anche artistici) debbono essere superiori a quelli di un mondo borghese. Il sillogismo, aprioristico, quindi dogmatico, aveva un solo difetto: che non chiedeva nessuna autentica verifica alla pratica, accontentandosi di deformare la pratica per confermare la tesi. Ecco in che modo, del resto, quella che si presentava come una scienza si trasformava in una mistica: cioè, era la mistica che rendeva improbabile la scienza (tuttavia bisogna dire che tanta fioritura mistica – culto della personalità, culto del film sovietico, ecc. – da parte di chi è partito in quarta per combattere le religioni, lascia aperto qualche problema).
Tutto questo, naturalmente, avveniva nella più completa buona fede; portando, religiosamente, a una sorta di autodistruzione del proprio giudizio: e, insieme, ad una concezione automatica della storia. Quel determinismo puro che resta come una delle più sottili insidie di queste nuove concezioni ideologiche, pure così fertili di scoperte. C’era anche un’altra ragione, in questo modo indiscriminatamente apologetico di comportarsi: la necessità propagandistica. In Italia – si diceva – di film sovietici ne vengono pochissimi o non ne vengono affatto. I film americani invadono il mercato, premono sull’opinione pubblica, appoggiati da una colossale propaganda. Perché dovremmo, noi, andare tanto per il sottile, dal momento che dobbiamo affrontare un avversario così difficile?
Quest’ultima considerazione aveva una sua indiscutibile validità. Comunque, il modo era, in ogni caso, sbagliato. Perché la cultura comporta sempre una parallela attività critica e autocritica. Quando, per ragioni di propaganda, si rinuncia alla critica e si dà luogo all’apologia, la cultura perde uno dei suoi caratteri, quindi diventa, fra l’altro, inefficiente propaganda. Inoltre la necessità propagandistica provoca, in chi vi soggiace, una mancata liberazione del proprio giudizio; una schiavitù verso se stessi che non può, alla lunga, non dare luogo a una deformazione conformistica, creando schiere di automi.
Ma elencheremo, per maggiore chiarezza, in una serie di punti, le insufficienze di un simile atteggiamento troppo squadrato ed elementare, proprio da un punto di vista propagandistico.
1.L’offesa al buonsenso e la difesa a spada tratta di ciò che non era sostenibile creava la convinzione di voler aiutare la nascita di un mondo irragionevole ed assurdo, nel quale sarebbe stato obbligatorio accettare, come modelli da imitare, le opere noiose, oratorie, edificanti, rettoriche; nel quale si sarebbero dovuti scambiare i difetti per pregi, non tener conto alcuno della sincerità degli artisti e dei loro effettivi risultati stilistici; un mondo nel quale la gradazione del giudizio andava soltanto dal bello al bellissimo; dove era impossibile la stroncatura, apprezzatissime la lode incondizionata e la più ferrea ortodossia.
2.Come immediata conseguenza, il confronto cadeva subito sull’atteggiamento della critica di destra e di centro, la quale invece – sia pure a modo suo – si permetteva continui giudizi negativi, ad esempio, sulla produzione americana, anche se la sua battaglia era assai più facile, poiché poteva sempre contare sulla inevitabile presenza, nel mazzo assai folto, di un certo numero di opere di indiscutibile valore. Ma il confronto risultava negativo, poiché a sinistra si rispondeva con una percentuale a zero di rifiuto verso la propria parte.
3.La premeditazione apologetica, troppo evidente, creava quindi una barriera, una incomunicabilità col resto della cultura italiana, almeno in questo settore. Era come se certi critici, così comportandosi, facessero di tutto per rinchiudersi in un cerchio, con le loro stesse mani.
4.La mancanza di chiari gradi di giudizio (dal brutto al bello, dal dal giusto all’ingiusto, inevitabile nei fatti di questa terra) verso le opere della propria parte creava una tale confusione, per cui diventava difficile credere anche a ciò che di bello, di riuscito, di accettabile, pure si produceva. È la vecchia favola dell’uomo che gridava al lupo.
5.L’apologia è corruttrice. Infatti, ignorando l’errore, lo aiuta a perpetuarsi. Questa critica rendeva inoltre un pessimo servizio ai propri artisti perché, elogiandoli sempre (e in quel modo), non li invitava affatto – anche ammesso che fossero tutti potentissimi ingegni – a superare se stessi; rendendoli completamente paghi del già fatto. Invece la critica serve: anche a questo, a un’azione di stimolo.
6. Ogni nazione ha tradizioni diverse che conducono inevitabilmente, se si è sinceri, a giudizi diversi sia pure nel quadro di un movimento comune. Ora, è mai possibile che la tradizione italiana, l’ambiente italiano non esprimessero umori e giudizi diversi nei confronti di un ambiente russo? È mai possibile che tutto, proprio tutto, fosse completamente accettabile ai nostri palati? Non c’era, in questo atteggiamento remissivo, una forma di autolesionismo, che provocava l’assenza di un autentico contributo creativo, quello che nasce dall’espressione e dalla comunicazione di esperienze diverse?
7.La preoccupazione propagandistica conduceva a strumentalizzare l’arte e la critica in maniera eccessiva. Il giudizio dato perché contribuisse, suggestivamente, all’azione di un giorno, di una settimana, di un mese, andava contro il tempo della cultura che, per sua natura, ricerca sempre qualcosa di permanente. I giudizi troppo strumentali, quindi occasionali, sono inevitabilmente soggetti, più degli altri, all’usura del tempo. Quindi una cultura siffatta, man mano che procede, corre il rischio di creare un passato di giudizi continuamente smentiti dalle successive esperienze. Un autentico cimitero, che non può mancare di pesare negativamente sul prestigio di quella cultura stessa. Alla fine, chi crederà più ai giudizi successivi? Perché non è possibile riversare ogni responsabilità nelle pur capaci braccia della necessità storica. Infatti uscirà sempre qualcuno che, non avendovi ottemperato, oggi ha ragione.
A quest’ultimo proposito, bisogna dire che, in tempi passati, non fu molto facile sostenere la necessità di un atteggiamento realmente critico nei confronti del cinema sovietico, senza essere immediatamente sospettati di aver ricevuto fondi segreti dal capitalismo americano per compiere opera di disgregazione. Noi sappiamo benissimo che, talvolta, i nostri atti giocano in maniera imprevedibile, anche nostro malgrado. E che si può diventare “agenti” di qualcuno o qualcosa anche senza volerlo. Ma è un fatto che se legami simili vengono interpretati troppo rigidamente, si toglie ogni respiro a qualsiasi lavoro di ricerca culturale (la quale, per essere appunto ricerca, non può continuamente essere inibita dalla tattica). Né il sospetto di finanziamenti all’interlocutore può impedire di considerarne e discuterne le ragioni, senza cadere in un clima irrazionale di congiure da sventare, anche nei casi più semplici (ma non era questo un clima tipicamente slavo, orientale, importato in maniera ingiustificata?).
Un simile sospetto (oppure la convinzione che si trattasse di una residua, ormai morta, cultura borghese) deve essere caduto anche su molti amici, militanti nei partiti di sinistra, i quali ebbero più volte occasione di manifestarci loro accesissime critiche nei riguardi di film sovietici, pur non scrivendone pubblicamente, poiché questo non era il loro compito. L’insofferenza verso un tabù che non aveva ragione d’essere, che – anzi – contrastava con le stesse impostazioni ideologiche del partito al quale appartenevano, ebbe tuttavia occasione di esplodere, in varie occasioni, nei confronti di opere realizzate in Italia da registi di sinistra, fossero essi De Santis, Lizzani o Visconti. Allora ci furono ampi dibattiti, spesso spregiudicati, i quali non mancarono di provocare un moto di simpatia e di inevitabile apertura verso una parte che, altrove, pareva chiusa in una ostinata, immobile, inoperante difesa.
Ma guardiamo al presente. Oggi certe cose si possono dire senza il timore, se non altro, di guastarsi un’amicizia. Il mondo della cultura tiene gli occhi puntati sui comunisti poiché vuole convincersi che le revisioni annunciate non sono soltanto un momentaneo espediente, subito accantonato: ma l’inizio di un processo radicale, atto a modificare orientamenti che parevano dogmaticamente fissi, orgogliosamente e assurdamente immutabili. Il lavoro di autocritica, già cautamente iniziato, si svilupperà certo, col tempo, poiché questioni grosse sono state poste, che non possono essere eluse. Alcuni primi interventi autocritici hanno subito bene impressionato: soprattutto dove si sentivano uomini i quali, pur rivelando la passione, forse l’orgoglio ferito, finivano – proprio per l’integrità di coscienza che dimostravano – per additare, con maggiore chiarezza, alcuni sostanziali punti di revisione. Infatti, in questo momento, entrano in gioco anche virtù morali, capaci, esse, di sviluppare più veridicamente il discorso.
Altri, invece, dette prova di un certo, incipiente, ermetismo, testimonianza di confusione, di insofferenza mal classificata: forse l’astratta pretesa di risolvere il nuovo col nuovo, nell’orgogliosa convinzione che una rivoluzione non può tornare indietro, nemmeno su alcuni punti, quasi che il mondo si possa reinventare in trent’anni, dopo millenni di civiltà. Sarebbe tuttavia più grave se la confusione, il linguaggio complicato e allusivo nascessero da un eccesso di cautela, da una mancanza di quel coraggio civile che, oggi, un militante deve saper dimostrare non solo di fronte agli avversari, ma anche di fronte alla sua stessa parte.
Il processo è, comunque, iniziato. Perciò è lecito supporre che, infine, potranno convincerci come all’ipse dixit non sia stato sostituito un ipsi dixerunt, che lascerebbe le cose al punto di prima: ma un autentico risveglio abbia creato le condizioni effettive perché vengano allontanati gli dei. Infatti dei non ci si impone soltanto, ma si è anche proclamati.
Intanto vorremmo toccare un ultimo punto, che merita una discussione. La Gazzetta Letteraria sovietica ha rifiutato opere come Il giuramento solo perché vi vedeva riflesso il culto della personalità (ieri, praticamente, esse erano esaltate proprio perché celebravano questa personalità: da una simile partenza discendeva tutto il resto). Ora, a noi pare che un simile criterio sia insufficiente: dimostri, ancora una volta, il limite di quei giudizi, i quali mettono l’accento esclusivamente sul momento ideologico. Infatti, oggi possiamo essere lieti che vengano condannati film sostanzialmente brutti, oltre che ideologicamente sbagliati.
Ma che dire il giorno in cui, venissero condannati anche film di Ejzenštejn, di Pudovkin o di Dovženko i quali – pure nella superflua concezione di fondo – dimostrarono tuttavia (attraverso lo stile, la sincerità e la capacità poetica degli autori) di poter reggere al tempo parlando, per altra via, un linguaggio permanente di verità umane e di bellezza? Ma ecco che, a questo punto, sorge il solito problema: infatti è chiaro che, giudicando i fatti artistici attraverso la sola diagnosi dell’ideologia, non riusciremo mai a spiegare perché mai, a distanza di secoli, le opere di Omero e Shakespeare emozionano ancora – oggi che quelle ideologie dovrebbero essere superate – folle sprovvedute o provvedutissime di spettatori.
È indubbio, allora, che nell’opera d’arte, nell’arte in generale, c’è dell’altro, quei valori permanenti che la critica deve cercare di scoprire non solo quando parla del passato, ma anche quando parla del presente. Insomma, se, al posto di Čaurelij, ci fosse stato un autentico artista, l’opera restava grande anche se l’ideologia era superata: e può darsi che altri film pongano la questione. In altre parole, un’opera d’arte non fa tutt’uno con la propria ideologia: o, almeno, può anche non farlo. Quindi bisogna andare cauti anche con le revisioni.
Ma noi crediamo che un tale problema si potrà avviare a soluzione con maggiore libertà e verità quando sarà stato sottoposto ad una radicale verifica un totalitario sistema a piramide il quale ha l’inevitabile tendenza a produrre giudizi che sono fatti a sua immagine e somiglianza. Allora, da un lato, la critica potrà conquistare maggiore libertà nel distinguere, trovando nuovi strumenti; dall’altro, gli artisti non saranno afferrati dall’ingranaggio di una inesorabile ortodossia. Perché, finché non si instaura un sistema che permetta una continua libertà di critica anche verso i principi, non ci può essere che un ristretto gioco nell’ortodossia del momento. Ciò che limita, tra l’altro, la scoperta del nuovo (che è spesso imprevedibile: prima confuso, poi più chiaro), anziché aiutarla. E, in campo artistico, può impedire la visione dell’arte, la quale si manifesta persino sulla base di ideologie momentaneamente sbagliate: ma tutto si concreta nel momento dell’espressione, che è anche sentimento della cosa.
Prima di chiudere un discorso che voleva, più che altro, porre qualche interrogativo, riferiremo una domanda che si poneva un amico, alcuni giorni fa. Perché – egli si chiedeva – sperimentati registi come Jutkevič e Donskoij, o giovani come Samsonov, realizzano Otello, La madre o La cicala, invece di proporre coraggiosamente temi nuovi, partecipando al “disgelo”? Come va interpretato questo loro ritorno ai classici: come un ripiegamento, una fuga, oppure come il desiderio di trovare un più solido punto d’appoggio? È questo, da parte loro, un segno di forza, oppure un segno di debolezza? (Si potrebbe rispondere subito che, se i film sono belli, è un segno di forza; se i film sono brutti, è un segno di debolezza. Ma, evidentemente, c’è anche una prospettiva diversa). Ci pare, tuttavia, che la questione meriti di essere studiata, fuori dal coro mistico, con tutto l’amore che si può manifestare anche in un giudizio negativo. Del resto, noi non sappiamo più amare ciò che non possiamo criticare.
Intanto si preparano ad uscire in Italia quattro o cinque film sovietici di indubbio interesse. Se anche le sinistre sapranno giudicarli con occhio sereno e con disposizione problematica, saranno ancora più confuse le posizioni di tutti coloro che operano per dividere, anziché per unire gli uomini. Molto simpaticamente, Casiraghi, nel recente convegno di Bologna, alludendo a La caduta di Berlino, ebbe a dire: «Il mio primo sentimento sarebbe quello di ringraziare la censura, che mi ha favorito (impedendo la proiezione del film in Italia) evitandomi un certo imbarazzo, dato che ora questo film, come è noto, è sottoposto a una revisione critica in Unione Sovietica. Ma, a pensarci bene, sono veramente scontento che la censura non ci dia neanche la possibilità di essere imbarazzati».
Ciò che dimostra come una libertà, esercitata non solo verso gli altri, ma anche verso se stessi, crei più facilmente le basi di una sostanziale superiorità.
(Cinema Nuovo, anno V, n. 84, 10 giugno 1956)