Dopo Amir Naderi un altro cineasta enuncia al Lido la propria ricerca della purezza del cinema. Si tratta del filippino Lav Diaz, che, in Siglo ng pagluluwal (Century of Birthing), espone il suo credo estetico tramite uno dei personaggi, quello del regista, un alter ego simile a lui anche nell’aspetto. Se ai nostri giorni non siamo in grado di dare un significato alla parola “essere”, citando Heidegger, il cinema puro lo rappresenta. Lav Diaz firma anche un manifesto artistico: il suo doppelgänger è alla ricerca della verità, il cinema è la sua ideologia e, bürchanamente, la sua prassi. Fa film come se li sognasse e, in questo senso, si può stabilire un parallelismo (uno dei tanti) con l’altro subplot del film, quello sulla setta religiosa che fa il lavaggio del cervello ai suoi adepti, così come Lav Diaz mesmerizza i propri spettatori. Nella stanza del protagonista campeggia il poster di Che ora è laggiù? il film di Tsai Ming-liang che getta un ponte ideale con la Francia e Truffaut/Antoine Doinel. Dichiara la dignità tanto dell’arte “alta” come di quella “bassa”: Lino Brocka vale quanto Carlo J. Caparas, il fumettista ideatore dei supereroi filippini. Quello che detesta, con tutta la sua forza, sono i festival: davanti a una bancarella di scarpe, lo vediamo litigare animatamente al cellulare con il direttore di un’importante manifestazione cinematografica francese. Capire a chi si riferisce non è difficile.
Ma soprattutto il cinema è ricreare e reinventare i nostri ricordi. Questo è il lavoro di Diaz: giocare con i meccanismi della situazione, creare una tessitura di estrema complessità di personaggi, plot e subplot narrativi, tutti legati tra loro da esili fili. Tante scene apparentemente buttate lì che acquistano senso quando rapportate con altre, man mano che si dipana in film. Ecco perché le opere di Lav Diaz non possono che funzionare con le durate oceaniche per cui è diventato noto. Lo spettatore è chiamato a giocare un ruolo attivo, a mettere insieme i pezzi del puzzle, stregato dal potere ipnotico delle immagini in bianco e nero, di un’inquietante bellezza. Paesaggi naturali, risaie che diradano verso il mare, palme, villaggi. Ma quelle scene in bassa definizione? Ancora una volta siamo dentro al gioco in cui ci conduce Lav Diaz: solo dopo un po’ si scoprirà che le sequenze sfrangiate altro non sono che quelle del film nel film, in fase di montaggio.
Due sono i rami principali su cui si dipana la narrazione e da cui si dipartono una serie infinita di rami secondari e terziari. C’è il regista che sta girando un film con protagonista Angela Aquino, nome sia dell’attrice vera che del personaggio di Siglo ng pagluluwal, nella parte di una suora che vuole provare esperienze corporali e concedersi a un ex carcerato che aveva scontato una pena per stupro e omicidio; c’è poi tutto il mondo che gravita attorno alla setta fondamentalista cristiana di Padre Tiburcio. I parallelismi, le simmetrie, le specularità tra i due filoni narrativi si sprecano. La congrega e i suoi adepti sono oggetto dell’indagine di un fotografo, corrispettivo del regista che, come lui, lavora facendo interviste. E Padre Tiburcio è a sua volta un ex attore, i suoi sermoni sono un’autentica messa in scena dai lunghissimi preparativi – e alla fine questi si sgozza al grido di «W il teatro!». C’è poi tutta la sfilza di stupri/parti/aborti. Un’adepta della setta viene stuprata a fini salvifici da un amico, in modo che, non essendo più vergine, venga cacciata da Padre Tiburcio da cui era circonvenuta. Lasciato l’integralismo cattolico diventa una sciamana. La vediamo, incinta, urlare con un ramoscello in mano «Arrivano i giapponesi!»: una reminiscenza del periodo bellico che può alludere anche a rievocazioni cinematografiche, ricordando la “reiba” di Rashomon. Alla fine del film i due filoni, quello del metacinema e quello del fondamentalismo religioso, si incontrano. Il regista si imbatte nella sciamana che partorisce all’aperto, in un paesaggio incontaminato. Lav Diaz corona così nella natura la propria ricerca dell’essere heideggeriano.