I film minori non esistono. Un autore di cinema non realizza un film minore. Semmai realizza un’opera meno immediata. Misteriosa. Opaca. Ed è proprio quando un autore si allontana da ciò che è ritenuto comunemente essere la sua cifra espressiva che emerge compiutamente il plusvalore del filmico in senso stretto. Ed è questo giocare sulla soglia del percepibile, sulla soglia dove lo sguardo ricomincia a orientarsi, perché non riconosce i segni del già noto, di ciò che definisce superficialmente come una politica autoriale, che vivono i film più appassionanti dei registi autentici. I film che recano sulla propria pelle i segni di un conflitto che emerge esclusivamente come specifico filmico. Per fare un esempio: Hot Blood e Party Girl di Nick Ray. Moonfleet di Fritz Lang. Raising Cain di Brain De Palma. Desperate Hours di Michael Cimino. Parliamo, ovviamente, del primato della messa in scena. E ovviamente non esistono i film su commissione, pena la scomparsa di tutto il cinema hollywoodiano e non solo.
Quindi cosa si rimprovera, esattamente, a The Ward di John Carpenter?
Respingendo senza pensarci due volte la faccenda della sceneggiatura “prevedibile”, ragionamento che inevitabilmente conduce dalle parti degli script stile Inception, operazioni di scrittura mimetica della potenza filmica pensata come puro meccanismo autoritario da imporre allo sguardo in assenza di una messinscena che non sa darsi se non come occupazione paramilitare del principio d’individuazione, scartiamo anche la presunta assenza di una sorpresa finale, altro cascame di scrittura duro a morire. Non possiamo non giungere alla conclusione che ciò che si rimprovera a Carpenter è il cinema stesso.
Bisogna farsene una ragione. Se è vero che viviamo nell’era del “tutti scrivono ma nessuno legge” sarà altrettanto vero che il cinema si trova nell’epoca del “tutti vedono ma nessuno vede”. Inevitabile non provare nostalgia di fronte all’arroganza di un Godard che, difendendo A Time to Live A Time to Die di Douglas Sirk affermava che la verità “stava nei suoi occhi”. Curiosamente in un momento in cui il cinema è metastasizzato lungo tutte le articolazioni dell’immaginario collettivo, una parte non indifferente della critica riscopre, con un movimento ideologico schiettamente borghese, il primato della scrittura quale parametro qualitativo per individuare il cinema che vale la pena difendere.
Come dire che invece di rilanciare la sfida opponendo la libertà di Helena Ignez e Tarr Bèla alla normalizzazione dello sguardo, si preferisce evitare di percorrere la Road to Nowhere che suggerisce Monte Hellman o di inoltrarsi negli abissi di Wang Bing. Il cinema, ridotto a una serie di circuiti sempre identici a se stessi, viene ridotto alla ripetizione dell’identico. Il gioco salta quando i praticanti dell’identico si trovano di fronte a qualcosa che richiama, volutamente, strutture apparentemente già viste. Lì il loro sguardo si smarrisce e pensano di vedere cose che hanno già visto. Evitando così il confronto e la verifica, bollano il tutto come “già visto”. Ironicamente, perché di fatto non vedono.
John Carpenter è un regista che si muove da sempre in forme strategiche nel sistema hollywoodiano. Nell’ambito dei perimetri dei generi che ha praticato non li ha ecceduti come vorrebbe il luogo comune che riconosce o presume di riconoscere il cinema solo in presenza di uno strappo, semmai li ha radicalizzati. The Ward, in questo senso, oltre a essere un melodramma che richiama alla memoria i noir isterici di Nick Ray e Robert Aldrich, è lo studio di un cervello messo in scena come un luogo chiuso e di un luogo che progressivamente si dilata e si apre sino a diventare un cervello che a sua volta si offre come teatro nel quale va in scena la ripetizione dell’identico.
Il magistero carpenteriano, mai così classico, mai così radicale, risiede nella sua capacità di attenersi strettamente alla sintassi filmica canonica e di far salire l’inquietudine attraverso le giunture tra un fotogramma e l’altro, spostando la macchina da presa, esplorando uno spazio che si rivela popolato di mostri che aspirano a essere uno. Proprio come il cinema, che nell’apparente molteplicità del suo agire, è ricondotto alla sua natura di uno molteplice e NON di molteplice uno (il cinema che va per la maggiore oggi, da Nolan a Snyder).
Carpenter esplora uno spazio con il pudore necessario per entrare nella vita delle persone. Con rigore documentario esplora uno spazio fantasmatico ricondotto cartesianamente ai suoi indici di realtà. Ed è dunque questo lavoro di Carpenter, che esalta quanto affermava Todorov il quale ricordava che il pubblico del cinema fantastico ama soprattutto il realismo. Il che non significa che Carpenter gioca a rendere verosimile il fantastico (troppo semplice); lui non filma il reale come se fosse fantastico (cosa che fanno i registi di genere). Lui filma gli elementi che compongono il reale stesso (indicativi i titoli di testa del film) non per ricondurli al cinema ma per sottrarli al cinema stesso.
È questa l’assoluta flagranza filmica carpenteriana che non necessità di feticci metatestuali ma solo di movimenti di macchina e stacchi di montaggio.
The Ward, regia di John Carpenter, Usa 2010, 88’