Noah Baumbach è considerato tra gli ispiratori del movimento per la sua opera prima Scalciando e strillando, inoltre i suoi film non sono certo esenti da una vena autobiografica, incluso il successo di critica e pubblico Il calamaro e la balena. D’altra parte Baumbach è uno sceneggiatore, preferisce scrivere un copione solido anziché affidarsi all’improvvisazione e, avendo raggiunto una certa fama, può permettersi un budget discreto con attori di grido. Nonostante ciò, il legame tra Greenberg e il “mumblecore” non potrebbe essere più dichiarato di così, a partire dal piccolo ruolo di Marc Duplass, che del movimento è forse il più noto esponente, e dalla coprotagonista Greta Gerwig, a sua volta appartenente al gruppo in veste di attrice e sceneggiatrice (Hannah Takes the Stairs, 2007). Difficile non vedere riferimenti alla biografia del regista nell’alienazione verso Los Angeles del newyorkese Greenberg e nell’insanabile rapporto con la ex, interpretata da Jennifer Jason Leigh e, per l’appunto, ex moglie del regista oltre che coproduttrice.
Tanta contestualizzazione per dire che Greenberg, in fondo, è l’ennesimo film che si parla addosso, facendolo bene, persino troppo. Soprattutto considerato che il protagonista sarebbe quasi un recluso la cui solitudine non viene mostrata, preferendo inanellare un incontro dietro l’altro e servendosi delle conversazioni telefoniche come variante. Tutto è scritto e interpretato con mestiere, il protagonista è insolitamente sgradevole – e Stiller in controcasting ne fa una figura interessante – e pure la sua possibile compagna non è certo una bellezza hollywoodiana, ma alla fine, dopo un’ora e tre quarti di parole, cosa resta?
Se la famiglia in dissoluzione di Il calamaro e la balena era emblematica di una più generale crisi della nazione e di una certa borghesia intellettuale, Roger Greenberg sarebbe forse il simbolo dell’arte che, rifiutando di vendersi, finisce per andare a male? O si tratta più letteralmente (e più probabilmente) del ritratto di un disadattato, vittima prima di tutto delle proprie manie e attivissimo solo nello scrivere lettere (non e-mail) di protesta ai quotidiani? Per quanto anticonvenzionale appaia il protagonista e siano impietosamente dipinti i comprimari, tutta un’altra serie di luoghi comuni entra dalla porta di servizio. Il finale, innanzitutto, non è molto distante dalla consueta retorica dell’happy end; inoltre, se si conosce il genere, si possono facilmente prevedere passaggi quali: la scena di sesso esplicita e triste; l’amicizia virile dalla dinamica un po’ bromantic che entra in crisi; la parentesi stoner con droghe varie. Si aggiunga poi che Greenberg ha scoppi d’ira e risposte crudeli verso chi ama non molto diverse da quelle di Malcolm (oltretutto interpretato da Jack Black e quindi da un altro comico in controcasting) nel precedente film di Baumbach, Il matrimonio di mia sorella, a sua volta una pellicola ossessionata dall’idea della malattia mentale.
Questa serie di elementi che ritornano segnalano sia la firma autoriale di Baumbach, sia i limiti e persino l’involuzione. L’asciutto Il calamaro e la balena, nonostante l’esile minutaggio, era molto più ricco di situazioni e personaggi, oltre che più sincero; Il matrimonio di mia sorella vantava scelte coraggiose (infatti è stato un insuccesso) sia nella forma sia nella struttura. Greenberg, sotto la facciata indipendente, in realtà gioca piuttosto sul sicuro e, assecondando quell’autoindulgenza da minimalismo “mumblecore”, finisce per mancare d’urgenza. Se pur il movimento è stato utile – soprattutto come guscio protettivo per giovani registi – non può accadergli di peggio del finire malamente assimilato al mainstream. Meglio morire che vivere da zombie.
Lo stravagante mondo di Greenberg (Greenberg), regia di Noah Baumbach, Usa 2010, 107’.