Dopo Oasis (2001) e Secret Sunshine (2007), Lee Chang-dong torna sui grandi schermi con Poetry, premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes 2010. La poesia che dapprima entra come un passatempo nella vita di Mija, anziana badante di un paralitico e tutrice del nipote adolescente, diventa con il tempo il giusto rimedio per alleviare i dispiaceri e riuscire a tirare avanti.
Le immagini in apertura dell’acqua del fiume che scorre portando con sé il cadavere della ragazzina morta suicida, ritornano anche nella scena finale e rimandano, come già era stato per Kim Ki-Duk in Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera alla circolarità della vita e alla ciclicità della natura. Come vuole la legge karmica, per cui se si produce sofferenza si è soggetti a un karma negativo, sembra, dunque, che vada così interpretato il gesto dell’anziana signora, appassionata di poesia, di concedersi al vecchio paralitico per espiare le colpe del nipote, reo di aver stuprato insieme a un gruppo di coetanei l’adolescente suicida. Tutto ha un prezzo, tutto si paga. Per Mija non è il piano materiale a contare; secondo la donna i soldi che dovrebbero servire a risarcire la madre della ragazza stuprata non bastano a placarne il dolore ed ecco che il suo modo di avvicinarsi alla natura e di contemplare il mondo sotto altri occhi, merito soprattutto del corso di poesia, la aiutano ad avvicinarsi a chi, debole come lei, non riesce a fare sentire il proprio urlo di dolore tra tanta indifferenza.
Il compito di scrivere una poesia diventa per Mija una missione. Dapprima si sforza di osservare la realtà con gli occhi di un poeta, la vediamo intenta a osservare una mela per qualche minuto, convenendo alla fine che una mela è meglio mangiarla che osservarla, poi, contemplare un albero per sentire che cosa ha da comunicarle, infine partecipare a ripetuti incontri per poeti emergenti, senza riuscire a trovare la risposta che più la assilla: come riuscire a scrivere una poesia. Solo quando la donna fa entrare la poesia nella sua vita riesce a trovare la soluzione. Il compito che le è stato assegnato si trasforma in una lezione esistenziale grazie alla quale Mija sembra avere imparato a osservare le cose e le situazioni che accadono sotto i suoi occhi, chiedendosi cosa vogliono comunicarle e imparando a non soccombere.
Mija non si arrende, ma impara a osservare le cose e accettarle per quello che sono. Come lo scorrere dell’acqua del fiume, Mija aderisce alla vita e a quello che le accade, lasciandolo scorrere senza opporsi, una sorta di riproposta del wu wei taoista, il non agire contro gli eventi. Nè vincitrice nè vinta, Mija sembra avere trovato un modo per restare a galla, vivendo con meno attaccamento alle cose che le accadono. La stessa leggerezza che ritroviamo in molti gesti della protagonista, come anche in quella sua aria svagata e un po’ sopra le righe, che appare come una sorta di protezione dalle brutture della vita; la poesia, per Mija sinonimo di bellezza, funge, dunque, per lei da scudo protettivo.
Il regista Lee Chang-dong, che già in passato aveva indagato la solitudine e la povertà che colpisce gli emarginati e ultimi della società (Oasis), mette sotto la lente d’ingrandimento la vita di un’anziana alle prese con generazioni diverse dalla sua (il nipote adolescente, i genitori dei ragazzi amici del nipote), convenendo che la semplicità con cui Mija conduce la sua esistenza e il suo modo di guardare la realtà sono forse una possibile alternativa per superare l’indifferenza e l’arroganza della gente che la circonda. Talvolta la narrazione diventa intima e assume i toni di un diario, come accade nelle scene dedicate al corso di poesia, in cui gli alunni di fronte alla macchina da presa si raccontano, lasciando emergere sogni, desideri, delusioni e molta amarezza nei confronti della vita.
Poetry (Shi), regia di Lee Chang-dong, Corea del sud 2010, 139’