Benché totalmente estraneo a ciò di cui discute la stragrande maggioranza delle persone, compresi i cinefili e i frequentatori delle sale, il Grande Dibattito che attualmente (ri)anima un corpo abbondantemente inanimato come quello della kritika cinematografica è rapidamente sintetizzabile in un referendum: Refn sì o Refn no. Tertium non datur. E non (solo) perché Nicholas Winding Refn fatalmente divide, per ragioni di stile, gusto e approccio al cinema, ma perché i “sì” si lasciano andare a un fondamentalismo d’altri tempi. Ecco un tipico estratto della stampa nostrana: “Chi scambia questo e gli altri titoli di Refn (dal capolavoro Valhalla Rising all’ultimo, incredibile Drive) per esercizi di stile e film di solo genere, non ha davvero capito niente”. Ragionare per assoluti, per dirla con il caro vecchio Obi-wan, è proprio dei Sith, ma cercando di astrarre dal risibile clima barricadero creatosi e ricondurre il fenomeno Refn a binari più consoni, aiuta a giudicare con maggior (necessario?) distacco la materia.
Applicare criteri da politique des auteurs a un regista come Refn è già di per sé qualcosa di curioso; se già oggi pare anacronistico difendere a spada tratta anche i Cronenberg o i Polanski, visto come sono soggetti i critici, gli artisti e il movie business a oscillazioni rapide e impredicibili dettate dalla tecnologia o dall’economia, ancor più lo è applicare schemi di un’altra epoca a un regista che è non solo – si perdoni la parolaccia – post-post-moderno, ma perfetto esempio di un’epoca che degli autori tradizionalmente intesi si serve come spunto. Un regista ipertestuale, in Drive più che mai, che, per la sua natura consapevolmente moderna e per un linguaggio consapevolmente disomogeneo, permette di separare tra loro galvanicamente le sequenze, come nel miglior cinema di genere. E di agevolare così la scomposizione tra il talento di Refn, decisamente fuori dal comune, e l’uso che talora Refn fa dello stesso. Esempi della prima categoria la sequenza dell’ascensore, di fattura squisita, con un uso del ralenti e della gestualità degno del miglior Woo; o ancor più la sorprendente colluttazione delle ombre, un’intuizione, riservata non a caso allo showdown, che rimanda a un’epoca lontana, in cui il cinema sapeva stupire con la sola forza dell’immaginazione (viene in mente Edgar Ulmer e quel telefono che uccide fuoricampo). Esempi della seconda le tante, troppe sequenze in cui si avverte il narcisismo del nostro o il calcolo (a volte sembra di vedere degli algoritmi sotto la pellicola, tanto sono calcolati i rapporti di causa-effetto), o in cui si assiste al sostanziale spreco di cotanto materiale cinematografico – Bryan Cranston e Ron Perlman – in ruoli bidimensionali, al limite del macchiettistico.
L’altro grande tema è quello delle citazioni e degli accostamenti, inevitabili quando si parla di Refn. Che in fondo non fa nulla per smentire di essere figlio di Mann, con i Tangerine Dream di Thief riportati al presente di un’eccellente colonna sonora permeata di anni ’80 (Cliff Martinez e un tocco di Lynch via Badalamenti), o di Friedkin, con To Live and Die in L.A. omaggiato/rielaborato dai titoli di testa in avanti (ma non dagli inseguimenti, che da quel modello si discostano parecchio – dove Friedkin insisteva sulla deflagrazione di un unico lungo contromano, Refn cerca comunque e sempre lo stile, tante brevi parentesi automobilistiche per sfoggiare altrettanti “talenti” del Pilota, quasi come a Hong Kong con i differenti stili di gong fu). Figlio di Hill? Solo idealmente, perché tutto o quasi divide Drive da quella scheggia di purissimi anni ’70 di nome Driver (in che altro decennio Bruce Dern avrebbe potuto incarnare quella tipologia di poliziotto?).
Drive non nasconde la sua natura di ruminante del cinema, che trangugia e sminuzza ciò che è stato per ripresentarlo aggiornato adeguatamente a un’estetica da terzo millennio. E non c’è niente di male in ciò, anzi c’è davvero bisogno, come non mai, di gente come Refn. Glorificare come ci si trovasse di fronte a una sorta di rivelazione messianica, però, è altra questione. Quando l’immagine trasla – e deve farlo, presto o tardi – in poetica, allora sorgono i dubbi; sulla reale consistenza di Drive come racconto esemplare, con una sua epicità e capacità, a sua volta, di rappresentare un modello per il futuro. Far parlare poco un personaggio, come ci ha insegnato Melville (o il Kowalski di Vanishing Point, altro evidente modello), permette di scandire come fossero sentenze poche battute. Perché l’eroe taciturno con il giubbotto di Cobretti e la “donna da proteggere” che è solo tremendamente “donna da proteggere” e nient’altro sono creature di celluloide, lì nascono e lì muoiono. Non perché interessi una qualsivoglia pretesa di realismo, del tutto fuori luogo, ma perché i miti devono poter trascinare l’illusione fuori dallo schermo per essere tali. E se il registro enfatico di Refn è quello del racconto esemplare, l’ambizione è quella di chi è fin troppo consapevole della propria bravura, facendo crescere il rammarico per ciò che Drive è (un ottimo film pieno di difetti) e ciò che avrebbe potuto essere. Con buona pace di chi già lo idolatra, il suo primo film capace di sgombrare il campo dagli equivoci e di mettere d’accordo i recalcitranti, privandoli di argomenti, Refn lo deve ancora girare.
Drive, regia di Nicolas Winding Refn, Usa 2010, 100′