Della triade di registi fondamentali del cinema classico giapponese, Ozu, Mizoguchi e Naruse, il terzo è quello che ha goduto di minore popolarità e attenzione critica in Occidente. Solo in Francia, negli anni ’50, sono usciti in sala alcuni dei suoi film, come Nubi fluttuanti (1955), salutato con entusiasmo da Daney (“qualcosa che rimarrà nella memoria”) e definito da Truffaut un “gran film malato”. Negli ultimi anni il ruolo di Naruse e la sua importanza, non inferiori a quelli degli altri due colleghi, sono oggetto di rivalutazione da parte di molti studiosi, Jean Narboni in testa, mentre rassegne e pubblicazioni di dvd e monografie si fanno sempre più frequenti. Rimaneva tuttavia ancora da scoprire il suo periodo muto, raramente preso in considerazione, se si eccettua il lavoro meritorio delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone. A colmare la lacuna arriva la Criterion Collection/Eclipse Series che pubblica in cofanetto tutti i muti conservati del regista.
La filmografia di Naruse Mikio (1905-1969) abbraccia un periodo di trentasette anni e comprende ottantanove opere, quasi come quelle di Mizoguchi e più di quelle di Ozu. Naruse entra nel mondo del cinema nel 1920, a quindici anni, con la casa di produzione Shochiku, la stessa in cui farà ingresso Ozu tre anni dopo. Sotto l’egida del produttore e sceneggiatore Kido Shiro, con il collega e altri cineasti, confluisce negli studios Shochiku di Kamata, fucina di uno stile modernista che prende in oggetto la vita urbana contemporanea, le classi sociali più deboli, la perdita dei valori della tradizione giapponese. Naruse gira il suo primo film solo nel 1930, Chambara fūfu (I coniugi Chambara), sceneggiato da Kido, ma il suo primo lavoro sopravvissuto è l’ottavo, Flunky, Work Hard (Koshiben gambare, 1931). Si tratta, come la maggior parte delle opere del regista, di uno shomingeki, un affresco di piccole cose della piccola gente. Ancora non si concentra, come avrebbe fatto per tutta la sua carriera, su un ritratto femminile: il protagonista è Okabe, un assicuratore, che rientra in quel ceto di colletti bianchi che, dagli anni Venti, stava prendendo piede nella società nipponica. Una figura che, con la propria famiglia, popolava anche il cinema di Ozu così come la letteratura dell’epoca, basta pensare al romanzo Sarariiman monogatari di Maeda Hajime. Un mondo perfettamente combaciante con la Angestelltenkultur analizzata da Kracauer nello stesso periodo. Okabe non è ancora una figura urbanizzata, vive in un contesto semirurale – il film inizia e finisce con le immagini di un prato fiorito – e vicino alla sua abitazione passa, con grande frequenza, un treno. Ancora un’immagine ozuiana che, per Naruse, indica quella compresenza di modernità e tradizione che sarà costante in tutta la sua opera. Il protagonista è un uomo estremamente povero, in competizione con un altro assicuratore per spuntare una polizza a una famiglia agiata. Secondo lo stile di Kido, che vuole l’alternanza degli episodi allegri e tristi della vita, il film contiene numerose gag e momenti burlesque, come quello in cui Okabe confonde lo spazzolino da denti con quello che usa per tirare a lucido le scarpe (le scarpe bucate che si cerca di camuffare e rattoppare in modo creativo, così come abiti consunti e sgualciti, segno di condizioni sociali umili, ricorreranno nel cinema di Naruse). Importantissimo nel film è anche lo sguardo dal punto di vista dell’infanzia: scorribande di bambini, giochi di strada, risse con teppistelli prepotenti. Una sensibilità comune a quella di un altro regista della Shochiku di Kamata, Shimizu Hiroshi – numerose le analogie figurative con l’inizio del suo A Hero of Tokyo (1935) – e anche allo stesso Ozu che userà Flunky, Work Hard come modello per il suo Sono nato, ma… (1932). Naruse si contraddistingue per la sperimentazione visiva, pur circoscritta a un momento del film, che lo avvicina più alle avanguardie europee o al capolavoro visionario Una pagina di follia (Kurutta ippeji, 1926) di Kinugasa Teinosuke. Sovrimpressioni, frammentazioni dell’inquadratura, ombre espressioniste, negativi, immagini distorte mediante specchi deformanti come in La follia del dottor Tube di Abel Gance, il tutto concentrato nell’unico flashback che racconta l’incidente del figlio, cui fa seguito la scena – situazione curiosamente analoga a quella di Barry Lyndon – con i personaggi radunati al suo capezzale, capostipite delle numerose immagini cliniche, di malattia e sofferenza fisica, spesso a carico di bambini, che costelleranno l’opera di Naruse. Ma la tragedia in questo caso non ha luogo e il ragazzino guarisce in quello che ha tutta l’aria di un lieto fine posticcio. Come in un film di Frank Capra, o come anche in Repast (Meshi, 1951) dello stesso Naruse, appare assai più convincente la scena che precede l’artificioso epilogo ottimista.
No Blood Relation (Nasaku naka, 1932), diciassettesima pellicola del regista, ma secondo lungometraggio, è un melodramma con tutti i crismi – o almeno, così sarebbe considerato in un’ottica occidentale, perché in Giappone la classificazione dei generi si basa più che altro sull’ambientazione sociale, o sulla collocazione storica. Sceneggiato da Noda Kogo, il braccio destro di Ozu, racconta della contesa di una bambina da parte di due madri, di cui una, quella naturale, è un’attrice, acclamata star di Hollywood. All’epoca ci sono effettivamente stati attori giapponesi diventati vedette nella mecca del cinema – è il caso di Sessue Hayakawa –, così come un interscambio “fisico” tra le due cinematografie. Per Naruse si tratta di un richiamo, come quelli messi in scena spesso anche da Ozu, all’esistenza di quel cinema americano tanto diverso, eppure fonte di ispirazione e di rispetto. Lo stesso stile di regia di Naruse, come ha dimostrato Nöel Burch, assimila senza molta convinzione i codici di rappresentazione occidentali e al contempo insegue il modello alternativo di Ozu che si basa sulla loro inosservanza. L’ambientazione da upper class di No Blood Relation può sembrare un’anomalia, ma la famiglia del protagonista cade in miseria – come succederà a tanti personaggi del tardo cinema di Naruse, per esempio in Nubi fluttuanti. Lui finisce in prigione e la moglie ripiega a lavorare come commessa. Il rapporto affettivo che si crea tra quest’ultima e, in assenza del marito, un amico di ritorno dalla Manciuria – un triangolo tipico dei melò del regista – non è esplicito ma intuibile. Tornano tanti elementi del film precedente, i bambini che si divertono con aeroplani giocattolo e l’incidente che coinvolge uno di questi. La narrazione è ancora alleggerita da gag che sono incarnate nella figura farsesca del ladruncolo pasticcione, e il personaggio della nonna, avida e interessata solo al suo tornaconto, ricorda il cinismo di certi protagonisti di Ozu. La macchina da presa è estremamente fluida, con una grande abbondanza di carrellate laterali, assimilabili ai famosi plan rouleau di Mizoguchi, riproducenti il senso della visione dei rotoli illustrati dell’arte classica giapponese. Naruse si serve del montaggio analogico per richiamare simbologie tipicamente giapponesi, come quando l’annuncio della bancarotta è accompagnato da immagini autunnali di foglie che cadono. Inaugura inoltre la singolare pratica delle carrellate in avanti sulle didascalie che tornerà in altri suoi muti. Magistrale, nel rendere la tensione dell’istante, la sequenza dell’intercalare di battute tra la madre, che rivede la figlioletta dopo tanti anni e vuole convincerla a vivere con lei, e quest’ultima che rifiuta, risolta con l’alternanza di scene della bimba in fuga, carrellate sulle didascalie dei suoi epiteti alla madre («Bugiarda!», «Rapitrice!») e sul volto atterrito di quest’ultima.
Apart from You (Kimi to wakarete, 1933) è il primo film di cui Naruse firma soggetto e sceneggiatura. L’opera inaugura quei ritratti femminili che hanno reso celebre il regista: ambientato nel mondo delle geisha, donne sfruttate e costrette a vivere fuori dal nucleo famigliare – in questo caso una delle due protagoniste è stata venduta a una casa di geisha dal padre alcolizzato – che torneranno in tutta la filmografia del regista. La situazione può ricordare quella di tante opere di Mizoguchi (da Una donna di cui si parla a Le sorelle di Gion), ma da subito emerge la grande differenza tra i due registi nel delineare ritratti femminili. Le donne di Naruse, a differenza di quelle del collega, non si ribellano contro il genere maschile che le sottomette, ma accettano stoicamente i comportamenti degli uomini come qualcosa di inevitabile. La forza delle eroine narusiane è tutta racchiusa in una frase che pronuncia la protagonista di Quando una donna sale le scale (1960): «Gli alberi continuano a germogliare, non importa quanto forte soffi il gelido vento del nord». La situazione della donna costretta a un lavoro umiliante per mantenere un ragazzo è comune al film di Ozu Una donna di Tokyo dello stesso anno. Di ozuiano in Apart from You troviamo anche alcune immagini: treni, ciminiere il cui fumo fluttua nell’aria, simbolo dell’impermanenza della vita, ma anche, da un punto di vista stilistico, il ricorso ai famosi campi/controcampi “sbagliati” del Maestro. Naruse mostra una estrema raffinatezza nella composizione dell’immagine, ricorrendo anche all’uso di specchi. Tornano tanti elementi già analizzati nei film precedenti, le gag, indumenti bucati, le carrellate intensive sui volti nei momenti di picco emotivo.
Nel film successivo, Every-Night Dreams (Yogoto no yume, 1933), ritornano, persino con maggiore cupezza, i temi della maternità, dello sfruttamento femminile, e le immagini che riappariranno prepotentemente anche nei suoi classici. L’inizio e la fine sono contrassegnati dalle stesse visioni portuali del mare percorso da battelli, proprio come in Flowing (1956), metafora di un mondo fluttuante e transitorio e di un’esistenza alla deriva. E le scene della protagonista ripresa nell’atto di salire le scale, simbolo del suo fardello, torneranno in Quando una donna sale le scale. La protagonista è costretta in un ruolo ancora più degradante della geisha del film precedente: per mantenere il figlio, fa l’entreneuse in un bar di Ginza, con un marito inetto e pusillanime. Un canovaccio che combacia con quello di Una donna di Tokyo. Ricorrono le simbologie di povertà delle calze e delle scarpe bucate, rattoppate alla bell’è meglio. E se tornano le carrellate laterali, quelle sui volti, i campi/controcampi ‘sbagliati’ e gli specchi che creano effetti di re-cadrage, la regia di Naruse si arricchisce: troviamo dei “pillow-shot”, le tipiche inquadrature-nature morte di Ozu, a intercalare il flusso diegetico: fiori, bambole, giocattoli, vasi, bollitori; e c’è il montaggio analogico: la mela lanciata in aria dal padre diventa una pallina in una partita di baseball. Estremamente raffinato,poi, il modo in cui viene raccontato l’incidente stradale del figlio, non mostrato direttamente ma per mezzo di un’ellissi, suggerito dal pillow-shot dell’automobile giocattolo. Un’immagine anticipata in precedenza dalla visione dall’alto della stessa macchinina che solo allargando l’inquadratura si rivela come tale e non come una vera autovettura. Nella scena del baseball si squaderna l’ambiente del cinema giapponese di quegli anni. Un paesaggio suburbano pieno di quei grandi cilindri di cemento in cui sono appollaiati i bambini, come nel cinema di Shimizu, sullo sfondo del quale si stagliano ciminiere ozuiane, e che dirada verso il porto. L’ambiente portuale è protagonista, come nel coevo Japanese Girls at the Harbor sempre di Shimizu: un crocevia di personaggi e di una varia umanità che popola i bar, ed è da vedere ancora come un debito al cinema americano (I dannati dell’oceano di Von Sternberg).
Street without End (Kagiri naki hodo, 1934) è l’ultimo film muto del regista e segna il suo congedo alla Shochiku. Al centro, una situazione che Naruse si porterà dietro fino all’ultimo film, Nubi sparse (1967): un incidente e l’incontro con il responsabile, che offre un risarcimento, con cui nascerà un legame sentimentale. Dei due sinistri presenti in Street without End il secondo è mortale e viene anticipato dai poster di automobili che tappezzano la stanza del fratello della protagonista: su uno compare la scritta, dal senso ironico e beffardo, “safety glass”. In questo film l’eroina narusiana si fa ancora più forte e determinata: disconosce la famiglia agiata del marito, in cui è vista con sarcasmo da alcuni componenti, per tornare a fare la cameriera in un bar. E di particolare durezza è il momento in cui abbandona il capezzale dell’ex marito, rifiutandosi di assisterlo nei suoi ultimi istanti di vita. L’ambiente urbano, per la prima volta in Naruse, acquista un ruolo preponderante, come nel cinema di Ozu. Il film è un affresco del quartiere di Ginza con le sue luci al neon, i suoi locali e la sua vita notturna. Quel luogo dove «donne mature, ma ancora affascinanti danzano musica jazz e mandano giù liquori nella notte», come recita la canzone “Tokyo kōshinkyoku” che accompagna l’omonimo film di Mizoguchi del 1929. In Street without End si parla della pratica del matrimonio combinato, il miai-kekkon, contrapposto al “matrimonio per amore”, un tema di cui Ozu si è occupato spesso. Naruse esplicita il proprio pensiero in merito con una didascalia che recita: «Ancora oggi i concetti feudali della “famiglia” schiacciano l’amore puro dei giovani in Giappone». Ritorna prepotentemente il mondo del cinema, prima grazie al volto dell’ozuiano Ryū Chishū, che interpreta un addetto al casting, e poi per mezzo di una sequenza di L’allegro tenente di Lubitsch, visto in un cinema dai protagonisti. Anche Ozu un anno prima, in Una donna di Tokyo, aveva inserito un brano del maestro della commedia, preso da Se avessi un milione. Il senso delle due citazioni è analogo: l’ammirazione nei confronti di Hollywood, ma allo stesso tempo una presa di distanza da quel mondo dei sogni da operetta, in favore di un cinema di realismo sociale. In Street without End compare anche un set cinematografico e, alla fine, l’amica della protagonista diventa una diva. «È nata una stella» recita il titolo di un giornale. Ma non prefigurerà quella stessa parabola decadente che sarebbe stata raccontata dai vari film hollywoodiani con quello stesso titolo?
Quando la Shochiku chiude gli studios di Kamata, nel 1936, Naruse se n’è già andato da un anno, non più gradito da Kido Shiro che lo reputa un secondo Ozu, di cui non c’è bisogno. Naruse passa così alla P.C.L. che poco dopo diventerà la Toho, con cui continuerà a fare film fino al 1967, due anni prima di morire, e dove tiene a battesimo il giovane Kurosawa, che gli fa da aiuto regista. Vedendo le sue prime opere, si può osservare come la sua filmografia, analogamente a quella di Ozu, rappresenti un macrotesto, in cui ogni film costituisce un tassello, fatto di parallelismi, simmetrie, elementi ciclici, situazioni riproposte con varianti (basta prendere in considerazione, come si è già visto, il confronto tra Street without End e Nubi sparse di oltre trent’anni dopo). Più che a un disegno unitario, come nel caso del collega, questo aspetto può essere ricondotto a quella tensione continua verso la perfezione propria di tutte le arti giapponesi. Naruse era convinto del carattere effimero dei film che «dopo essere stati realizzati, svaniscono in una o due settimane». A distanza di tempo, le tante iniziative a lui dedicate, non fanno che smentire quella sua convinzione.
SILENT NARUSE (Criterion, Eclipse Series #26)
FLUNKY, WORK HARD (Koshiben gambare), regia di Naruse Mikio, Giappone 1931, 28′
NO BLOOD RELATION (Nasaku naka), regia di Naruse Mikio, Giappone 1932, 79′
APART FROM YOU (Kimi to wakarete), regia di Naruse Mikio, Giappone 1933, 60′
EVERY-NIGHT DREAMS (Yogoto no yume), regia di Naruse Mikio, Giappone 1933, 65′
STREET WITHOUT END (Kagiri naki hodo), regia di Naruse Mikio, Giappone 1934, 88′