Che tra i compiti del cinema odierno ci sia quello di aprire gli occhi sull’osceno è cosa dalla quale, di primo acchito, si potrebbe anche dissentire. Dopo tutto, di volgarità più o meno gratuite la nostra dieta (tele)visiva trabocca, e se qualcosa a riguardo ci si aspetta dal cinema, è piuttosto di far pulizia.
La questione è ancor più incalzante quando si parla di documentario. Checché si pensi infatti del famigerato carrello di Kapò, mi sembra evidente che porre limiti allo sguardo, per chi si propone di illustrare il reale, sia prima di tutto una faccenda di credibilità. Con buona pace della riflessione antropologica in materia, qui non si tratta tanto di rispetto verso i soggetti (umani), quanto di resistenza (umanista) verso le pulsioni scopiche che agitano il medium. Detto pianamente: ogni discorso cinematografico sul reale pone il problema della propria posizione rispetto a quelle dinamiche di mostrazione e spoliazione del visibile che sono – da Pirandello in giù – parte integrante della macchina cinema.
Inevitabile pensare a tutto ciò mentre si guarda l’ultimo documentario di Michael Glaswogger. Argomento pornografico per eccellenza, la prostituzione si sposa qui – perdonate il bisticcio – con un’approccio globalista non meno problematico. Lo studioso Giorgio Avezzù ha scritto in passato a proposito delle tentazioni di “trasparenza” di questo tipo di cinema, tentazioni assai prossime a quelle dinamiche mostrative cui poco sopra si faceva cenno. E in effetti, la scelta di articolare il film in tre parti distinte e giustapposte – Thailandia, Bangladesh e Messico – pare fin da subito sospetta, frutto di una poetica da Museo dell’Uomo rispetto alla quale non si può fare a meno di sentirsi a disagio.
In sottotraccia, al di là della semplice successione geografica e per così dire orizzontale degli atti, il film prova in effetti a dispiegare due dimensioni ulteriori. La prima è verticale. È un meccanismo di discesa, uno spunto simbolico capace di proiettare la giustapposizione dei capitoli in una sorta di catabasi. Questo ipotesto fantasma, per essere genettiani, si rivela in una serie di dettagli minimi: nell’insistenza delle quinte, nei carrelli a seguire, nella presenza iconica delle soglie. Una nekyia che trova il suo culmine nelle atmosfere sulfuree, tutte neon e alogena bianca, che segnano il conclusivo capitolo messicano. È allora, con il definitivo superamento della soglia e la performance sessuale mostrata integralmente, che il film tocca il proprio fondo simbolico e morale, e – nel farlo – si sporge verso la seconda dimensione ultieriore.
Non sarà infatti un caso che proprio in quel capitolo si accampi il tema della morte, attraverso le onnipresenti statue votive della Santa Muerte, e – per antitesi simbolica – nell’ultima sequenza di Natale. La traccia religiosa affianca e innerva Whores’ Glory a partire dal titolo, in una sorta di dimensione obliqua che illumina le sequenze, le trasfigura. Le ragazze thailandesi che pregano Dio di concedere loro molti clienti, quelle bengalesi che rifiutano il sesso orale perché “la bocca serve a recitare le Sure del Corano”. La Santa Muerte. È come un riverbero ancestrale, a tratti grottesco, a tratti straniante.
Ora, l’effetto combinato di queste due strategie – la nekyia e la traccia del paganesimo – riesce in effetti a tenere il film al riparo dal moralismo che spesso affligge il documentario sociale. Resta però il problema di come gestire quelle pulsioni scopiche di cui si diceva più sopra. Perché, se è vero che grazie alle suddette strategie sembra di assistere a una liturgia profana, più che a uno spettacolo di degrado umano, è pur vero che in questa liturgia noi stiamo come le donne nelle chiese medievali: seduti in alto, nel matroneo. Occupiamo cioè la posizione adatta a decifrare – per esempio – i sottotesti della colonna sonora, ricercata e rigorosamente occidentale. Una posizione studiata ad hoc per noi che non vogliamo scandalizzarci, ma nemmeno sentirci coinvolti. Per noi che vogliamo vedere tutto, ma non giudicare. Come etnografi: appunto.