Nei suoi tre precedenti lavori, Daniele Gaglianone ha dimostrato di essere capace di rimuovere qualche strato di polevere dai topoi del cinema italiano, come la memoria partigiana e l’adolescenza tra i banchi di scuola, troppo spesso immobilizzati in un pantano di retorica e carinerie da spot televisivo. L’abile lavoro su visi e corpi di non-professionisti e la vena per un’immagine spigolosa, evocativa e non conciliante del regista torinese suggerivano un incontro positivo tra il suo sguardo e le pagine irruente di Ruggine. Per questo la scelta del suo film d’esordio tra i grandi budget garantiti da Fandango e dalla RAI lasciava sperare in un passo in avanti qualitativo nel contesto di quel “Cinema Medio d’Autore” che si affaccia a tratti al grande pubblico italiano tra un commedia natalizia e l’altra. A conti fatti, tante speranze risultano purtroppo disattese.
La Milano settantesca raccontata nel romanzo di Massaron si trasferisce su pellicola nella Torino operaia e nella ricostruzione del set in Puglia, dove il progetto ha ottenuto l’appoggio della Film Commission locale. Un gruppo di ragazzetti del proletariato vede irrompere la tragedia della pedofilia nella propria routine di giochi sporchi di terra e pomeriggi tra i rottami di una discarica. Isolati da una comunità di adulti miopi e asserviti alle differenze di classe, saranno gli unici a saper affrontare il Male ma dovranno sostenerne drammaticamente il peso da adulti.
La struttura mantiene il doppio piano temporale del testo letterario, rinunciando però intelligentemente all’incontro tra i protagonisti adulti per confinarli in uno stato di particellare e malinconica solitudine. Alle vicende che corrodono in pochi giorni, si alternano i flashforward che si affacciano ai giorni nostri sulla quotidianità di tre di quei bambini, sconvolti dal ricordo che emerge inaspettato nelle pieghe della loro routine di padri, insegnanti o disoccupati. Ma se nel primo piano cronologico la mano di Gaglianone è abile a rappresentare le dinamiche crudeli di giochi infantili e miserie familiari, il film si sfalda proprio nelle semplicistiche ridondanze dei contrappunti.
Nei quadretti interpretati da Mastandrea, Accorsi e Solarino emerge una preoccupante incapacità di suggerire visivamente, o, più plausibilmente, un timore di non essere adeguatamente chiari di fronte al grande pubblico: tutto è ribadito, sottolineato da personaggi che pensano a voce alta, mimano affannosamente e cantilenano ciò che già ci è stato mostrato o fatto sentire. Il tono affettato e didascalico stride in particolare perché calato in una vicenda in cui sono centali i temi del silenzio complice, del non-detto e del rimosso che torna improvvisamente a galla.
Nel pasticciato e affollato impianto narrativo, emerge a sprazzi la volontà di virare il racconto sui binari semantici della fiaba nera ma, affiancata alle insistenze sul mondo adulto e allo spaccato sociale realistico, finisce per non riuscire a trasmettere nè la semplicità archetipica delle favole né la complessità strisciante delle tragedie reali. Se Pietro e Nemmeno il destino, pur viziati da sporadiche lungaggini, conservavano una verve asciutta e abrasiva nella durezza dei propri dolenti ritratti giovanili, l’insapore patina sentimentale e telefonata di Ruggine finisce proprio per azzerare la portata empatica dei personaggi.
Principale prodotto di questo squilibrio bulimico finisce per essere l’orco interpretato da Timi: misterioso e inquietante nella distanza delle prime inquadrature, si palesa nella seconda parte del film come una macchietta nevrotica che sgrana gli occhi, ruggisce, farnetica di Hitler, canta arie liriche nei momenti di eccitazione ed è preda di continui lapsus freudiani. Un mostro didascalico ed evidente, come si vorrebbe che i mostri fossero e come, purtroppo, non sono quasi mai.
Se si riesce a sentir pulsare il talento ineducato di Gaglianone sotto la superficie, è forse corretto imputare l’inefficacia del film ad un’infelice amalgama con la nuova dimensione produttiva, che ha portato in eredità la già citata cautela e, sia tra i divi che tra i bambini, un cast di visi più canonici e più complessi da limitare nel recinto della misura dei personaggi. Un deja vù di molti soggetti interessanti sfioriti nelle mani dei grossi calibri del sistema produttivo italiano, che in particolare riecheggia il recente La Solitudine dei numeri primi, anch’esso tratto da un libro di successo, anch’esso affidato ad un autore emergente e presentato a Venezia, nella confusione del quale però Costanzo era riuscito ad imporre degli elementi di rottura con la tradizione degli ultimi che, purtroppo, si affacciano in maniera troppo debole in questo Ruggine.
Ruggine, regia di Daniele Gaglianone, Italia 2011, 109′