L’estate di Giacomo è il primo film di Alessandro Comodin (classe 1982), frutto di una coproduzione franco-belga-italiana, come poche, purtroppo, ce ne sono nel nostro paese, sempre più isolato dalle rotte coproduttive e culturali europee. Una coproduzione che ha coinvolto alcune tra le maggiori istituzioni dell’industria culturale europea, come il CNC o Les films d’ici di Serge Lalou, storica casa di produzione di Nicolas Philibert e Richard Dindo. Un miracolo costruito nel panorama desolante dei fatiscenti ponti che legano l’industria culturale italiana al resto del mondo.
L’estate di Giacomo è un film che, nel panorama cinematografico odierno, riveste un’importanza fondamentale, per l’Italia e per il cinema documentario, perché si tratta di un film che maschera dietro la leggerezza delle proprie scelte il peso enorme di un’operazione delicata aggrappandosi, di riflesso, all’unico criterio valido nella creazione documentaria: la sensibilità. L’estate di Giacomo è un oggetto di pura affezione, un continuo sospingersi in avanti nell’ignoto, nell’imbarazzo, nell’intimità, guidati con la cautela dello stalking di tarkovskijana memoria dall’unico amico davvero sincero. Il film di Comodin ci insegna che non esistono generi del documentario, non esiste l’ibridazione tra generi della fiction e generi della non fiction: c’è lo scavo che tocca tutti i cunicoli del cinema e li riunisce in una formula organica, coesa, nella quale ritroviamo Jean Rouch, che è l’“atto di nascita” della Nouvelle Vague; e se continuiamo a scavare, sotto alla magia di un Rohmer, di un Truffaut, di un Eustache c’è sempre il documentario, c’è Jean Rouch che se ne va in giro per l’Africa con i suoi amici armato di idee e pochi aggeggi utili a parlarsi.
Giacomo è un amico di Alessandro, un adolescente affetto da ipoacusia; all’inizio l’idea era di fare un documentario sul processo di apprendimento di Giacomo a seguito di un’operazione chirurgica, ma in due anni e mezzo di lavoro il progetto si è trasformato fino a diventare il racconto dell’estate di Giacomo diviso, proprio come Jean-Pierre Léaud ne La maman et la putain di Jean Eustache – altro padre putativo virtuale del film –, tra due ragazze: Stefania e Barbara, quest’ultima, non udente come lui, che è la sua prima fidanzata. Tutta la prima parte, lunghissima, è incentrata sulla danza, direbbe Noel Burch, tra Giacomo e Stefania e tra loro e la macchina: lei lo porta nel bosco lungo le sponde del Tagliamento, lo butta nell’acqua gelata o a tirarsi il fango addosso; Giacomo biascica le sue parole, Stefania non dice quasi nulla per tutto il tempo. La scena della balera all’aperto ci racconta con una possibile metafora questa danza tra chi filma e chi viene filmato che dura per tutto il film. In coda scopriamo il personaggio di Barbara, in un finale che non sveleremo.
Il film opera un’elaborazione radicale dell’ontologia documentaria: Comodin riduce il cinema alla ricerca della bonne distance, direbbe Nicolas Philibert, alla (im)purezza del rapporto tra un filmeur e un filmé. È questo, nel cinema documentario, l’unico oggetto che rimane sul fondo del nulla quando si toglie tutto il resto. Una libertà costruita su una serie di “violenze funzionali”, potremmo dire: il regista trova in Stefania un alleato prezioso nel far da sponda per le azioni di Giacomo, e tutti i suoi comportamenti sono “trappole” che facilitano l’agire del protagonista; le sponde del Tagliamento sono i luoghi dell’infanzia di Comodin ed è lì che Giacomo deve agire; il film, poi, è suddiviso in una serie di lunghi piani-sequenza durante i quali la macchina resta accesa e Giacomo e Stefania devono agire in quel momento, anche se le parole sono finite, anche se l’entusiasmo è finito. Ecco cosa può essere il documentario: trascinare dei corpi, che sono dei mondi (nel mondo di Giacomo c’è la batteria), nel mondo e nei luoghi di chi li sta gestendo (le sponde del Tagliamento, una casa con uno stereo). L’estate di Giacomo restituisce questo intreccio di mondi, e ciò che resiste della sua memoria sono i luoghi, da sempre elemento cruciale del cinema documentario.
Coercizione, ostinazione, resistenza. Tutti termini che raccontano il “nuovo documentario”, direbbe Stella Bruzzi, e mostrano il polso, la regia di Alessandro Comodin, regia “ontologica” in un film in cui domina l’uomo (e la donna), nella sua carnalità, nella sua fisicità, nella sua ridicolaggine, nella sua umanità senza fondo. A questa “regia della vita” si accosta la “regia del regista”: Comodin ha girato il film – con un’evidenza quasi modernista, renoiriana – con una macchina sola e due corpi, uno dei quali resta, spesso e volentieri e alternativamente all’altro, fuori campo. A lungo andare, nel suo sguardo ostinato, questa logica del fuori campo si impone, ci spinge a concentrarci sul cinquanta per cento della materia vivente nell’inquadratura per ricordarci, a sussulti, che fuori campo c’è un respiro che soffia, una mano che lambisce, una bocca che anela. Un altro mondo che completa. La distanza è misurabile, lo spazio è abitabile; avvicinandoci e allontanandoci abbiamo la sensazione di vivere un contatto o di ritirarci con discrezione dall’intimità dei soggetti. Finalmente un uso altro del linguaggio, viene da dire: dopo anni di camere a mano in continuo movimento la macchina si ferma e l’inquadratura torna a dominare, chi guarda ha di nuovo il tempo di vedere e andare oltre il movimento reale per trovare il movimento dell’emozione, cogliere l’affezione che lega tutto, l’inquadratura con il suo soggetto.
Nel non rifarsi a estetiche dominanti, nel non sentirsi vincolati in alcun modo al tema della sordità, l’unico desiderio che traspare selvaggiamente da L’estate di Giacomo è addormentarsi e rivedere la propria adolescenza con la grana dei sogni, percepire di nuovo sulle braccia la pelle bagnata della ragazzina dei nostri diciott’anni appena uscita dal mare e lanciatasi audacemente su di noi, imprimendo sul corpo una traccia che non smetteremo di sentire mai, tornare a spiare i corpi pudicamente nascosti sotto il costume da bagno, sentire ancora le risate sguaiate degli amici del campeggio e il silenzio discreto dell’intimità. L’estate di Giacomo diventa così, soprattutto per il regista ma non meno per il pubblico, un film per riconoscere, ricordare. Un’operazione che il documentario, per eccellenza bloccato nella claustrofobia del presente e impossibilitato a toccare il passato, deve fare un grande sforzo per compiere.
Con L’estate di Giacomo l’Italia, potenza provinciale dell’Europa, torna, per una dolce coincidenza, a esalare un cinema europeo, vivo, grazie a un regista in grado di assumersi la responsabilità del proprio ruolo e della propria fantasia e di vivere della gioia dell’esperimento, dell’“appuyer le bouton”, direbbe Jean Rouch, per vedere, riducendo all’essenza ma affatto riduttivamente, cosa finiscono per fare le persone quando sono davanti alla macchina. Un film oltre l’“innocenza”, oltre la “spontaneità”, graziato dal raro dono della sensibilità cinematografica.
L’estate di Giacomo, regia di Alessandro Comodin, Italia/Francia/Belgio 2011, 78′