Se non fosse stato per Amos Vogel forse non avremmo mai scoperto Allan King. Il suo film più celebre, Warrendale (1967), non viene schedato all’interno di Il cinema come arte sovversiva, ma accanto a immagini tratte da Freaks, L’invasione degli ultracorpi, Porcile e Onibaba – in linea con l’eclettismo che caratterizza la ricerca e il percorso di Vogel – compare anche una foto sgranata e in bianco e nero di una adolescente in lacrime. Lo sguardo della ragazza è triste e sconsolato come solo certi sguardi dell’adolescenza possono essere, gli occhi umidi e svuotati di qualunque altra cosa che non sia il dolore. Vogel commenta così l’immagine: “scena tratta da uno dei film più scioccanti mai realizzati, interamente girato in un istituto per ragazzi emotivamente disturbati, rifiutato sia dalla BBC che dalla TV canadese perché considerato ‘troppo sconvolgente’. La scena in questione infrange uno dei tabù del cinema: quello delle lacrime vere”.
Vogel non è un teorico e, da questo punto di vista, il suo sguardo non coincide con quello di Bazin, che teorizza l’irrappresentabilità del sesso e della morte (o della nascita, cui Vogel dedica un intero capitolo di Il cinema come arte sovversiva): da marxista, è consapevole del fatto che l’infrazione del tabù è connaturata al sistema dominante che, abolendolo, lo trasforma in qualcosa di non più minaccioso o stimolante. E in quanto umanista è assolutamente convinto che l’umanesimo sia un altro dei grandi tabù della nostra società (e, di conseguenza, del cinema): ribaltando in tal senso l’assunto di Bazin, Vogel chiama in causa i film che affrontano a viso aperto la natura più profonda dell’essere umano – siano pure il sesso e la morte –, conscio che si tratti della materia d’indagine più radicale e che ogni sovversione “è principalmente una sovversione della consapevolezza”.
Per Vogel il mistero della vita e il mistero del cinema coincidono. E nessun regista ha raggiunto questa consapevolezza più di Allan King.
Non è un caso che il nome di King sia pressoché sconosciuto, non solo tra gli studiosi e gli appassionati, ma anche tra i conoscitori del cinema documentario (persino nei reference book se ne trova poca traccia). E non è solo un problema di circolazione dei film – in pochi li hanno effettivamente visti, al di fuori dei confini nazionali canadesi: alla base del suo cinema c’è la volontà di affrontare un dilemma difficilmente solvibile che, proprio per la sua natura fondante, è destinato a rimanere tale. Ma l’oblio che regna intorno a questo filmmaker ha più a che fare con l’impossibilità di incasellare la sua opera all’interno di confini ben definiti e contrassegnare d’autorialità ogni sua prova registica.
King è principalmente un documentarista, ma un documentarista che ha girato (anche) film di finzione e che ha fatto recitare persone comuni nei propri documentari. Il regista non ha mai fatto mistero del proprio approccio alla materia filmata, non ha mai nascosto l’intento di dare una forma narrativa ai propri documentari né ha mai pensato che la macchina da presa dovesse essere invisibile. A essere invisibile doveva essere lui stesso. Escludendo la propria presenza dal set, in qualche modo consegnava la regia dell’azione ai propri “personaggi”: “per quanto mi riguarda, accade sempre che le persone riprese si servano della macchina da presa e della situazione ai propri fini. Non si tratta di una cosa ambigua, quanto della volontà di essere compresi, di condividere la propria esperienza, se non addirittura di comprenderla a loro volta”. Attribuendo in toto l’ambiguità alla forma espressiva utilizzata (il cinema-vérité – o candid eye, secondo l’accezione canadese), King ne dispensava le persone riprese, e se stesso.
1. il contesto non è il problema
C’è una scena in A Married Couple (1969), in cui Antoniette piange tra le braccia di Billy, suo marito. Siedono entrambi sul divano e, nonostante il primo piano strettissimo, non sentiamo le parole che si sussurrano, coperte dalla musica classica diffusa dal giradischi. Lei è affranta, lui impassibile. La sequenza non ha luogo dopo uno dei tanti litigi che puntellano la relazione della coppia ma a seguito di un party in cui la donna ha flirtato con un altro uomo causando l’infastidita reazione del marito. Le due scene sono montate una di seguito all’altra e il lasso di tempo mancante viene inevitabilmente ricostruito dallo spettatore come il momento in cui il marito ha rimproverato alla moglie il proprio comportamento, scatenando l’ennesima lite. Le due scene – la festa e il pianto – potrebbero essere state girate a distanza di un giorno o di una settimana, per quanto ne sappiamo, e non possedere nessuna connessione causale. Forse i due non hanno nemmeno litigato, quella sera, una volta tornati a casa, ma è così che ci piace pensare che sia andata. Che importanza potrebbe avere conoscere il motivo delle lacrime? Sarebbero forse meno reali? In casi come questo King non opera una mistificazione del reale: dimostra che ogni sua rappresentazione mette in gioco una mistificazione delle nostre attese.
È evidente che affinché tutto ciò sia possibile, ancor prima che e(ste)ticamente condivisibile, ci deve essere una coincidenza di intenti da parte di regista e soggetto filmato. Entrambi desiderano la stessa cosa e se il regista gira un film come se fosse un documentario (ma sarebbe valida anche l’affermazione contraria), i suoi “attori” recitano la propria parte – se stessi – come se il documentario che li ritrae fosse un film. D’altra parte, è impossibile dubitare della veridicità delle liti tra i due coniugi: la prima, lunghissima e senza stacchi, avrebbe potuto scriverla il miglior Bergman, e la seconda, con i due che vengono quasi alle mani – la donna strepita e l’uomo la scaraventa fuori dalla porta di casa, con inaudita violenza – è talmente carica di tensione da risultare quasi insostenibile. King conosce alla perfezione le dinamiche di coppia (e di questa in particolare) e si serve dei coniugi Edwards allo stesso modo in cui essi esibiscono la propria personalità di fronte alla macchina da presa. Sono attori? Certo, se avere una precisa consapevolezza del proprio “ruolo” sociale significa anche interpretarlo.
“La coppia scelta per questa visione al microscopio non è ‘tipica’. Il marito è spiritoso, arguto e fa il copy-writer, la moglie è intelligente e bene educata. Gli oggetti di cui si circondano – il mobilio moderno, i dischi dei Beatles, l’auto d’importazione – sono sintomatiche del loro essere al passo coi tempi e benestanti. La loro attitudine mentale, le loro idee libertarie, la difesa dei diritti della donna contro l’autoritarismo maschile, sono anch’essi uno scenario noto. Sono entrambe persone facilmente irritabili, interessate all’esplorazione di nuove esperienze – ovvero quello che ci si potrebbe aspettare da una pittrice e da uno scrittore. Ma ad essere fondamentale è la loro consapevolezza che il matrimonio sia in crisi, al di là del semplice rapporto conflittuale tra i loro caratteri. Il loro intento primario è stato prendere parte al film con la speranza di giungere al cuore del problema e comprendere come modificare la situazione. Ecco perché hanno insistito per visionare tutto il girato. Avevano un obiettivo molto nobile, a differenza di quello che ha pensato la gente. Il loro coraggio nel mettersi in gioco è stato straordinario”.
I problemi della coppia vengono interiorizzati a tal punto che l’istituzione del matrimonio non viene mai criticata, come se i due vivessero all’interno di una bolla: “il contesto non è il problema” dice Billy alla moglie, a un certo punto, “le regole della società non sono il problema di questo matrimonio. Il problema siamo io e te”. Billy e Antoniette non sono altro che i protagonisti del precedente Running Away Backwards (1964), tornati in Canada dopo l’esilio dorato a Ibiza, problematici e disillusi. Tra i film girati prima di Warrendale, si tratta dell’esperimento più vicino all’elaborazione dei successivi “actuality drama”: al centro della comunità di espatriati ritratta c’è la figura di uno scrittore loquace ed esibizionista che vediamo raramente all’opera e molto più spesso intento a propugnare la causa di un edonismo bohémien, tanto contagioso quanto malinconicamente naïf. King forza i confini della forma documentaria con meno abilità di quanta ne dimostrerà in seguito – nel suo essere costantemente sopra le righe, il protagonista risulta spesso poco credibile (“il suo declamare continuo una brutta imitazione dei proclami dell’avanguardia scritta”) – ma è soprattutto la ricognizione socio-culturale di un ambiente, a interessarlo, e l’idea del conflitto interiore tra aspirazioni di escapismo e necessità di appartenenza. Se il titolo ricorda il celeberrimo finale del Grande Gatsby di Fitzgerald (“e così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”), la chiusa del film, con il protagonista che salpa per fare ritorno a casa, conferma ulteriormente la visione di King secondo la quale è l’uomo stesso a crearsi le prigioni entro cui vive e dalle quali è incapace di evadere.
2. una società che ha bisogno di vittime
Nel film successivo, Come on Children (1972), una dozzina di ragazzi ha la possibilità di esaudire un desiderio condiviso: appartarsi dalla società che disprezza e vivere in una sorta di Eden comunitario in mezzo alla campagna, lontano dai genitori e dalle responsabilità imposte (esperimento di matrice opposta al contemporaneo Punishment Park di Peter Watkins). Anticipando il fenomeno dei reality show, King li riprende mentre parlano del più e del meno (nessun discorso sui grandi sistemi viene mai affrontato), fumano erba e giocano a farsi la guerra con le palle di neve. Nella casa regna il caos più assoluto, nessuno riordina, nessuno lava i piatti e – soprattutto – nessuno intende modificare la situazione. Quando la questione viene affrontata, in una cucina ingombra di pile di piatti colmi di cibo smozzicato, uno dei ragazzi si difende dicendo “io ho cucinato, l’altro giorno, qualcun altro dovrebbe sistemare questo casino”. Incapaci di argomentare, di prendere qualunque tipo di posizione che non sia di rinuncia, i ragazzi sono soprattutto incapaci di fornire un’alternativa allo stile di vita che detestano: nel finale, è la voce fuori campo di King (in una delle sue rarissime comparsate) a indagare speranze e desideri di uno dei partecipanti. Le risposte sono di una sconfortante vacuità: nessun orizzonte, nessun interesse, nessuna direzione precisa (“maybe get with whatever’s happening elsewhere”). La scrollata di spalle come atteggiamento di vita.
Nonostante il regista abbia sempre negato ogni intento critico nei confronti della gioventù ritratta (“li ho trovati molto gentili e divertenti e mi hanno insegnato molto”), lo spaccato che emerge è quello di un vuoto esistenziale profondo e senza scampo – e se uno dei ragazzi racconta come è riuscito a lasciarsi alle spalle la dipendenza dall’eroina, un altro si buca ripreso dalle telecamere. Come on Children meriterebbe di essere visto insieme al di poco successivo We Can’t Go Home Again di Nicholas Ray (1976), anch’esso a suo modo “documentario”: entrambi condividono la fine di un sogno (non solo americano), la descrizione amara e toccante di una generazione che si ritrova in mezzo alle macerie di un mondo disintegrato nei valori e nelle certezze, l’impossibilità – fitzgeraldiana, ancora una volta – di tornare indietro per recuperare l’innocenza originaria.
Come in altre occasioni, King è interessato a sondare il divario che separa le intenzioni dalla pratica, il modo in cui le persone dicono di voler vivere e quello in cui vivono. Non è il cinismo, a spingerlo, né la volontà di mettere alla berlina la fragilità umana: al contrario, è il desiderio di comprendere e accettare tale fragilità, lo sfasamento tra gli intenti e l’operato di ognuno, in quanto fattore profondamente umano, come se la consapevolezza di ciò stesse alla base di ogni ulteriore indagine della natura umana.
Nella rete di rimandi interni alla filmografia di King, non è difficile vedere i ragazzi di Come on Children come i fratelli maggiori dei bambini e degli adolescenti di Warrendale.
Realizzato in un momento cruciale per la storia del documentario – coevo a The War Game di Watkins e Titicut Follies di Wiseman –, si tratta di una pietra miliare del genere e accostarlo al film di Wiseman può avere senso per comprendere ancora meglio gli intenti alla base del lavoro di King. Diversamente dal regista americano, infatti, il canadese non si serve delle istituzioni per mostrare come, in fondo, ogni microcosmo riproduca il macrocosmo sociale, con tutte le sue regole, dinamiche e storture; nei film di King, gli ambienti – l’abitazione degli Edwards in A Married Couple, l’istituto di Warrendale, la casa nel bosco dei ragazzi di Come on Children, così come gli ospedali e le cliniche dei successivi Dying at Grace (2003) e Memory for Max, Claire, Ida and Company (2005) – costituiscono le tappe di un viaggio che comincia in tenera età e termina con la vecchiaia e la morte, scandito dai luoghi che contrassegnano i diversi momenti della vita. Un percorso di tipo temporale e non spaziale, la mappatura non di un sistema economico, sociale e di interrelazioni, ma di un’esperienza, tanto individuale quanto collettivo.
A King l’istituzione in sé non interessa particolarmente: gli organismi istituzionali in quanto tali non vengono mai messi in discussione, né quando si affronta il problema dell’alcolismo in Skidrow, né quando si fanno i conti con la disoccupazione in A Matter of Pride. Anzi, di norma, sono visti in una luce positiva (a differenza di quanto accade nei film di Wiseman): sono figure bonarie i medici di Dying at Grace e gli interlocutori sindacali di Who’s In Charge? (1983), e difficilmente si potrebbero immaginare persone più dedite al proprio lavoro e agli altri di quelle componenti lo staff di Warrendale, alle prese con un gruppo di ragazzi aggressivi tanto a livello fisico che verbale, dall’umore instabile e dal perenne malcontento. Basterebbe, per tutte, la scena in cui il più piccolo dei “ricoverati”, Tony, sputa ripetutamente in faccia alla donna che lo tiene stretto tra le braccia (secondo la pratica utilizzata per calmare i ragazzi nell’istituto: “holding”, una forma di contenimento che implicava l’immobilizzazione dei soggetti da parte degli assistenti). O quella, impressionante, in cui l’annuncio della morte della cuoca dell’istituto causa, dopo un momento di attonito stupore, una crisi collettiva fatta di strepiti, urla, pugni, calci e sedie e tavoli rovesciati.
Tra tutti i film di King, Warrendale è quello che ha causato più scalpore, ricevendo accuse di ogni tipo, principalmente di sfruttamento. E se il rifiuto alla messa in onda del film da parte dello stesso canale che l’aveva commissionato era apparentemente dovuto al linguaggio offensivo utilizzato dai suoi giovani protagonisti, la verità è che si rimproverava al regista di aver esposto al pubblico sguardo bambini traumatizzati, senza riguardo per la loro condizione. Ovvero, di aver mostrato i ragazzini in cura a Warrendale per quello che erano: persone come tutte le altre, solo più fragili, complicate e indifese. King non ha mai fatto film allo scopo di rendere più gradevoli agli occhi dello spettatore i soggetti ripresi: non ha mai cercato di convincerci che i bambini di Warrendale sono “normali” o che l’Alzheimer non implichi un disagio profondo, tanto in chi ne soffre quanto nelle persone ad esse vicine. Ci ha fatto sentire più vicini ai coniugi Edwards proprio perché li ha mostrati pieni di difetti. Allo stesso tempo, ha fatto sì che ciò che di profondamente umano c’è in loro fosse immediatamente riconoscibile: è riuscito a creare il pathos non a partire da quanto ci accomuna agli altri ma da quanto ci differenzia. Ed è proprio questo tipo di identificazione ad essere problematica: se gli internati di Titicut Folies ci fanno capire che in qualunque luogo vigono le medesime sovrastrutture, i bambini di Warrendale ci ricordano che all’interno di ogni sovrastruttura vige la stessa umanità. Perché il pianto della ragazza in cura a Warrendale non è diverso da quello della donna il cui marito ha appena perso il lavoro in A Matter of Pride o dalla moglie di Billy in A Married Couple.
Consapevole del fatto che “la società ha bisogno di vittime”, King sottrae a tale condizione tutti i soggetti che filma e garantisce loro un’autorità che, in molti casi, non hanno mai avuto. Autorità che non è tanto legata alla resa di una testimonianza quanto all’accettazione del proprio stato: attraverso la “messa in scena” operata dal regista ha luogo lo svelamento di quella mistificazione riguardante le attese dello spettatore nei confronti della materia filmata, ancor più radicata quando chiama in causa la “realtà”. Mai ricattatorio, King complica e arricchisce la consapevolezza di ciò che è umano. Come aveva ben compreso Vogel, non ha paura di mostrare le lacrime perché sa che il pianto ci accomuna tutti, e restituendo ad esso la sua natura “fondante”, restituisce dignità alle lacrime, e all’uomo.
3. filmare la morte: un atto di grazia
Lungi dall’avere intenti didattici, King non ha mai fatto mistero del fatto di girare i film in primis per se stesso.
“Credo di essermi accostato al documentario per esplorare le mie convinzioni attraverso quelle degli altri. Mi è capitato spesso di pensare di avere le idee chiare riguardo i miei sentimenti e di rimanere sorpreso nello scoprire che non era così. Le mie emozioni mi hanno colto spesso di sorpresa – sono da sempre facilmente incline al pianto e alla rabbia – forse perché per lungo tempo sono stato una persona molto chiusa e abile a nascondere i propri sentimenti soprattutto a me stesso”.
Nelle interviste, King ripete spesso quanto una certa persona o gruppo, una certa situazione presentatasi all’interno dei suoi film l’abbia aiutato a comprendere qualcosa di se stesso e della vita. E ciò è ancora più evidente nell’esaminare le opere della maturità quando, dopo due decenni di episodi per la TV (da Alfred Hitchcock Presents a Kung Fu: The Legend Continues, passando per The Twilight Zone e Friday the 13th: The Series) e un solo documentario, The Dragon’s Egg (1998 – sul conflitto in Estonia), King torna definitivamente al genere che ha amato di più con due film dedicati alla tarda età. In Memory for Max, Claire, Ida and Company segue otto anziani ricoverati in un istituto per malati di Alzheimer; in Dying at Grace racconta gli ultimi mesi di vita di cinque malati terminali. Nel corso di quasi tre ore, tutti e cinque muoiono, due dei quali di fronte alla macchina da presa che, imperterrita, filma gli ultimi istanti di vita di una donna che ha rifiutato le cure e di un giovane affetto da tumore al cervello. Si tratta di una visione sconvolgente, dopo la quale niente è più lo stesso: è un film che, una volta visto, non si ha più voglia di rivedere, eppure mai, nemmeno per un istante, si ha il dubbio di avere assistito a qualcosa di eticamente riprovevole. Ancora una volta – e più che mai – King compie il miracolo di mostrare un evento della vita esattamente per quello che è, senza edulcorarlo o drammatizzarlo, senza dissolvenze, senza farci simpatizzare con le persone e forzare l’immedesimazione con esse. Questa è la morte, ci dice King, e vale per tutti. Si può morire da soli in una stanza d’ospedale o in mezzo alle persone amate, ma si muore comunque così, dopo un’infinità di rantoli, cupi gargarismi cavernosi, la cui frequenza nel tempo si dilata sempre di più finché giunge l’ultimo, e la bocca rimane spalancata, gli occhi socchiusi.
Il tabù di bazianiana memoria – l’irrapresentabilità della morte – è abbattuto ancora una volta e una volta per tutte. Dying at Grace è il compimento, oltre che di una carriera, anche di un percorso umano e personale. La ricerca di King – che scomparirà qualche anno dopo, nel 2009 – si conclude nella maniera più logica e naturale, nel confronto con il mistero più grande e con l’accettazione della morte (ben diversi sono, per tornare a Wiseman, gli intenti di Near Death [1989] un film non tanto sui malati terminali quanto su i medici curanti, i familiari dei pazienti e, di fondo, le relazioni interne alla struttura ospedaliera, come già in Hospital [1969]). Per mezzo di pochissime pennellate, distribuite con grande sensibilità all’interno di una quotidianità fatta di esami clinici, visite e tanta solitudine, il regista canadese ci mette di fronte all’ineluttabilità e universalità della morte, di fronte alla quale non siamo tutti uguali ma, anzi, manteniamo ciascuno la propria identità, le proprie speranze e i propri risentimenti, i propri rimpianti e la propria dignità nell’accostarci alla fine. Ancora una volta, i protagonisti dei suoi film vengono mostrati nell’attimo di fragilità che conduce al pianto e lo spettatore è costretto a fare i conti con il fatto che, in prossimità della morte, tutto ciò che è dentro di noi non viene lavato via “come lacrime nella pioggia” ma resta dentro, fino all’ultimo, privato e inconoscibile, e le lacrime, come in qualunque altro momento della vita, sono solo una delle tante forme di espressione della nostra umanità.
Più della morte e della sua rappresentazione, sembra voler dire King nell’ultima fase della sua carriera, si deve aver paura di ogni mistificazione legata alla sua rappresentazione o, peggio ancora, della sua rimozione. Ecco perché uno dei momenti in assoluto più toccanti della sua filmografia è quello in cui a Ida, una delle protagoniste di Memory for Max viene comunicata la morte di Max, suo vicino di stanza e compagno di tante giornate trascorse insieme, e non una ma tante volte per ciascuna di quelle in cui lei dimentica di essere già stata messa al corrente del fatto. Il giorno dopo, una settimana o un mese più tardi, Ida ancora si chiede che fine abbia fatto il suo amico Max, non vedendolo arrivare per il consueto appuntamento pomeridiano, e la notizia della sua morte causa sempre lo stesso sgomento, la stessa pena, lo stesso immenso spaesamento, ripetuto all’infinito. Il vero terrore, allora, non è vedere il torero morire ogni pomeriggio, come sosteneva Bazin, ma dimenticare di averlo già visto morire. Comprendere che la solitudine è ancora più grande nel momento in cui non possiamo più contare nemmeno sulla nostra memoria, sulla certezza di sapere chi siamo e com’è il mondo che ci circonda.
Ecco il lascito di questo autore che ha indagato la natura umana con onestà intellettuale e desiderio di conoscenza. Grazie a King impariamo che ogni nostro simile è diverso da noi ma condivide lo stesso destino, urla, lotta e si dispera per gli stessi motivi, affronta gli stessi problemi e cerca le stesse verità. E comprendiamo che, in mano a un grande regista, la macchina da presa ha il potere di conferire dignità a qualunque condizione dell’essere umano, e non di togliergliela.