Un uomo attraversa boschi e prati con uno strano carico sulle spalle: un materasso gonfiabile, una griglia d’alluminio, quattro taniche di plastica bianche. Il tutto gli servirà per assemblare, arrivato ad un laghetto, una rudimentale zattera su cui si mette a pescare placidamente. Mentre la corrente altrettanto placida lo trascina verso i bordi del quadro, l’uomo galleggia in una bolla di tempo tutto suo, un’isola la cui felice e distesa autosufficienza sembra così remota a chi vive freneticamente un festival o una città, ma che la cinepresa di Rivers, con i suoi tempi serenamente geologici, riesce a distillare alla perfezione.
Jake Williams è già entrato da tempo nella vita e nel cinema di Ben Rivers, che ha girato con lui This Is My Land (2006) e da allora passa spesso a fargli visita al suo eremo in Scozia, un cottage che Williams si è costruito da solo alla fine degli anni settanta, grazie ai risparmi di due anni di servizio sulle navi, da cui il titolo Two Years at Sea. Per il resto, il mare che circonda la vita isolata di Jake è la natura selvaggia della foresta di Clashindaroch, il paradiso sperduto che circa trent’anni fa ha scelto come sua erratica dimora: costruendo il proprio idillio in mezzo a un ispirato bricolage di rottami e scarti, Jake ha marcato il proprio territorio all’insegna di una vitale incompiutezza, una permeabilità tra il suo caotico intérieur e l’avvolgente apertura del paesaggio che gli consente di essere a casa in ogni punto di questo spazio deterritorializzato. I suoi frequenti vagabondaggi si muovono in quest’orbita ibrida e vacillante, un intreccio metonimico fra costruzione umana e produzione naturale che può ricordare il “terzo paesaggio” teorizzato da Gilles Clement. La disconnessione spaziale e temporale operata da Jake è dunque indice di un consapevole nomadismo, che non ha niente a che fare con la segregazione sociale: il silenzio e la solitudine che lo avvolgono nel film, dice il regista, contrastano decisamente con l’animazione del cottage nella realtà, privo di elettricità, ma scaldato dalle frequenti visite degli amici, dalle serate a base di whisky e chiacchiere al buio che Ben ha tante volte passato con Jake.
Questo è il primo degli aspetti interessanti del lavoro di Rivers: il registro osservativo può dapprima ingannare, ma Two Years è tutto fuorché un documentario sulla vita di Jake, anche se molte delle situazioni in cui lo vediamo coinvolto appartengono al suo quotidiano, si tratta sempre di una rimessa in scena filtrata dall’immaginazione del regista. La storia personale rimane avvolta nel mistero del suo silenzio, cristallizzata in modo imperscrutabile nelle foto che scandiscono i capitoli del film, oppure sublimata in situazioni sottilmente visionarie. Un surrealismo pacato, understated, che vibra nell’inquadratura in cui una roulotte si arrampica misteriosamente tra le fronde degli alberi: svegliatosi, Jake apre lo sportello e si affaccia a contemplare il mondo dalla cima di un pino. Il distacco dalla terraferma della civiltà, lo scarto di punto di vista innescato dalla scelta di Jake, prendono una forma leggera, immune da qualsiasi pesantezza metaforica, in questa immagine, che nella sua folle semplicità fa quasi pensare a una versione casalinga e dimessa della titanica impresa di Herzog in Fitzcarraldo. Per quanto sembri azzardato avvicinare un battello issato sui rilievi della foresta peruviana alla roulotte scassata di un vecchio hippy, è difficile non percepire la nota herzoghiana che echeggia da alcuni anditi del cinema di Rivers. Lo smarginare tra fiction e non-fiction, la manipolazione più figurale che narrativa del materiale documentario, così come la sovrapposizione di un registro narrativo o atmosferico di derivazione fantascientifica, lo sguardo anacronistico che riesce a fondere delicatamente la storia umana in quella naturale, tutti questi sono senz’altro punti di contatto fra i due. Ma l’approccio del regista inglese si distingue per la silenziosa prossimità con i suoi soggetti, per un’esplorazione affascinata e discreta della natura e dell’umano, asciugata dal pessimismo cosmico e dalla tensione romantica che segna l’opera del tedesco. Il problema della Creazione, della sua origine e del suo destino, viene depurato dagli accenti tragici, spostato su un piano più pragmatico dove l’inesauribile creatività dell’uomo e della natura tornano a dialogare entro uno spazio e un tempo postumi: Rivers sembra filmare le sue figure nel paesaggio di un’Arcadia residuale, come rovine edeniche che affiorano dopo l’Apocalisse. E anche se da questo è facile tracciare collegamenti con gli scenari di Fata Morgana, Apocalissi nel deserto o Wilde Blue Yonder, lo scarto è sottile, ma fondamentale: basterebbe comparare il modo in cui Ben riprende Jake con quello in cui Herzog inquadra Kinski per comprenderla al volo.
Se è comunque probabile che Herzog resti un nume familiare per Rivers, è invece palese la sua distanza siderale dal trascendentalismo nichilista di Into the Wild: nessuna frontiera, nessun ritorno alle origini ossessiona il suo interesse per personaggi come Jake o come S., il solitario inventore darwinista ritratto in Origin of the Species (2008). Si tratta piuttosto della visione di un presente-futuro in cui all’incombere della catastrofe si accompagna la fiducia in una sopravvivenza magari bizzarra, ma possibilmente felice, dove weirdness dello stile di vita e wilderness dell’habitat si compenetrano in un’utopia pragmatica, realizzata coi frammenti scampati al naufragio. Non a caso, in un’intervista per Mousse, il regista cita Galapagos di Kurt Vonnegut (accanto al Viaggio di un naturalista intorno al mondo di Darwin) tra le fonti di ispirazione per il suo progetto dell’anno scorso, Slow Action, quattro frammenti di una virtuale enciclopedia delle società utopiche costruite sulle isole sorte dopo l’innalzamento del livello degli oceani. La vita beata delle foche-umane di Vonnegut, che popolano le isole che folgorarono Darwin e guardano con attonito disappunto alla distruzione causata dalla ragione perversa dei loro progenitori, ha la stessa funzione straniante delle descrizioni che lo scrittore di science-fiction Mark von Schlegell ha posto a commento alle immagini di Slow Action. L’isolamento come risorsa, come generatore di mutazioni che muovono la natura e la storia in direzioni imprevedibili, lontano dai tracciati teleologici dell’evoluzionismo volgare, in uno spazio di apertura e possibilità inesauribili, dove sopravvivenza e resistenza si liberano di qualsiasi connotazione passiva. In questo senso l’arcipelago di Slow Action è il complemento teorico al ritratto intimo di un uomo-isola come Jake.
L’anti-robinsonismo di Williams, il modo in cui si lascia invadere dal paesaggio e traccia in esso il proprio percorso esistenziale, il suo felice sprofondare nella materia che manipola, ha molti tratti in comune con la passione filmica di Ben Rivers, la sua dedizione artigianale alla pellicola, l’approccio crudo e sporco con cui la processa e l’assembla, lasciando palpitare nella sua grana pastosa le molecole di tempo raccolte e depositate durante l’avventura delle riprese. Gli aloni, i vapori, le crepe che sussultano sulla superficie dell’immagine, oltre che indici tangibili di un’orgogliosa autarchia casalinga, rendono la dimensione geologica in cui il reale si stratifica nella perfezione formale delle inquadrature, come uno sfregio salutare. Oltre che un omaggio sentito a un’esistenza e a un’amicizia, Two Years at Sea è anche un’ode alla Kodak PlusX, la pellicola 16mm bianco e nero di cui recentemente è stata purtroppo annunciato il blocco della produzione, spingendo Ben Rivers ad accaparrarsi gli ultimi preziosi esemplari. L’ottuso darwinismo dei formati rischia così di farci perdere il grezzo splendore di questo bianco e nero, dal quale Rivers riesce a trarre il massimo nelle sue studiate inquadrature, isolando e stilizzando grandi masse e minimi dettagli, accogliendo tutta la desolata maestà del suo paesaggio post-apocalittico nella distesa del formato anamorfico. Del resto non c’è da temere che l’estinzione del PlusX tolga terreno alla potenza visiva del filmmaker: la ricchezza cromatica di Origin of the Species e del recente Sack Barrow ci rassicurano sul fatto che anche la strada del colore riserva ancora tante occasioni di scoperta e godimento visuale. Benché la pellicola stia tornando come moda vintage nella pratica di molti artisti, la fedeltà al materiale di Rivers è immune da simili sospetti, dipende da opzioni teoriche ben precise e da un genuino gusto per il “lavoro sporco” che esso comporta. Le limitazioni e le traversie di questo lavoro fungono da metabolismo dell’opera stessa: l’intervallo spazio-temporale tra l’inscrizione fisica dei luoghi e dei corpi e la loro rivelazione magnificata (o abortita, anche questo fa parte del gioco) nel processo di sviluppo dona il ritmo e il respiro del lavoro. All’immersione estatica, divagante in un mondo altro, affidata all’occhio imperscrutabile della cinepresa, segue il distacco, il ritorno alla casa di Londra, nella quale il regista sviluppa e stende ad asciugare gli spezzoni incandescenti del suo viaggio, lasciandoli raffreddare: da lì può iniziare a montare, a costruire un altro mondo.
Nell’ultima splendida inquadratura il volto segnato di Jake si dissolve lentamente verso il nero, mentre il falò che lo illumina scoppietta le sue ultima battute. Ma siamo certi che in questa oscurità la fiamma del cinema brucia ancora.