Fin dal suo ritorno all’interno di alcuni film d’animazione – e limitatamente al quasi esclusivo utilizzo da parte dell’industria hollywoodiana –, il 3D si è caratterizzato come una pratica in perfetta continuità con le caratteristiche di un cinema ancora schiavo di consuetudini postmoderne, quali la frammentarietà, l’euforia o la presentificazione del tempo, ultimo ritrovato di una concezione del cinema da rollercoaster di cui, paradossalmente, sembra esaltare soprattutto il gusto per la superficie.
A smarcarsi da questo utilizzo unidirezionale del 3D sono due cineasti tedeschi che più volte si sono trovati a sperimentare senza pregiudizi nuove soluzioni tecniche nei loro film: Wim Wenders, con Pina, e Werner Herzog, con Cave of Forgotten Dreams.
La carriera di Wenders è costellata di momenti in cui il film diventa l’occasione per riflettere non solo sul cinema in senso lato ma, nel dettaglio, su tutte le modificazioni che il medium ha incontrato dalla fine degli anni Sessanta ad oggi, specie quelle legate al progresso tecnologico. Da queste fasi di passaggio, in cui il cambiamento nel modo di fare cinema presenta ovvie ricadute sul modo di pensarlo, l’opera di Wenders ha sempre tratto fertile ispirazione, servendosi spesso del documentario per interrogarsi sul proprio mestiere e ponendosi quesiti decisamente più profondi e interessanti di quelli metafisici che stanno alla base di opere più zoppicanti come Così lontano, così vicino e il recente Palermo Shooting. L’ambiguità della tecnica tridimensionale era già stata indagata da Wenders in un cortometraggio del 2009, Il volo, un’opera lacerata tra la scorrevolezza della finzione e la durezza della realtà, l’una ovviamente specchio dell’altra. In quel film la narrazione finzionale si tramutava in racconto esperienziale: il dato reale, punto di partenza per la stesura del soggetto nella prima metà del film, ne fuoriusciva nel momento di massima costruzione retorica e pretendeva uguale spazio. In questo slittamento, l’artificio tridimensionale perdeva mordente, come la sobrietà della seconda parte dell’opera sembrava richiedere. Un effetto ottico per il quale non vengono più realizzati tagli d’inquadratura e movimenti degli attori concepiti per esaltare la profondità sensoriale (la mano di Zingaretti che si avvicina all’obiettivo, ad esempio), ma che invece è ripensato all’improvviso come uno strumento d’indagine della realtà utile anche allo smascheramento della finzione cinematografica, al pari del piano sequenza baziniano.
Partendo da una prospettiva radicalmente opposta rispetto a quella immersiva e stordente del 3D hollywoodiano, Wenders approfondisce il suo approccio al tridimensionale con Pina che, oltre ad essere un film di Wim Wenders per Pina Bausch (come recitano i titoli), è anche, ovviamente, un film sul 3D, sulla necessità di ripensare una tecnologia ora applicata esclusivamente ai film d’animazione e a quelli d’intensa azione. Un’opera che non assume le forme di un manifesto, ma che semplicemente traccia una strada possibile, un solco limitato dall’evidente necessità di non lasciare che le riflessioni sul mezzo si sovrappongano alla celebrazione della personalità della coreografa tedesca, la cui morte poco prima dell’inizio della lavorazione segna inevitabilmente il lavoro di Wenders.
Paradossalmente, è proprio la morte di Pina Bausch a rendere trasparenti le intenzioni di Wenders nei confronti del 3D applicato al documentario: un documentario che, come spesso accade nella carriera del cineasta, si confronta con la vita e l’opera di artisti profondamente ammirati (da Nicholas Ray e Yōji Yamamoto fino ai musicisti cubani e a Wolfgang Niedecken). Da Pina, Wenders elimina quasi totalmente l’aspetto biografico e si concentra sulla produzione della coreografa, filmando momenti da alcuni dei suoi spettacoli più famosi, messi in scena dagli allievi che, tra un brano e l’altro, ricordano la loro maestra attraverso un racconto in voice-over sovrapposto ai loro primi piani muti. Le sacre du printemps, Café Mueller, Kontakthof, Vollmond sono spesso danzati sul palcoscenico che, attraverso il 3D, si riafferma come spazio chiuso tra tre pareti e con un pubblico in platea che raddoppia quello seduto nella sala cinematografica. Il 3D mappa il terreno dell’azione scenica (Wenders esemplifica questo aspetto attraverso un effetto speciale che gli permette di passare, in un’occasione, direttamente dal modellino alla scena), ne sottolinea la matericità coadiuvato da un rigoroso lavoro sull’audio, che restituisce il rumore dei movimenti sulle assi, il respiro dei ballerini, la musica che accompagna la danza come suono rigorosamente diegetico. Così facendo, il 3D risulta perfetto per raccontare l’arte di Pina Bausch, avvicinando il più possibile il pubblico all’esperienza teatrale, e finendo per esaltare le qualità “cinematografiche” delle coreografie piuttosto che appesantirle con il tentativo di trasporle da un medium all’altro. Un 3D, quindi, usato doppiamente in controtendenza, in quanto inserito in un apparente processo di despettacolarizzazione (sarei tentato di scrivere di registrazione, se non fosse che la cinepresa di Wenders, per quanto ancorata idealmente a una prospettiva frontale, si muove carezzevole tra i ballerini, seguendone o anticipandone i movimenti con ampi crane-shots e movimenti di steadycam) e per dare profondità ad uno spazio comunque limitato.
A queste scene se ne alternano altre, solo in apparenza opposte: alcuni balletti sono infatti ambientati nella città di Wuppertal (dove si trova il Tanztheater di Pina Bausch), in scenari naturali o nel Zollverein School of Management and Design di Essen. Se l’apertura spaziale amplifica in un certo senso le possibilità del 3D, svincolando le prospettive dal limitato spazio scenografico, è anche vero che l’impostazione nella messa in scena rimane la stessa: non vi è la volontà di adattare il ballo in favore della macchina da presa e di un nuovo ambiente, ma di ricostruire la superficie attorno alle movenze dei ballerini, che rimangono il fulcro, catalizzatori dello sguardo e dei movimenti della cinecamera wendersiana. Tutti i luoghi al di fuori dal teatro, infatti, sono solo falsamente più aperti rispetto al palcoscenico. Una strada accanto ad un pendio scosceso, il letto di un torrente, la sopraelevata di Wuppertal e la sua stazione, l’aiuola nell’incrocio stradale, l’avveniristico edificio di Essen, la casa di vetro o la fabbrica dismessa sono territori fortemente delimitati, con confini chiarissimi se quantificati in spazio ballabile, in superficie calpestabile dai danzatori, posti ed inquadrati quasi sempre con linee orizzontali alle loro spalle, che segnano un confine impossibile da superare. La prospettiva, illusoria perché non percorribile ma aperta allo sguardo, esaltata dalla tridimensionalità, diventa così un elemento quasi astratto, utile per leggere l’opera attraverso un altro punto di vista. Il 3D, che dona profondità all’immagine, dialoga così in maniera fertile con la poetica del regista, colma di orizzonti verso cui tendere, mai raggiunti, dove la massima apertura spaziale (si pensi al finale di Falso movimento) diventa sovente momento di scacco esistenziale, punto d’arresto del viaggio.
Il cinema di Wenders ha sempre lavorato sulla prospettiva, quella delle strade percorse dai suoi personaggi (assurda e spezzata in Lisbon Story, fuori dallo spazio reale, spazio a sé) o delle inquadrature che ci restituiscono spazi colonizzati, destoricizzati e senza memoria (la Potsdamer Platz che di film in film diventa luogo di rimozione, attraversata dagli Skladanowsky catapultati nel presente, inventori di un cinema, arte morente almeno fin da Nel corso del tempo). Anche in Pina, estremo saluto che si pone come testo al termine di una vita, di una carriera, di un mondo, le prospettive non conducono da nessuna parte e le linee orizzontali che ricorrono nella composizione dell’inquadratura interrompono qualsiasi possibilità di avanzamento.
Ma come nel finale di Lisbon Story, con i due protagonisti chiusi nel vicolo e incalzati dal tram mentre girano film con la macchina Lumière, anche per Pina l’attenzione va spostata dalla prospettiva, concetto ambiguo perché presuppone un progresso, a quello, forse più calzante per il 3D, di profondità. Da questo punto di vista, il cinema di Wenders è un cinema che, mostrando la rimozione se ne fa antagonista, mostrando la mancanza di prospettive future indaga le profondità del passato: la direzione dello sguardo è, sostanzialmente, opposta. La danza di Pina Bausch rielabora, come il cinema di Wenders, la storia della Germania e i suoi traumi, è influenzata dalle avanguardie e dal cinema, in essa non vi è solamente un lavoro magistrale sul corpo dei ballerini, ma è impossibile non riscontrarvi una densità che è in piena sintonia con quella del cinema di Wenders. La scelta del 3D è quindi, in ultima analisi, perfetta per dilatare tale densità, per esaltare la profondità del lavoro della Bausch e permettere a Wenders di raccontare ancora una volta, tramite esso, il cinema che lo ha preceduto (dai musical americani a Metropolis, riferimento evidente in certe scene di massa, fino all’evidente autocitazione di Alice nelle città), le ferite di un paese che distoglie troppo spesso lo sguardo dal proprio passato nell’illusorietà di un domani costruito su uno spazio riverginizzato. Il 3D, quindi, non come uno strumento del domani, ma come un’ulteriore lente per ingigantire l’oggi, e ritrovarci uno ieri, forzando i meccanismi che regolano, oggi come ieri, il cinema e la danza, per confermarsi rivoluzionari.
Similmente, Herzog fa del 3D un uso spiazzante, quasi beffardo, all’interno del suo film dedicato alla Grotta Chauvet, luogo nel quale si trovano le più antiche pitture rupestri mai scoperte. Tanto il cinema di Wenders è ancorato alla realtà, interrogata dolorosamente e spesso senza apparente risultato, quanto il cinema di Herzog dalla realtà prende spesso le mosse nella messa in scena di un universo allucinato e trasfigurato, lontano da pratiche consolidate di documentazione del reale come vorrebbe il genere che il regista frequenta di più. Il viaggio nella Grotta Chauvet è, come il titolo stesso denuncia, un viaggio all’interno di un sogno, un luogo che si offre come nucleo di speculazione, dove i commenti degli esperti e degli scienziati sono spesso accompagnati dalle consuete manipolazioni immaginifiche herzoghiane. Straniante è, ancor prima di entrare in sala, il pensiero che il regista abbia scelto l’effetto tridimensionale per raccontare quelle che sono le più antiche raffigurazioni bidimensionali della storia umana. E ancora più straniante è il fatto che Herzog applichi per lunga parte del film il 3D a un digitale povero, sporco, a una messa in scena fortemente condizionata dall’ambiente in cui il regista e la sua troupe si muovono, obbligati ad attrezzature leggere e a muoversi in spazi limitati.
Come molti altri documentari del regista, anche Cave of Forgotten Dreams è legato all’eccezionalità delle possibilità di ripresa; ma non, come fu per La Soufrière o per Apocalisse nel deserto, per via dell’irripetibilità dell’evento, bensì a causa della quasi totale impossibilità di avvicinarsi a qualcosa che invece è immobile da trecentomila anni (la grotta è accessibile solo da chi la studia, visto il pericolo di modificare un equilibrio ambientale precario). Di questo mondo Herzog rende conto attraverso il 3D, anch’egli affascinato dalla profondità che può garantirgli e che, come per Wenders, è legata anche alla dimensione temporale. Trovandosi a riprendere i segni di un tempo così lontano ma così presentificato dall’immutabilità e dall’immobilità del luogo, Herzog rallenta il tempo all’interno della grotta cercando di far coincidere la dilatazione spaziale dell’effetto tridimensionale con quella che è la dimensione temporale, spesso forzata dal suo cinema. Come nella scena della volpe del deserto tenuta per il collo in Fata morgana, il tempo herzoghiano è dilatato oltre ogni convenzione e, come in questo caso, contro ogni sopportabilità. Molti dei suoi film, inoltre, inseguono un’impossibile fossilizzazione temporale, declinata attraverso la ripetizione, la circolarità (evidente in Kalachakra e ancora in Apocalisse nel deserto – ma anche Aguirre è un racconto sulla ricerca di un luogo che si tramuta via via in un’opera sul tempo, che il protagonista sembra alla fine sconfiggere, uscendo di scena proprio per l’impossibilità del film di contenere un presente così personificato). Arrivando in più occasioni a sospendere quasi la progressione temporale all’interno del film e abolendo la bidimensionalità, Herzog sembra esaltare l’estrema instabilità dell’immagine tridimensionale, un difetto che si rivela un pregio inaspettato, tanto da consentirgli di tramutare la contemplazione delle figure bidimensionali in un tentativo di coglierne il movimento interno, le direttrici dinamiche, quasi a risalire ad un illusorio primo tentativo di fare del cinema. La necessità dei primitivi di creare una composizione dinamica entra quindi in rifrazione con l’esigenza di Herzog di dinamizzare i graffiti nell’era dell’immagine in movimento.
Il 3D, pratica ancora grezza e non pienamente sviluppata, si rivela funzionale grazie ai suoi limiti, offrendo la possibilità di approcciarsi ai graffiti con un’inedita precarietà. Il 3D come lente privilegiata della durata quindi, una durata che non solo, bergsonianamente, si fa memoria, bensì memoria collettiva che diventa allucinazione e sogno. Il titolo è più che mai calzante e programmatico: anche nei dialoghi con un giovane archeologo, Herzog sconfina spesso nel terreno del ricordo, dell’immaginazione e nel sogno, attraverso il tentativo di una dilatazione che coinvolge sensi e coscienza e che trova un suo perfetto corrispettivo nella profondità del 3D.
Ma da un altro lato, Herzog gioca con grande ironia sull’incontro tra il proprio cinema e il 3D, non solo non portando mai all’eccesso la ricerca dell’effetto, ma anche non sfruttandolo pienamente quando l’occasione lo richiederebbe (si veda, ad esempio, la scena delle lance), quasi a prendere in giro se stesso e il suo pubblico. In più, trasla intelligentemente l’attenzione alla tecnica sulle riprese aeree in esterni: il film si apre infatti con un movimento che da terra si solleva verso l’alto, tra filari di vite. Apparentemente un movimento di gru, si rivelerà essere invece una ripresa aerea. Nel prefinale, prima dell’allucinato epilogo futuribile, la ripresa si conclude letteralmente nelle mani dell’operatore, rivelando al pubblico che la camera digitale era montata su un aereo telecomandato. Un modo per disimpegnarsi elegantemente dalla riflessione sul proprio medium, che Herzog ha spesso affrontato scherzosamente (si pensi alle lezioni di cinema realizzate in occasione della Viennale, nel 1991), e nascondere dietro all’artificio giocoso le grandi intuizioni spesso celate dietro l’ingombrante titanismo del suo cinema.