Il nuovo film di Kevin Smith, presentato fuori concorso a Locarno dove ha prevedibilmente scosso i soliti tutori del buon gusto, è un ottimo punto di partenza per ragionare su ciò che il cinema horror, statunitense e non, non è più in grado di fare.
Considerato un po’ pigramente come un regista di commedie che ha faticato a mantenere la sua produzione all’altezza di Clerks o di In cerca di Amy, Smith, che a tempo perso è anche un ottimo sceneggiatore e un esilarante stand-up comedian, nel corso degli anni si è andato invece ritagliando un’interessante nicchia autoriale, mettendo in luce, tra le altre cose, uno dei migliori orecchi cinematografici (gli altri che condividono questo dono sono Diablo Cody, Rob Zombie e, ovviamente, Tarantino).
Che Smith si sia lanciato sull’horror può sorprendere solo coloro che intrattengono con il suo cinema una relazione superficiale. Già Dogma, anche se non era altro che una nera commedia fantasy (una di quelle storie che Garth Ennis avrebbe potuto immaginare per Hellblazer o per un’altra delle sue fantasie cripto-catto-scatologiche…), evidenziava non pochi punti potenziali di fuga verso l’horror.
Eppure, ciò che realmente sorprende, è l’approccio virulento alla polemica libertaria che Smith mette in campo, oltre a una regia muscolare che nell’estenuato finale esplode in un conflitto a fuoco di rara violenza e secchezza.
Red State – ossia lo “stato rosso”, come vengono denominati negli USA gli stati in cui la destra cristiana sostiene pena di morte, legislazione anti-gay, politiche anti-abortiste e altre amenità – è un film estremamente complesso che volge lo sguardo indietro agli anni Settanta, fornendo lettura dello stato dell’unione francamente inquietante.
In linea con il taglio del cinema horror dei Seventies, gli adolescenti di Red State sono poco più che degli imbecilli, mentre i redneck che sognano l’apocalisse sono tratteggiati con grande attenzione alla loro complessità umana. Argomentare che il film è manicheo, dunque, significa non rendersi conto del lavoro che Smith ha svolto per impedire che si trattasse di un mero pamphlet anti-fondamentalisti.
Nonostante le esplosioni di violenza, Red State è soprattutto un dramma politico. Da una parte un gruppo di persone che si rifiutano fermamente di stare nel mondo, e dall’altro il resto del mondo, appunto, che, colpevolmente o meno, guarda ai predicatori fondamentalisti come a uno scherzo di cattivo gusto o poco più.
A complicare le cose c’è la faccenda dei Tea Party e di politici come Sarah Palin che non fanno mistero alcuno della loro fede creazionista e che, nel corso di questi anni segnati dalla crisi finanziaria provocata in gran parte dall’amministrazione di GWB, ha finito per separare sostanzialmente una parte del Paese dall’altra.
Rispetto alla produzione horror corrente, Smith, pur essendo fondamentalmente un nerd, evita qualsiasi tentazione citazionista. Se proprio si deve pensare a un riferimento cinefilo, viene inevitabile alla memoria In corsa con il diavolo, il superclassico di Jack Starrett, ma soprattutto le atmosfere sudiste dei primissimi Tobe Hooper (Michael Parks sembra una sorta di aggiornamento del modello Neville Brand in Quel motel vicino alla palude).
Smith va direttamente al cuore del problema e crea un autentico conflitto culturale: mette in scena due visioni del mondo agli antipodi, la cui separazione si estende sino ai titoli di coda. Se le vittime sacrificali dei fondamentalisti sono adolescenti in cerca di sesso facile, i carnefici sono sociopatici non molto distanti dal modello sacrificale dei kamikaze. Red State è l’implosione del mito fondante della modernità USA. Red State è l’immagine di un Paese completamente arretrato nei propri terrori e incapace di uscirne fuori (il tocco spietato attraverso il quale sono messi in scena gli agenti del governo la dice lunga al riguardo).
Sarebbe stato sin troppo facile mettere su una satira nella quale i liberal di turno prendevano per i fondelli i redneck zoticoni. Kevin Smith ha optato per un approccio nient’affatto sottile ma senz’altro refrattario alle soluzioni banali. Se infatti ai fondamentalisti non viene scontato nulla (e ci mancherebbe…) il resto del mondo non ne esce meglio. Ed è esattamente questa dimensione problematica e aperta che manca al resto della produzione USA attuale. Certo il film di Smith non è esente da difetti, ma è indiscutibile che i suoi pregi ne fanno un oggetto raro nel cinema statunitense odierno.
E in linea con i precetti dell’horror settantesco, Smith alle risposte preferisce i problemi. Perché con le risposte si fa poco cinema.
Red State, regia di Kevin Smith, Usa 2011, 88′