La cinefilia è nel pieno di una straordinaria rinascita globale. Non che sia mai scomparsa: è stata presente sin dal momento della nascita del suo medium di riferimento. Quando noi occidentali ne tracciamo la storia, di norma localizziamo la sua prima, distinta incarnazione nella Francia degli anni ’20. Louis Delluc e Jean Epstein sono le figure chiave associate a quel momento storico. L’ondata successiva appartiene agli anni ’50 e ha avuto luogo sempre in Francia, nel decennio precedente la Nuovelle Vague.
Ma prima di proseguire è necessario farsi una domanda: cos’è un “cinefilo”? Che cosa lo differenzia da un semplice appassionato di cinema? Entrambi vedono tanti film ma, al di là di questo, traccerei una linea: la cinefilia comporta un interesse attivo nel discorso intorno ai film. Non solo guardare film, dunque, ma anche pensare, parlare e scrivere di film, nelle forme più svariate, non importa quanto standardizzate: sono tutte attività importanti per il cinefilo.
Nel suo recente e fondamentale Goodbye Cinema, Hello Cinephilia, Jonathan Rosenbaum fa coincidere entrambi i fertili periodi della cinefilia francese con una forte affinità nei confronti della scrittura e del discorso letterario. Cita l’esempio di Godard, per il quale fare film è già un atto di critica cinematografica.
Oltre alla stretta connessione tra cinefilia e scrittura, i due periodi avevano in comune il fatto che il numero dei cinefili intenti a scrivere di cinema era superiore a quello dei loro lettori. Inoltre, quei critici-cinefili erano in gran parte localizzabili in una manciata di grandi città caratterizzate da un vivace dibattito culturale. Tale aspetto è rimasto valido per tutto il corso del ‘900.
Ma con l’arrivo del nuovo secolo, Internet e la rivoluzione digitale hanno radicalmente modificato le regole del gioco rendendo possibili almeno tre cose: un gran numero di cinefili, di qualunque provenienza, ha potuto pubblicare sui blog parole, immagini e suoni; allo stesso tempo, ha improvvisamente avuto accesso a un’ampia quantità di DVD provenienti da tutto il mondo, spediti e ricevuti per posta; valide risorse come l’impagabile pagina Twitter di David Hudson, thedailyMUBI, Facebook e i RSS reader hanno contribuito a rendere la vita da lettori dei cinefili più gestibile ed efficiente.
La “nuova cinefilia” supportata da Internet e dai media digitali non è solo differente da quelle che l’hanno preceduta in termini quantitativi, in riguardo al volume di materiale generato e messo a disposizione dei cinefili. È anche qualitativamente differente.
Qual è, dunque, l’esperienza della cinefilia ai tempi di Internet? Cosa la contraddistingue e la rende nuova? Quali sono le sue meraviglie? E quali i suoi rischi e pericoli?
MEDIATORI
“I mediatori” di Gilles Deleuze, pubblicato nel 1985, è uno dei miei saggi preferiti e penso che esprima bene il modo in cui funziona la cinefilia su Internet, anche se il testo non fa alcun riferimento al cinema, alla cinefilia o a Internet.
Nel suo saggio, Deleuze si occupa del movimento nelle discipline sportive. Tradizionalmente, la nostra concezione del movimento pone all’origine l’individuo, in quanto sorgente. Si pensi alla corsa, al lancio del giavellotto o al lancio del peso: l’individuo è sempre il punto di partenza, la sorgente dell’energia, e crea da solo la potenza e lo slancio.
Ma poi Deleuze sottolinea la popolarità crescente di discipline come il surf, il windsurf o il deltaplano, che fanno pensare al movimento in maniera diversa. Questi sport sono caratterizzati dall’inserirsi dell’individuo all’interno di un’onda preesistente. L’individuo, dunque, non è più l’unica sorgente del movimento. Per di più, viene a mancare un punto d’origine in grado di fungere da scaturigine del movimento. Di fatto, ciò che avviene in queste discipline è una sorta di messa in orbita.
Secondo tale concezione, il movimento chiave è costituito dall’immissione all’interno di una grande onda, di una colonna di aria ascendente, che unisce l’individuo a qualcosa di più grande e più potente. Deleuze chiama queste grandi onde“mediatori”.
Deleuze dice questo: sta a noi entrare a fare parte delle onde che ci circondano, posizionarci nel percorso di questi mediatori, di queste onde di pensiero, creazione e riflessione che ci turbinano intorno in continuazione. Più pensiamo, viviamo e lavoriamo isolati, più è difficile muoversi in consonanza con se stessi. Ma con l’aiuto dei mediatori possiamo essere catturati in forze molto più potenti di noi ed esse possono aiutarci a pensare e fare cose che non avremmo mai fatto o a cui non avremmo mai pensato da soli.
Questo, per me, è il grande modello di Internet. Come cinefilo, è nel Web che, ogni giorno, incontro le mie grandi onde – i miei mediatori: sui blog, su Facebook, Twitter, su riviste, giornali e altri siti. Svariate volte, nel corso della giornata, mi conducono da un’idea a un’altra, da un film all’altro, da una scintilla di curiosità a un’altra.
COME FUNZIONANO I MEDIATORI
Da quanto ho potuto capire, i mediatori della cinefilia su Internet appaiono per mezzo di piccoli, brevi incontri e agiscono da stimolanti. Una discussione su Facebook o una coda di messaggi su Twitter può spingermi ad aggiungere un altro DVD al mio elenco; un riferimento sul post di un blog può farmi venire voglia di richiedere un articolo per mezzo del prestito interbibliotecario; una fugace allusione raccolta in una conversazione via mail può farmi aprire un libro che possiedo da tempo per leggere un saggio che non sapevo vi si trovasse; un’osservazione letta all’interno di una recensione può stimolarmi a dare una nuova lettura di un regista familiare (1).
Ogni giorno, può capitarmi di fare una dozzina di questi incontri che funzionano come piccoli stimolanti, aprendo porte verso nuovi film, scritti o idee; mi fanno crescere in qualità di cinefilo e critico. Internet ha improvvisamente reso possibile l’esistenza di una nuova, ampia comunità di mutuo insegnamento e apprendimento, una comunità che include persone conosciute (come accade su Facebook) e sconosciute (come accade su Youtube). Prima dell’avvento di Internet, la comunità di appassionati di cinema era composta da pochi critici che scrivevano per un gran numero di cinefili. Ma sul Web il numero di lettori e scrittori (colleghi insegnanti e colleghi allievi) è esploso. Combinate questo dato con la frequenza accelerata e quasi stordente degli incontri con i mediatori – ogni giorno, e a qualunque ora – e realizzeremo di avere enormi possibilità il cui unico aspetto negativo è proprio la loro iper-abbondanza.
ALCUNI ESEMPI
Per ora ho parlato in maniera astratta ed è utile riportare alcuni di questi “incontri con i mediatori” occorsi di recente. Ciascuno ha risvegliato la mia curiosità, mi ha regalato un’intuizione o ha in qualche modo espanso la mia consapevolezza:
(1) L’affascinante resoconto di Jonathan Rosenbaum riguardo gli alti e bassi della sua interazione con François Truffaut e il conseguente impatto di tali scambi sulla critica relativa a Welles.
(2) Adrian Martin che, nella recensione del nuovo, epico film di Raúl Ruiz, Misterios de Lisboa, scrive: “In molti Paesi, oggi, assistiamo al ripetersi di una logica prettamente borghese e stucchevolmente sospetta: che la meravigliosa forma della lunga narrazione televisiva ci ha riportato, in un colpo solo, all’Epoca d’Oro del romanzo ottocentesco!”.
(3) L’elegante video saggio di 7 minuti di Christian Kathley, “Pass the Salt” che analizza con estrema attenzione un momento del film di Otto Preminger Anatomia di un omicidio (1959). È un magnifico esempio di critica cinematografica che impiega le stesse risorse del cinema (immagine e suono, montaggio e primo piano).
(4) David Bordwell che nel suo stimolante articolo “Accademici contro Critici” sostiene: “Il tipico pezzo scritto da un cinefilo risponde a questa domanda: ‘Quali qualità distintive posso riconoscere in questo film e in che maniera arricchiscono la nostra consapevolezza del suo valore?’. La tipica interpretazione accademica sarebbe invece domandarsi: ‘Quali aspetti del film sono illuminati dalla mia struttura teorica di riferimento?”.
(5) Il pezzo di Ignatiy Vishnevetsky su Severed Ways di Tony Stone (2007), cineasta di cui non avevo mai sentito parlare, “un incrocio tra Los Muertos, la bobina finale di L’ultimo dei Mohicani, il cinema didattico di Rossellini, il sensazionalismo alla Denis e la massima di Straub ‘la natura possiede dieci milioni di volte più fantasia del più fantasioso degli artisti’”.
(6) I termini coniati da Zach Campbell: “film reversibili” (The Matrix, 300 o V per Vendetta che veicolano furbescamente e in maniera semplicistica ideologie contraddittorie) e “film diffusi” (politicamente confusi e consapevoli di esserlo, come District 9 e Splice).
(7) La recensione di Dave Kehr del DVD di Samuel Fuller Verboten (“Nelle mani di Fuller, ciò che a prima vista potrebbe sembrare un errore di gusto si trasforma in una visione del mondo”).
(8) La recensione di Chris Fujiwara della retrospettiva su Nicholas Ray che ricorda il paragone di Godard tra Bitter Victory e una “illusione ottica” (“Lo spettatore non è più interessato negli oggetti ma in ciò che c’è tra essi e si trasforma a sua volta in oggetto”), al quale Fujiwara aggiunge: “Ogni film di Ray crea percorsi nascosti in piena vista”.
(9)Il notevole post-collage di Mubarak Ali sui film di Mani Kaul e Kumar Shahani, con testi dei registi, di Jacques Rancière, Laleen Jayamanne, Geeta Kapur — con l’aggiunta clip audio!
IL CINEFILO DEL 21ESIMO SECOLO
Negli ultimi due decenni è avvenuta una profonda trasformazione nella relazione tra il cinefilo e i suoi due principali oggetti di interesse: i film e il discorso che li riguarda. Prendiamoli in esame uno alla volta.
Cinquant’anni fa, all’apice della cinefilia rappresentata dalla Nouvelle Vague, vedere un film significava quasi sempre vederlo in una sala. I termini di questa visione, o quello che i francesi potrebbero chiamare “dispositivo” – il luogo, la durata e l’organizzazione spaziale dell’esperienza visiva – non erano determinati dallo spettatore ma da qualcun altro (l’esercente, piuttosto che il curatore). Questo contratto richiedeva al cinefilo una sorta di resa, una sottomissione nei confronti dei termini di visione imposti. Inoltre, un gruppo di cinefili – quelli che componevano l’audience della proiezione – partecipava di questo contratto contemporaneamente, socialmente. Tali condizioni producevano un’“interrelazione prolungata” con il film. Lo spettatore era messo nelle condizioni di prestare piena attenzione al film nel buio della sala buia e di restarvi fino alla fine, la sua perseveranza premiata dall’evidenza di suono e immagine sullo schermo, dalla possibilità di immergersi nei dettagli favorita da tali condizioni.
Oggi le condizioni proprie di questa esperienza visiva sono radicalmente cambiate. Quasi tutti i cinefili – anche quelli che vivono in grandi città e hanno a disposizione una moltitudine di opzioni – tendono a guardare un buon numero di film sugli schermi della TV o del computer. Per di più, il nuovo “dispositivo” cede il controllo allo spettatore e deve adeguarsi ai suoi capricci, al suo umore e alle sue preferenze (Jean-Luc Godard aveva profeticamente previsto tutto ciò quando sosteneva che “quando andiamo al cinema siamo costretti ad alzare la testa, la tv ce la fa abbassare”). Il risultato di queste nuove condizioni è l’indebolirsi delle possibilità che un film venga guardato con piena attenzione dall’inizio alla fine senza interruzioni – in altre parole che tra il film e lo spettatore intercorra una relazione piena e prolungata. Quando la tecnologia ci permette di vedere Playtime di Jacques Tati (1967) o Jeanne Dielman di Chantal Akerman (1975) su un computer, a spizzichi e bocconi, mentre beviamo, mangiamo, interrompiamo e cerchiamo di adattare il film ai nostri comodi, stiamo forse compromettendo fatalmente la nostra abilità di rendergli piena giustizia in quanto cinefili o critici?
Questa frammentazione dell’attenzione si applica persino con maggior evidenza, e moltiplicata all’infinito, al secondo oggetto dell’interesse del cinefilo: il discorso intorno al film. I social media – storicamente i blog, poi Facebook e Twitter – spezzettano la discussione critica in una corrente confusa di frammenti sempre più piccoli che si riversano incessantemente da dozzine di fonti diverse. Specialmente con Facebook e Twitter, la transitorietà e l’effimeralizzazione del discorso non sono solo dei rischi, essendo connaturati nel profondo al design stesso del software. Diversamente dal blog, Facebook e Twitter non permettono di fare una ricerca in un archivio di post precedenti, frasi o conversazioni. Su questi siti, il presente è la dimensione assoluta e il passato evapora in maniera istantanea. Quanto è drammatica la differenza tra questa frammentazione e la concentrazione prolungata richiesta dal sedersi a lavorare per ore su un singolo libro o saggio, per decenni l’unica modalità di scrittura critica cinematografica?
Ma che sia chiaro: non intendo costituire polemicamente un’opposizione binaria tra vecchio e nuovo, richiamando in maniera conservatrice alle unità perdute di una scomparsa epoca d’oro della cinefilia. Al contrario: sono il primo a ritenersi cinefilo grazie a Internet, uno il cui amore per il cinema non sarebbe potuto sbocciare e crescere senza i DVD, i blog, Facebook e Twitter.
Gioisco di fronte alla ricchezza di opportunità di apprendimento e scoperta, al proliferare e svilupparsi del discorso sul film, reso possibile da Internet e dagli innumerevoli mediatori che ogni giorno ci mette a disposizione.
UNA RELAZIONE DIALETTICA
Non è necessario scegliere un approccio a scapito dell’altro. Anzi, abbiamo bisogno di instaurare una relazione dialettica con il discorso sul film che valorizzi tanto l’attenzione prolungata che si dedica alle forme estese di pratica critica in libri e saggi impegnativi, quanto l’attenzione frammentaria propria dei metodi di lettura e scrittura dell’epoca dei social media.
Nel caso della visione cinematografica, però, i termini della relazione tra lettura e scrittura sul Web in campo cinematografico rendono decisamente più facile – persino così potentemente allettante – gettarsi a capofitto nel Web piuttosto che dedicarsi per un lungo lasso di tempo a un libro o a un saggio particolarmente impegnativo. Sempre di più, la battaglia per la conquista della nostra attenzione si muove in direzione di Internet. Desidero solo che ciò venga riconosciuto e che se ne prenda atto, e che si prendano le misure adeguate per correggere questa direzione, così come faccio io nei miei giorni di intensa cinefilia.
Infine, lasciate che vi dica che la rigida polarità proposta appena sopra non regge del tutto. Parte della miglior critica che si può leggere in rete – sui siti di Jonathan Rosenbaum, Catherine Grant o David Bordwell, o su riviste come Rouge o Screening the Past, e risorse come Moving Image Source – non opera secondo le regole dei social media. Somiglia piuttosto a quella di artefatti tradizionali, come saggi e libri. In altre parole, Internet offre ampio accesso sia alla forma estesa di critica che a quella breve propria degli scambi di Facebook e Twitter. L’obiettivo è trovare un equilibrio tra i due e distribuire il tempo della nostra giornata in maniera tale che le due modalità si arricchiscano a vicenda.
(1) è la teoria della “micro-critica” esposta da Girish Shambu sul suo blog.
(“Taken Up by Waves: The Experience of New Cinephilia” è stato pubblicato sul sito New Project: Cinephilia; traduzione di Alessandro Stellino)
Girish Shambu è Associate Professor of Management al Canisius College di Buffalo, New York.