Un super-concentrato di leit-motiv segnici e tematici sul disastro italiano, racchiuso però in una “confezione” cinematografica tutta in leggerezza. Sorta di Cavallo di Troia volto a riversare sul grande pubblico i soldatini di un’analisi devastante e disperata dell’Italia di oggi, senza provocare reazioni di rigetto. Lasciando, anzi, una “nuvola” di speranza, senza cader nel ridicolo. Certo, non mancano difetti, errori, cadute. Alcune battute sono fuori posto, non se ne coglie le “second degré”, la presa di distanza dal trash. La trasfigurazione. Ci vuole maggiore densità continuata nella costruzione d’inquadrature e sequenze (quella nei locali della setta, troppo facile). Tuttavia, tra i tanti i film italiani, spesso brutti o medi, che trattano degli infiniti problemi della penisola, chi, nel panorama italiano del cinema d’autore contemporaneo che abbia anche l’ambizione di rivolgersi a un vasto pubblico, tratta della desolazione italiana e in maniera così scientifica, oltretutto partendo da un microcosmo?
E’ una scientificità quasi ossessiva, quella proposta da Gianni Pacinotti – Gipi in qualità di autore di fumetti e illustratore – al suo esordio cinematografico, libero adattamento del romanzo a fumetti di Giacomo Monti Nessuno mi farà del male. Luca Bertacci, un giovane cameriere, vive la propria condanna alla solitudine, come i suoi colleghi, tra il ristorante del Palabingo dove lavora e anonimi incontri con prostitute. In questa monotonia assoluta, viene annunciato un evento incredibile, o almeno in teoria tale sarebbe: l’incontro con una civiltà extraterrestre. Bertacci e gli altri, sono in realtà immersi in un universo di segni e forme che li avvolgono opprimendoli e trafiggendoli crudelmente, a seconda dei casi: Il Palabingo, luogo di clausura della schiavitù del lavoro, ha tavole e poltrone circolari, le abitazioni sono un complesso di casupole bianche, talvolta di uno scialbo rosso-mattone – i cui appartamenti si chiamano “app. club n. 5” – divise da una stretta viuzza e da muri di cinta a loro volta di un bianco immacolato avvolgente; le inquadrature sono praticamente sempre oblique, laterali: un mondo di linee parallele che spesso s’incrociano e si scontrano tra loro, sia quando Luca guarda dall’alto la vicina parlare con il suo fidanzato e i suoi amici, sia quando il nostro è inquadrato dall’alto vicino ad una piscina, immobile. Inamidato: un inquadratura-manifesto della sua solitudine, delle altre solitudini raccontate. Un mondo dove i (piccoli-grandi) mondi delle individualità non s’incontrano mai, pur essendo spazialmente vicini l’uno all’altro. In questo contesto, l’apatia e disillusione italica, virus pervasivo che pare aver vinto su quel vaccino naturale verso il bello che permeava l’italianità, toglie qualsiasi grandezza ed emozione all’evento dell’Avvento extraterrestre. Sfondo e tema del film si confondono: la stanchezza dell’Italia, è letta come la patologia che affligge il paese. Chiunque venga dall’estero in visita è inondato dalla voluttuosità dei colori, degli odori. Del bello. Gli extraterrestri del film – degli esserini-logo non caricature dell’immaginario, ma caricature di come il pop ha rappresentato certo immaginario – sono ovviamente metafora del diverso (gusti e costumi sessuali diversi, culture e religioni diverse) in Italia sempre più visto come nemico, invece che come amico. Soprattutto, sono soldatini di un cavallo di Troia – leggasi una metafora più ampia: tornare a vedere la voluttuosità che ci circonda e che pervade l’intera nostra storia. La nuvola extraterrestre finale, splendida Apocalisse liberatoria, pare la restituzione di questa consapevolezza. La nuvola del bello c’è sempre ma gli extraterrestri la rendono di nuovo visibile.
Tutto è offuscato dal fatto che le questioni di fondo sono la donna e il fascismo maschilista italiano, mai veramente affrontato dal Paese, al pari del fascismo in senso proprio. Un altro segmento di ossessivi leit-motiv riguarda infatti il rapporto al sesso e alle donne, espressi dai dialoghi e dal sonoro. Luca è stato abbandonato, e il “Tu sei una puttana” è ovviamente figlio del “Sono tutte uguali, come la mamma”. Viene messa in scena tutta la cattiveria italiana maschilista, così greve dietro l’apparenza della battuta (o barzelletta), alla Berlusconi o Emilio Fede. Una certa meccanicità, un’asetticità marionettistica nei personaggi, ma è funzionale alla rappresentazione di un mondo robotico, meccanico appunto, privato dell’anima. I tre camerieri colleghi di Luca, e in particolare il loro capo, guarda caso quello più mussoliniano nelle sue fattezze, non sanno far altro che parlare di donne e scopate, di farsi le clienti. Il problema vitale è quello di “conoscere una troia”. Non è nemmeno più una sessualità gioiosa, come era un tempo per l’italiano medio: solo gelida frenesia. Il Paese dei mammoni è un Paese che ha in odio la donna. La positività, in questo film, è invece marginalizzata nel femminile, in senso lato: in una certa misura nel trans, amico di vecchia data di Luca, nella graziosa e sensibile vicina – la storia d’amore pontenziale che non si decide ad esplodere –, e infine nella extraterrestre che si prende cura del padre di Luca – il volto segnato ma umano di Roberto Herlitzka –, relitto del vecchio mondo italico che vive in un casale, cadente, della campagna toscana. Pacinotti predilige la violenza psicologica, sorda, insensibile che domina i rapporti umani di questo microcosmo limbico-infernale. Nulla, in questo film sulla compressione patologica dell’anima, è più compresso del volto di Luca: eppure è lui quello prossimo alla Salvezza. Spesso, lungo il film, Luca è assalito da una presenza-sonora – ovvero: la sua (mala)coscienza, così come il presagire l’arrivo degli extraterrestri; in pratica due facce di una stessa medaglia. Una Rivelazione –, la quale, sistematicamente, dopo aver raggiunto l’apice, si arresta di colpo, lasciando di nuovo spazio al silenzio, al vuoto. Un procedimento tipico degli horror, o dei thriller o della fantascienza in qualche modo contaminata dagli horror. Qui è appunto lo strumento della Rivelazione: tutte le notti Luca sogna gli extraterrestri, una nebulosa-presagio, forse qualcosa di più. L’ultimo terrestre è anche l’unico: colui che ha ancora qualcosa di umano, seppur soggiacente e tenuto represso. Compresso. Dietro l’apparenza inamidata, Luca è il personaggio che porta una croce, perché trafitto puntualmente da linee direttrici opposte, da “barriere architettoniche” divergenti e frastagliate riprodotte dall’esterno all’interno del Sé, nella propria interiorità. E’ dal conflitto interiore che nasce la Coscienza. Forse, la Santità. Basta saper vedere – ascoltare – i “segni”.
L’ultimo terrestre, regia di Gian Alfonso Pacinotti, Italia 2011, 100′