Un grido personale. Un grido personale al cinema e ai suoi tempi: passato, presente e futuro. Un grido d’amore verso il cinema giapponese da parte di un cineasta che ha – in parte – costruito la sua poetica sull’elaborazione degli immaginari. Dapprima l’Iran, il suo paese natale; poi gli Stati Uniti, per esplorarne le pieghe più profonde, un’indagine che ha in Vegas: Based on a true story – presentato in Concorso proprio qui a Venezia nel 2008 – il suo atto definitivo, in cui si riuniscono i tòpoi dell’immaginario collettivo e cinematografico degli States, due universi sempre più confinanti, la cui frizione sembra essere oggetto di studio privilegiato di Naderi. Un compimento che coincide con la scelta di muoversi verso il Giappone, un altro luogo nevralgico di concentrazione di un immaginario cinematografico nel quale Cut, film di apertura della sezione Orizzonti della 68 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, sprofonda con un misto di nostalgia nei confronti di una delle tradizioni cinematografiche più vive e attuali, e di vivacità, il motore propulsore che ancora dà al cinema la forza di attraversare questa fase di transito tra vita e morte – prendendo questi due termini nel senso più vago possibile – fase in cui la Settima Arte, il cinema nella sua accezione più “analogica” e novecentesca, è sottoposto a una serie di pressioni così destabilizzanti da rendere ancora più moderna e necessaria la riflessione di Naderi.
Cut scaturisce dal rapporto con il cinema e la cultura giapponese, un legame profondo rintracciabile in una moltitudine di suoi film e ascrivibile ai film di Ozu, Mizoguchi, Kurosawa, i grandi padri del cinema giapponese. E la cornice di Orizzonti sembra perfetta per un film che presenta un carattere fin troppo esplicitamente meta-cinematografico e momenti di forte messa in discussione della natura stessa del dispositivo: il “parco giochi” di mises en abyme allestito da Naderi, fatto di riprese di proiezioni in cui il pubblico della diegesi si confonde con il pubblico della sala, e di momenti di grande forza visiva in cui il ventre di Shuji, progressivamente annerito dai lividi, si innesta, nel buio del suo appartamento, con le immagini dei suoi film: Sunrise, The Searchers, Hiroshima mon amour. E la scelta radicale del lettering che accompagna l’ultima tappa del riscatto di Shuji, una lunghissima serie di titoli di film, da Fellini a Bergman, da Bunuel a Babenco, da Fassbinder a Minnelli, che fende le immagini e si impossessa della scena. Tutte le suggestioni meta-cinematografiche del cinéphile Naderi, oltre che del cineasta, precipitano in un’opera che torna possentemente a porre la domanda cruciale: che cosa è il cinema.
Tuttavia, sarebbe poco utile limitare la forza di Cut alla sua attualità “ontologica”, che non impedisce al regista di raccontare la vicenda di Shuji, giovane cinefilo e cineasta in erba, che organizza proiezioni private dei grandi classici della storia del cinema, piange sulle tombe dei maestri del cinema giapponese e, armato di megafono, urla il suo disgusto per la mercificazione della Settima Arte, tra eserciti di brokers in giacca e cravatta, ritratti secondo la più usata delle iconografie legate a Tokyo, un’iconografia composta da inquadrature aeree del marasma in cui, poco sotto lo skyline, si addensano decine di edifici e grattacieli. Nel bel mezzo di una proiezione di Sherlock Jr., Shuji viene prelevato e condotto al cospetto del boss della malavita del suo quartiere, il quale lo mette al corrente dell’esecuzione di suo fratello e del debito che, per trovare i soldi che sarebbero serviti a Shuji per realizzare i suoi film, ha contratto con la malavita: circa dodici milioni di yen che Shuji deve estinguere in 15 giorni. Recatosi al bar malavitoso in cui suo fratello è stato ucciso, giunge alla conclusione che l’unico modo per trovare i soldi per estinguere il debito è farsi pagare per essere picchiato. Di fronte al divieto del boss locale di avviare questa anomala attività proprio lì, Shuji risponde che l’unico luogo in cui i pugni non fanno male è il luogo dove fu ucciso suo fratello. Cinque, sei, otto, dieci, ventimila yen a pugno, Shuji trascorre le sue mattine in giro per Tokyo con il megafono a cantare la morte del cinema, i pomeriggi in casa con i suoi amati film e le sere in un bagno seminterrato a ricevere pugni in pancia da decine di sgherri della Yakuza, insensati maniaci violenti che pagano fior fiore di yen per pestarlo. Durante i pestaggi, ciò che lo tiene in piedi è il pensiero dei suoi amati cineforum: Cassavetes, Sjostrom, Keaton, Oshima gli fanno compagnia durante i vari pestaggi. Giorno dopo giorno, pugno dopo pugno, Shuji prosegue verso l’estinzione del suo debito fino all’ultimo giorno, in cui “incassa” (termine che ben si adatta all’attività di Shuji) cento pugni. Ogni pugno un film, l’ultima scena nel bagno si consuma dietro un fitto susseguirsi di titoli, cineasti, date che invadono le urla invasate dei picchiatori e il lastricato bianco chiazzato del sangue di Shuji.
Come già accadde per Vegas, la capacità di Naderi di stratificare i suoi film in una serie di livelli di messa in scena non gli impedisce di scegliere rinnovate soluzioni visive: la fotografia digitale alterna il nitore delle immagini di Tokyo alla granulosità delle scene in interni; la libertà della sua macchina da presa gli permette di lavorare sui dettagli: analogamente ai calcinacci e ai rifiuti della casa del protagonista di Vegas, il sangue, i capelli bagnati, il sudore che sgorga a fiotti sui visi di tutti i personaggi, tutto contribuisce ad esaltare la densità materica delle cose del mondo, così forte in Cut. Tutto ciò vive nei corpi degli attori: la prova di Nishijima è di altissimo livello, la costruzione del suo personaggio ha evidentemente richiesto un lavoro fisicamente devastante; il personaggio silenzioso interpretato da Takako Togiwa è costruito per sottrazione, un personaggio che assiste agli eventi generati dall’energia disumana di Shuji e reagisce con l’energia opposta.
Questo complesso apparato scenico ruota intorno al perno dell’immaginario: l’ostensione della violenza e del corpo ferito, la malavita, il sadismo, una serie di elementi dell’abbigliamento e dell’immagine del gangster di matrice orientale, sono solo alcuni dei tòpoi intorno a cui Naderi costruisce la drammaturgia del film. All’immaginario giapponese si unisce l’immaginario di Naderi: l’ossessione di cui è preda Shuji è un topos che accomuna una lunga serie di personaggi dei suoi film.
Nell’evidente difficoltà di restituire tutta la ricchezza contenuta in Cut, ci si limiterà a prendere atto del grado di difficoltà del salto compiuto da Naderi e dell’innegabile complessità di materiale che si annida nel suo film, teso tra una cinefilia radicale in grado di parlare a pochi e una possente e irriducibile tensione narrativa che, ci auguriamo, permetta a Cut di essere visto anche dal grande pubblico, fuori dalla torre d’avorio di Venezia che così tanto ama il suo modo di esplorare e conoscere il mondo.