C’è voluto molto tempo prima che la critica cinematografica smettesse di essere considerata un’occupazione di ripiego per reporter locali e critici letterari e teatrali. Gli editori dei quotidiani non avrebbero mai immaginato che potesse rappresentare altro che un favore in cambio delle inserzioni pubblicitarie. Ma proprio quando la critica cinematografica ha cominciato a servirsi di strumenti propri e ha raggiunto un soddisfacente livello intellettuale, così come uno spazio sulla pagina comparabile a quello di arte e teatro – appena dopo il suo fiorire, insomma –, l’arte cinematografica ha cominciato ad appassire. Oggi, l’errore principale del critico cinematografico è quello di giudicare i film alla stessa maniera in cui i suoi colleghi giudicano quadri, romanzi e rappresentazioni teatrali.
È vero che un’opera genuinamente pura (anche nella sua concezione) è emersa di rado nel corso dei primi quindici anni di sviluppo dell’arte cinematografica. All’epoca, il critico cinematografico avrebbe avuto l’opportunità di osservare, registrare e commentare un processo così raro ed entusiasmante nei suoi stadi individuali che i colleghi l’avrebbero invidiato, benché appartenenti a una lunga tradizione artistica fatta di opere dagli intenti più puri e standard più alti. Ma ecco una forma d’arte emergente! Ecco che un processo di documentazione in origine puramente meccanico ha sviluppato i propri mezzi in maniera tale da presentare la realtà in forma artistica. Questo primo esperimento si è rivelato talmente rilevante da un punto di vista estetico – almeno all’inizio – da far passare in secondo piano la domanda relativa a cosa sarebbe risultato decisivo nella valutazione finale del fenomeno, ovvero fino a quali altezze si sarebbe elevato (la domanda riguardo l’artisticità o meno del film ci sembra fuori luogo e andrebbe rimpiazzata da quella relativa al suo grado di potenzialità artistica).
Se, come abbiamo detto, era raro veder apparire una pura opera d’arte, giudicata come tale in base alle intenzioni e ai risultati, è vero che in quel periodo iniziale quasi ogni film rappresentava uno stadio nella formazione di un nuovo linguaggio visivo, con propri temi narrativi, un proprio punto di vista e propri strumenti, e il riconoscimento di questo fatto sarebbe dovuto essere il compito del critico cinematografico di allora. Ma, in gran parte, la critica non era pronta a farlo e l’opportunità è svanita senza che se ne sia potuto approfittare.
La creazione artistica non è un lusso, non è un abbellimento o un accessorio, serve piuttosto a esprimere il tema e la trama. Dunque, a causa delle limitazioni dovute all’assenza della parola, il cinema delle origini ha maturato stilemi artistici atti a rendere comprensibile la trama, i personaggi e il contesto. Le persone si sono servite di una pantomima silenziosa, della trasformazione dell’interiorità in motivi “visibili”, delle possibilità creative della macchina da presa e del montaggio. Con l’avvento del film sonoro, la necessità di tutti questi strumenti è scomparsa.
Non solo la necessità ma, in gran parte, anche la possibilità di servirsene. Benché fosse palese l’utilità di descrivere l’azione, i personaggi e il contesto in una maniera più diretta, la parola e l’immagine rappresentavano, l’una nei confronti dell’altra, modalità di rappresentazione così totalizzanti da non potersi valorizzare a vicenda qualora applicate simultaneamente, limitandosi invece a indebolirsi e distorcersi reciprocamente.
Il risultato di tale processo – la decadenza del cinema come arte espressiva – non è ancora giunto a termine. Da un punto di vista estetico è anch’esso interessante e merita maggiore attenzione da parte della critica. Elementi degni di considerazione sono la maniera in cui, sotto l’influenza del dialogo, gli angoli di ripresa sono stati svalutati e le scene allungate, rinunciando in tal modo alle potenzialità del montaggio; il modo in cui gli attori usurpano lo spazio dell’immagine e il plot si atrofizza a favore del dialogo. Ciò che è cominciato con il film sonoro, sarà portato a compimento dal colore, dalla tridimensionalità, dal formato ampio, così come dalla“trasmissione in diretta” di scene reali via TV.
Sfortunatamente la maggior parte dei critici non è consapevole dello stato delle cose. Si rende conto che il cinema è artisticamente improduttivo ma non capisce che ciò è inevitabile. Incolpa singoli produttori o registi, come se la possibilità di realizzare buoni film sonori esistesse davvero.
Uno dei compiti del critico cinematografico di domani – quando forse verrà chiamato “critico televisivo” – dovrà essere quello di liberare il mondo dalla patetica figura rappresentata oggi dal critico medio e dal teorico di cinema: costui vive nella gloria delle proprie memorie come l’attrice di vecchia fama settantenne rovista foto ingiallite e cita nomi dimenticati da tutti. Discute con gente della sua stessa risma di film che nessuno ha più visto da almeno dieci anni, e dei quali può quindi dire tutto e il contrario di tutto; dibatte di montaggio come gli studiosi medievali dibattevano l’esistenza di Dio, nella credenza che tutte queste cose possano tuttora avere un senso. La sera siede assorto in sala, critico amante dell’arte, come se vivesse ancora all’epoca di Griffith, Stroheim, Murnau e Eisenstein. È convinto di star vedendo brutti film e non si rende conto che ciò che vede non è più nemmeno un film.
Tutti questi studi teorici sarebbero magnifici se venissero condotti consapevolmente come ricerca storica o puramente teorica. Ma diventano risibili nel momento in cui vengono presentati agli odierni produttori cinematografici in quanto modelli, come accade di norma. Sappiamo bene che occasionalmente – è questo sarà vero anche nel futuro – grazie a un avanguardista, a un cineasta amante del passo ridotto o a un coraggioso documentarista, i veri film vengono ancora realizzati; ma il lavoro di un critico non è occuparsi di questi casi eccezionali. Deve invece confrontarsi con la produzione di tutti i giorni, che può essere sottoposta a critica estetica solo qualora ricada – per principio – in campo estetico: ovvero quando si manifesta la possibilità di creare un’opera d’arte. Un tempo i buoni film differivano da quelli mediocri solo per quanto concerneva la loro qualità. Oggi rappresentano le eccezioni, gli outsider, oggetti di una natura radicalmente differente da quella che si manifesta normalmente al cinema.
Di questi tempi, dal momento che qualcosa deve pur scrivere, più di un critico cerca riparo nell’ironia. Si abbandona a battute più o meno divertenti e ad analisi dettagliate riguardanti le prove degli attori – ma davvero non ha di meglio da fare? Non c’è dubbio. Il critico cinematografico di oggi deve tenere a mente il suo secondo grande compito, un compito che ha sempre avuto ma che raramente ha svolto, sostenendo, per scusare la propria negligenza, che la critica estetica richiedesse uno spazio e un interesse più ampi di quelli che gli venivano forniti. Ci riferiamo all’esame del film in quanto prodotto economico, e in quanto espressione di punti di vista politici e morali.
I film vengono fabbricati come merci d’uso con l’intento di guadagnare più soldi di quanti ne siano stati spesi per realizzarli, dunque vengono fatti in modo da essere fruiti da più consumatori possibili. Non di meno, ci sono sempre stati casi in cui il produttore/fabbricante ha lasciato all’artista una certa libertà nella scelta del materiale e nel suo utilizzo, con la speranza che – a causa di ciò o nonostante ciò – il film si rivelasse un successo finanziario. Ma ogni impresa d’affari si sforza di perfezionare se stessa, di eliminare qualunque fattore incontrollabile, e la produzione cinematografica ha progressivamente trasformato l’artista in un mero esecutore, costretto a produrre ciò che il produttore gli impone, sulla base del suo affinato sentore riguardo “ciò che vuole il pubblico”. Ci riferiamo, qui, alla più evidente categoria di attuali produzioni cinematografiche di stampo commerciale, principalmente americane, dove fanno eccezione quei casi in cui autorità, organizzazioni e governi cercano di imporre impulsi ulteriori a quello commerciale. Nella produzione industrializzata, il film è caratterizzato più dalla compagnia che lo produce che dal suo regista. I nuovi registi sono sempre meno distinguibili gli uni dagli altri, così come lo sono i nuovi attori.
Il tipico critico cinematografico di oggi probabilmente riconosce questa situazione in teoria, ma in pratica critica lo stile di George Cukor e si sofferma sulle peculiarità psicologiche di Joan Crawford, senza comprendere che queste creazioni, se anche la natura le avesse dotate di una qualche individualità artistica, sono predestinate, nella pratica, alla più completa dipendenza. Il regista viene accusato di non lavorare a sufficienza sugli elementi caratteristici del background offerti dallo script; l’incontro tra un certo regista e un certo attore viene accolto come un evento artisticamente motivato, così che tale evento merita di essere studiato e valutato. In un saggio apparso di recente su queste pagine (a sua volta caratterizzato da tracce ben precise di genuine relazioni casuali), niente meno che un regista come Mamoulian veniva accusato di essersi lasciato influenzare dalla “vanità innocente” di Greta Garbo. Più o meno contemporaneamente, in un’intervista apparsa su una rivista tedesca, Greta Garbo ha detto:“Se sono soddisfatta del film su Christina? No, affatto: come potete pensarlo? Se avessi avuto un minimo di voce in capitolo sarebbe stato completamente diverso. Ciò che uno desidera non si avvera mai. Non reciterò mai il ruolo che ho sempre sognato”. In questa sede non ci preoccupa difendere la Garbo, ma piuttosto asserire che tale film poteva essere realizzato esclusivamente nella maniera in cui è stato realizzato da quel regista e da quella attrice, che si trovassero in entusiastico accordo o in una relazione di condivisione forzata. In genere, non si può fare altro che accusare un’artista di essersi svenduto a tali metodi produttivi. Dunque il giudizio riguardo un film come risultato del libero lavoro di un artista, come un libro o un dipinto, ha a che fare con lo stato degli affari – perché oggi anche una regina tra le attrici non è in grado di decidere quale angolo delle proprie sopracciglia dovrà essere depilato.
Anche l’approccio al film storico è ugualmente inadeguato. Si mettono in luce le divergenze con i fatti reali, e lo sceneggiatore, il regista o il produttore vengono giudicati come se avessero studiato poco e male, come se si fossero distaccati dalla verità per puro capriccio, dimostrando una mancanza di conoscenza e oggettività, forse dovuta alla volontà di portare avanti una particolare idea artistica o accademica – proprio nella stessa maniera in cui vengono criticati gli autori di un dramma, di un romanzo storico o di uno studio accademico. In realtà, il produttore, consigliato da esperti e con un fornitissimo archivio a disposizione, conosce i fatti storici persino meglio dei critici ma non si sognerebbe mai di mettere in campo i propri stati d’animo, la propria mancanza di giudizio o la propria interpretazione personale nella realizzazione del film. Una fabbrica non è il luogo adatto per tali esternazioni. Qualunque alterazione ai fatti storici rappresenta, piuttosto, una misura economica oculatamente calcolata, studiata per rendere il film più attraente, eccitante e avvincente agli occhi del pubblico, nella stessa maniera in cui vengono adattate al cinema le opere teatrali o i romanzi. C’è meno capriccio all’opera in questi film che nei lavori di molti artisti e scienziati. I film sono studiati secondo regole comprovate e tutto è finalizzato al medesimo proposito, dalla stesura del plot ai gesti compiuti dall’eroe.
Finché il critico dimostrerà di non rendersi conto di tutto ciò, o non lo ammetterà, il suo lavoro sarà inutile. Continuerà a essere inutile finché tributerà lodi o critiche a singoli individui o casi individuali, senza rendersi conto che i film vengono realizzati sulla scorta di regole basilari.
Prima regola: il film sonoro come forma di rappresentazione preclude la creazione artistica.
Seconda regola: il film è prodotto in quanto merce in modo da poter essere venduto nella maniera più semplice possibile.
Terza regola: il film non è tanto l’espressione di opinioni individuali quanto di visioni politiche e morali generali.
Per quanto riguarda il terzo punto, va ricordato che in quei Paesi retti da particolari dottrine i governi guardano al contenuto politico e morale del film in maniera molto utilitaristica. Sfortunatamente i critici non hanno ancora imparato a fare altrettanto. Non vedono, per esempio, che il film medio americano, ai loro occhi banale e artisticamente insignificante, diventa interessante nel momento in cui viene considerato esemplare di ciò che attira le masse. Sia che un film venga realizzato da un produttore per allettare l’inconscio collettivo, o che sia il frutto della propaganda di un’autorità politica, il compito di un critico dovrà sempre essere, oggi come domani, quello di analizzarne i contenuti e valutarli in maniera positiva o negativa.
Il film è uno dei più singolari mezzi espressivi e uno dei più efficaci strumenti di influenza del nostro tempo. Non sono solo gli individui a giocarvi una parte ma intere classi sociali, popoli e governi. Il critico cinematografico di domani dovrà prenderne atto. Quello di oggi, sfortunatamente, si comporta troppo frequentemente come se il cinema fosse un piccolo teatro lussuoso nel quale una manciata di artisti recitano in autonomia per pochi amanti dell’arte. Sfortunatamente, il critico cinematografico di oggi appartiene già a al passato.
(traduzione di Alessandro Stellino)
[Pubblicato originariamente in Intercine, 8-9: numero speciale per la “III Mostra internazionale cinematografica”, agosto-settembre 1935, Edizione internazionale; Ripubblicato in Filmcronache, 1/2005 e in I baffi di Charlot, a cura di Adriano D’Aloia, Kaplan, 2009]