IL FANTASMA DELLA CRITICA

Per una volta potremmo non fare le pulci a nessuno. Per una volta potremmo lasciare in pace i critici: che facciano il loro lavoro senza la petulanza del nostro sguardo sulla nuca. Altrimenti finiamo per fare la figura degli invidiosi, oltre che presuntuosi.
Per una volta potremmo parlare d’altro.
Di Natalia Aspesi, ad esempio.

Hemingway scriveva sempre alla stessa maniera, sia che parlasse di pesca, di corride, della guerra civile spagnola o di due amanti in crisi. La Aspesi, classe 1929, scrive di cinema allo stesso modo in cui risponde alle lettere delle donne tradite, disamorate o fedifraghe in “L’angolo del cuore” su Venerdì di Repubblica. Non scrive bene come Hemingway ma scrive abbastanza bene, come Carolina Invernizio, per dire, o Liala. Ecco: immaginiamo che gli editori dell’epoca avessero chiesto non a Italo Calvino o ad Alberto Moravia di scrivere di cinema ma all’autrice di Ritorna malinconia e I gelsomini del plenilunio. Il “colore” ai tempi del bianco e nero. L’acconciatura della Magnani in Roma città aperta. Le calzature delle Ragazze di San Frediano. I problemi di coppia in Cronaca di un amore.

Per parafrasare Bazin, citato da Godard nel Disprezzo: grazie al cinema, la Aspesi sostituisce agli occhi dei suoi lettori un mondo che si accorda ai desideri delle parrucchiere.
 
Qualche esempio.

Dopo la proiezione di Shame, di Steve McQueen: “per 99 minuti lo schermo è occupato da un perfetto nudo maschile che non smette un momento di fare quella cosa là, da solo, via skype, in compagnia singola o doppia o tripla femminile, non disegnando anche maschile […] Un uomo, anche se non probo, si innervosisce. Contentissime invece le signore che, ormai liberate anche solo virtualmente, si entusiasmano per quel giovanotto di demoniaca bellezza come forse non hanno mai visto in tutta la loro vita, se non appunto al cinema” (La Repubblica, 5 settembre 2011)

Su Wuthering Heights di Andrea Arnold: “Questi amori forsennati e adolescenti erano probabilmente quelli che le signorine Bronte vivevano nella loro verginale fantasia, per niente sdolcinati, ma violenti, tragici, impossibili, il che fa pensare a quanti milioni di donne abbiano dovuto sprecare, far inaridire la loro carica passionale ed erotica, imprigionate nell’educazione vittoriana, e non solo” (La Repubblica, 7 settembre 2011)

Si è passati dall’epoca del film come ipertesto a quella del film come pretesto.

L’epoca in cui non c’è più bisogno di vedere film, per poterne parlare. L’epoca in cui… Ma, un momento… Da quando sono qui a Venezia non ho mai visto la Aspesi entrare in sala, né uscire. Ci si incontra sempre tutti, compresi quelli che non vorresti, ma di lei non c’è traccia. Spargo la voce. Cominciano a circolare i primi dubbi. Ci si domanda a vicenda: tu l’hai vista? No. Tu? No. Il mistero si infittisce. Chi scrive i paginoni di Repubblica?
E alla fine, la conferma, nei parcheggi incustoditi dalle parti dell’Ospedale Occupato: la Aspesi non è mai arrivata al Lido (la fonte è attendibile al cento per cento ma, per ovvi motivi, non ne riveleremo il nome. Chiamiamola “gola profonda”). Nessuno l’ha mai vista perché non c’è.

PS
Vi abbiamo preso in giro. La Aspesi è stata avvistata, e ripetutamente, in Sala Darsena. È vero che qualche anno fa circolò la voce che la giornalista di Repubblica in realtà non si trovasse a Cannes perché vittima ingessata di un incidente domestico e che altri (Arianna Finos) scrivessero gli articoli impaginati a suo nome, ma si trattava di squallidi maligni dalla lingua biforcuta. Alla cattiveria non c’è mai fine. Il fatto che quasi nessuno parli più di cinema sui quotidiani non significa che qualcuno non lo sappia fare meglio di altri, in maniera inimitabile e non contraffabile. È un dato di fatto.

La Aspesi è qui e lotta insieme a noi.