Dopo vent’anni di oscurità, povertà, rifiuto ignorante e ostinata perseveranza, l’avanguardia cinematografica americana soffre oggi, per la prima volta nella sua storia, di un nuovo, inquietante disturbo: troppa attenzione senza comprensione, troppa approvazione senza discriminazione. Crimine dei crimini: è diventata di moda. I suoi guru e artisti corrono il rischio di diventare essi stessi il “sistema” dell’avanguardia; la sua fama crescente nasconde solo in modo imperfetto una debolezza interna. Le osservazioni che seguono, rivolte a rimuovere dei malintesi, rappresentano una critica dall’interno, pienamente consapevole dei numerosi risultati ottenuti dal movimento. Questi frutti si trovano non soltanto nei molti talenti e lavori che il movimento ha scoperto e difeso, ma nella sua continua “profanazione” creativa del mezzo che non lascia nulla di indisturbato e non dà niente per scontato.
Nelle mani dei principali maestri del movimento, il film viene saccheggiato, atomizzato, accarezzato e posseduto in una frenesia d’amore appassionato. Emulsione, esposizione, illuminazione, velocità, sviluppo, montaggio, movimenti di camera, composizione o suono: niente è al riparo dall’attacco di questi poetici sperimentatori che hanno irrevocabilmente invaso il mezzo. Mentre la maggior parte dei film commerciali può essere tranquillamente seguita con un occhio chiuso, questi lavori obbligano lo spettatore a spalancarli entrambi, così da lasciarlo senza difese contro i suoi poteri magici. L’avanguardia americana è parte di una forte tendenza internazionale verso un cinema più orientato all’immagine, più libero, più personale. Questo movimento esprime una rivolta contro l’irrigidimento delle istituzioni e la conservazione del vecchio. Rappresenta un cinema di passione. Restaurando il primato dell’elemento visivo, questo movimento ci porta faccia a faccia con l’essenza del mezzo, il profondo e inesplicabile mistero dell’immagine.
Tematicamente, stilisticamente e ideologicamente, i film che fanno parte di questa tendenza riflettono e prefigurano un’era di cambiamento sociale, disorientamento e declino e sono pervasi da un umanesimo esistenzialista privo di certezza o illusione. Emancipati dall’arte diciannovesimo secolo, hanno man mano sostituito strutture narrative realistiche, plot chiaramente definiti e personaggi ben delineati con l’ambiguità visuale e la complessità poetica, esplorando le idee e le forme verticalmente, anziché illustrare gli eventi orizzontalmente. Ci sono forti influenze di surrealismo, neo-dadaismo e Pop art, teatro dell’assurdo e “Teatro della Crudeltà”, Robbe-Grillet e il nouveau roman. Le regole dei libri di testo del filmmaker sono state abbandonate. Il montaggio è esplosivo, ellittico, imprevedibile, i movimenti di camera fluidi, frequenti e liberi; spazio e tempo sono condensati, distrutti o annullati e memoria, realtà e illusione fusi fino a che, in un attimo di rivelazione, si realizza che la totalità di queste incertezze e discontinuità riflette niente meno che il modo di vedere il mondo contemporaneo in filosofia, scienza, arte e politica. Sono gli artisti impegnati degli anni sessanta a riflettere su questo, i veri esploratori dei nostri giorni: brucianti filmmaker, a loro volta angosciate configurazioni delle ansietà e delle limitate speranze che incarnano.
Ma l’avanguardia americana sembra essere arrivata a una svolta. Da una parte, i semi piantati dalla serie “Art in Cinema” di Frank Stauffacher e dalle proiezioni di Maya Deren negli anni quaranta, come i programmi di Cinema 16 del 1947-1963, sono stati trasformati in un movimento pienamente sbocciato e ampiamente visibile. Assistiamo a produzioni numerose e continue; aperture di nuove mostre; scuole, centri d’arte, e gruppi civici che implorano per l’“underground”; discoteche e caffè che utilizzano tecniche crossmediali ispirate ai film; riviste a grande tiratura e televisione che forniscono pubblicità a tappeto. Questa nuova condizione rimane l’innegabile conquista di Jonas Mekas e del gruppo “New American Cinema”.
Dall’altro lato, tuttavia, esiste adesso una certa diffidenza intorno al movimento anche da parte dai suoi amici e sostenitori. Troppi film sono insoddisfacenti, anche con il massimo dello sforzo nel magnificare, con compassione, le loro piccole virtù. Nei circoli filmici non è un segreto che, dopo tanta crescita e pubblicità, la quantità di spettatori della Film-Makers Cinematheque di New York sta diminuendo. A questo va aggiunto il paradosso di una produzione voluminosa e pochi talenti emergenti; l’assenza, nonostante i nuovi e lodevoli tentativi, di una reale risoluzione al problema cruciale della distribuzione e della proiezione. Appena il lieve sentore di guai si fa più evidente, l’ardore evangelico dei leader del movimento si fa più insistente, i manifesti e gli esorcismi meno circospetti.
Dare il via al processo di una critica documentata dell’avanguardia americana (e più specificatamente, dell’ideologia e lo stile delle tendenze del New American Cinema all’interno di essa) è un atto della più alta e necessaria lealtà verso il movimento. È arrivato il momento di liberarlo dal cieco rifiuto dei recensori commerciali e dalla cieca accettazione dei loro stessi apostoli; entrambi in posa come critici e nessuno dei due in grado di sottoporlo a un’analisi spassionata e documentata.
1. Confondere Times Square con Manhattan
New American Cinema (NAC) e avanguardia filmica americana non sono sinonimi. Il gruppo NAC è l’elemento dominante, ma non l’unico, all’interno del movimento del cinema americano indipendente contemporaneo. Grazie alla sua chiassosità e alla quantità delle sue produzioni, il NAC imprime i suoi valori e il suo stile all’intero movimento tanto che frequentemente ed erroneamente viene fatto corrispondere con esso. Questo porta alla comoda omissione di Bruce Baillie e della Canyon Cinema Cooperative, di altri filmmaker della East Coast; di George Manupelli e Richard Myers nel Midwest; e di Hilary Harris, Carmen D’Avino, Francis Thompson, Len Lye e altri a New York.
2. Confondere una cooperativa di produttori con una scuola
Il New America Cinema non è né ideologicamente, né stilisticamente, né in alcun modo un movimento unico o una tendenza. Nei suoi manifesti eleva a principio l’estetismo eclettico e l’entusiasmo indifferenziato, invece di ammettere che il gruppo – vagliando lo spettro che va da Anger a Breer, Warhol e Brakhage – è un gruppo di natura economica e non estetica.
3. Confondere la continuità storica con l’immacolata concezione
È necessario situare il NAC all’interno della storia – il passato, il presente e il futuro che possiamo solo immaginare. Nel passato, l’avanguardia filmica americana aveva le sue radici nel surrealismo europeo, nell’avanguardia espressionista degli anni venti e nello sperimentalismo americano degli anni quaranta e cinquanta. I leader del NAC, per ragioni ovvie e indifendibili, preferiscono stendere un velo di silenzio e indifferenza sul passato, così da contribuire al provincialismo dei suoi aderenti. È solo recentemente, e grazie ad una critica interna simile a quella perpetrata qui in pubblico, che alcune opere e scritti dei “precursori” sono iniziate ad apparire nei programmi della Cinematheque o in Film Culture. Tuttavia è giusto dire che l’importanza cruciale di certi filmmaker come Sidney Peterson, i fratelli Whitney, Ralph Steiner, Oscar Fischinger, Watson-Webber, Maya Deren, Curtis Harrington e James Broughton rimane sconosciuta o non analizzata all’interno dello sviluppo ideologico della nuova generazione. Ciò rivela l’abituale chiusura e demagogia, ma fortunatamente non è accompagnata da un effettivo controllo sull’informazione. Si rabbrividisce al pensiero di cosa potrebbe accadere se uno dei nostri odierni sostenitori della libertà totale diventasse commissario di Film Culture.
Per quanto riguarda il presente, il NAC è innegabilmente e inevitabilmente parte del movimento mondiale che lotta per un cinema più visivo, e si oppone al suo contrario. È impossibile rimanere neutrali di fronte all’incredibile provincialismo degli ideologi del NAC quando rifiutano, screditano o esorcizzano Antonioni, Godard, Resnais, Skolimowski, Bellocchio e Lester; e al restringersi del loro campo visivo che, magnificando ogni elemento incluso, trasforma pigmei in giganti. Il NAC supererà i suoi problemi odierni solo studiando con cura le tecniche e le conquiste di questi sperimentatori e riconoscendo pienamente che il movimento “pro-visivo” internazionale non è un club esclusivo e neanche una setta dogmatica, ma include sia Emshwiller che Antonioni, VanDerBeek e Godard. Nessun film o filmmaker può essere espulso da questo movimento per un’ordinanza papale. L’affermazione di Jonas Mekas al recente simposio “New Cinema” tenutosi al Museum of Modern Art (“il vecchio cinema, anche quando è riuscito, è orribile; il New Cinema, anche quando sbaglia, è bellissimo) è provocatoria e indifendibile. Prima della rivoluzione di Bertolucci, Paris nous appartient di Rivette, Gertrud di Dreyer, Walkover di Skolimowski, Kazdy den odvahu di Schorm, La donna di sabbia di Teshigahara, Il dio nero e il diavolo bianco di Rocha, I disperati di Sandor di Jancso, Tini zabutykh predkiv di Paradjanov, Antonioni da L’Avventura a Blow-Up, Resnais da Hiroshima, mon amour a La Guerre est finie, Godard da A bout de souffle, fino a uno qualsiasi dei suoi ultimi – tutti questi film, creati con quello che Mekas chiama il “vecchio” cinema, sono opere di avanguardia. Non sono solo più importanti dei fallimenti, ma spesso più importanti anche dei successi dell’avanguardia indipendente.
Molto presto avverrà un’interessante discussione sui relativi gradi di sperimentazione, sovversione e audacia politica o artistica di queste opere da un lato, e dei film del NAC dall’altro. In ogni caso, le creazioni di questi cosiddetti registi “commerciali” possono essere screditate solo da dogmatici senza speranza.
4. Confondere la libertà con l’assenza di forma
Mancanza, fallimento e rifiuto della forma sono la debolezza predominante dell’avanguardia di oggi. Le tendenze correnti in tutte le arti verso l’improvvisazione, la fluidità e il caso vengono confuse con una totale assenza di forma e la tentazione è quella di negare il fatto che sono precisamente i lavori più riusciti fra questi a rivelare una struttura e una logica interne. Questa coerenza interna è più sentita che spiegabile. È talmente carente in così tanti tentativi recenti, capaci di andare avanti allo stesso modo per quindici minuti o per cinquanta, e nei quali la successione o la durata delle riprese è completamente irrilevante in termini di impianto generale. Mancano di sorpresa, mistero e di quell’inesorabile forma e flusso che sono caratteristici di tutta la grande arte. Il film, come arte insieme plastica e del tempo, implica considerazioni di ritmo, durata, progressione, montaggio, posizione della macchina da presa. Tali considerazioni, anche nei lavori sperimentali, non sono e non potranno mai essere sospese. Operano indipendentemente dalle intenzioni annunciate dell’artista, nel più profondo livello psicologico e determinano il valore artistico di un’opera. Un senso deciso della forma, della struttura e del ritmo sono inevitabilmente presenti nei lavori migliori dell’avanguardia americana, a prescindere dai loro creatori e dalle loro differenze estetiche.
5. Confondere i contenuti con la qualità
La liberazione tematica non è garanzia di qualità. Neanche l’uso di cinque proiettori che lavorano simultaneamente, nudità insistita, irreprensibili sentimenti anti-Vietnam, camera a mano, rappresentazione del travestitismo. Cocteau disse ironicamente quando si confrontò per la prima volta con il Cinemascope: “La prossima volta che scrivo una poesia, dovrò usare un foglio di carta più largo”.
6. Confondere la non-selettività con l’arte
La politica orgogliosamente proclamata del NAC di mostrare, distribuire e ammirare ogni brandello di film è controproducente. Ciascun individuo che abbia a disposizione una cinepresa e sia in grado di completare un lavoro, immediatamente ottiene una proiezione pubblica e una distribuzione. In questo modo, svariate centinaia di titoli si aggiungono alle recenti “ouvre” dell’avanguardia americana. In tali circostanze è più facile scoprire epigoni di Brakhage che nuovi Brakhage. Sarebbe essenziale mostrare ogni singolo film ai filmmaker in proiezioni-workshop interne così che possano vedere i lavori degli altri; farlo con un pubblico generico è un suicidio. Il numero di film presenti e il livello delle “produzioni” – chilometri di nuove pellicole – saturano il mercato e fanno affogare lo spettatore in un pantano di mediocrità o peggio. Presto o tardi il pubblico si rifiuterà di accettare solo cinque minuti di materiale promettente su due ore di tedio. Incapaci di giudicare i lavori in anticipo o di basarsi sul giudizio di qualcun altro (poiché non c’è selezione), alla fine decideranno di stare fuori o di smettere di noleggiare film: il loro interesse frustrato soppiantato da un’ostile irritazione. Come avrebbero potuto sapere, in mezzo alla selva di nuove, sconosciute produzioni e la totale assenza di scritti critici, che Metanomen, Lost in Cuddahy, Oh Dem Watermelons e Relativity erano i film assolutamente più degni di essere visti e quattrocento altri non lo erano? C’è dunque bisogno di una nuova vetrina per l’avanguardia, non sotto il controllo di un’unica fazione all’interno del movimento, per quanto importante, ma presentando il meglio dei nuovi film selezionati nel modo più accurato possibile da un gruppo di scrittori e critici dell’avanguardia – compreso il NAC. Ogni critica a questo metodo di selezione, in quanto modo intollerabile di dirigere i gusti del pubblico, è ipocrita. Primo, ovunque vi sia una proiezione, vi è un esercizio precedente di giudizio. Secondo, questa medesima critica è applicabile più che mai a un sistema di controllo operato da un’unica fazione.
7. Confondere il buono con il cattivo
È tempo per il NAC di ammettere che esiste qualcosa come un brutto film d’avanguardia; che in effetti ci sono più film d’avanguardia brutti che belli; che almeno la metà dei film proiettati o distribuiti oggi sono brutti; che ciascuno dovrebbe essere capace di comprendere perché alcuni sono brutti e perché altri belli; e per fare questo, è necessario stabilire standard critici e sviluppare una scrittura e un gusto critici.
È tempo di ammettere che non tutto ciò che è buono è avanguardia; non tutto quello che è avanguardia è buono; che anche un buon filmmaker dell’avanguardia può fare un brutto film. Infine, esiste solo arte bella o brutta, e all’interno di un particolare sistema di valori. Il nostro reale interesse nell’arte d’avanguardia risiede non nel suo essere avanguardia, ma nelle sue promesse implicite di qualità opposte all’esaurimento del cinema commerciale. Nel suo opporsi al “vecchio” cinema, non c’è niente di intrinsecamente superiore o sostenibile, se non prova la sua superiorità nella pratica.
8. Confondere propagandisti con i critici
È giusto dire che i pubblicitari e i propagandisti furono essenziali nella creazione di questo movimento, così spesso malignato e screditato. Nessuno negherà il loro successo nel contribuire alla creazione e alla visibilità del movimento. In questo processo, dunque, hanno impercettibilmente confuso tutte le distinzioni fra propaganda e critica, al punto che le loro recensioni e le loro pubblicazioni hanno iniziato a somigliare all’editoria letteraria a pagamento con un appropriato influsso allucinatorio. Oggi che l’avanguardia sta entrando in un nuovo, pericoloso stadio, le analisi devono avere la precedenza sulla pubblicità e le due cose devono essere chiaramente distinte l’una dall’altra. I pubblicitari sono iperbolici, specialmente quando sono coinvolti prodotti dei loro clienti. Per questa ragione, le formulazioni che seguono, proponendosi continuamente come valutazioni critiche, devono essere propriamente etichettate come pubblicità o reclame: “un lavoro di rara bellezza”, “un bellissimo lavoro”, “è bellissimo”. Particolare attenzione deve essere posta a frasi tipo “uno dei…” (ad esempio: “Questo è uno dei più bei lavori dell’avanguardia americana”). Infine, la continua sfilata, settimana dopo settimana, di nuovi maestri, geni, e giganti diventa velocemente oggetto di sospetto e di ridicolo.
Abbiamo bisogno di sostenitori, non feticisti dell’avanguardia cinematografica. Dobbiamo rigorosamente insistere sugli stessi metri di giudizio per i film d’avanguardia come li applichiamo ad ogni altra opera d’arte. Questa ansia degli standard non deve essere comparata a una stretta autoritaria che riguarda lo stile o il contenuto. Al contrario, è quando viziamo gli sperimentatori con tolleranza fuori luogo, quando parliamo di risultati dove ci sono solo tentativi, di tentativi quando non c’è nulla, di retrospettive dopo due anni di produzione, che indeboliamo profondamente il movimento.
9. Confondere pubblicità con riuscita
La pubblicità non è prova di qualità, l’attenzione su vasta scala dei mass media, non è garanzia di riuscita. Questo denota semplicemente che i film d’avanguardia hanno raggiunto il livello di un prodotto mercificabile: sono diventati copie. Questo perché la posizione aggressivamente anti-sistema dell’avanguardia si esprime sovente per mezzo di soggetti tabù ben pubblicizzati: erotismo, “deviazione”, droga; atti e disturbi elegantemente strampalati; nuove tecniche pubblicizzabili (mixed media, tedio “creativo”); e interessanti gesti visivi di natura vagamente controcorrente.
Finché questo limitato radicalismo, per la virtù di programmi non selettivi, è affogato in risme senza fine di film innocui, è più facilmente inglobabile dal sistema, il quale, pubblicizzandolo, deruba l’underground del suo appeal di culto e allo stesso tempo lo deride ideologicamente. In questo senso, la libertà di esibire ciò che desiderano implica che queste isolate vetrine funzionino come una valvola di sicurezza per incanalare gli impulsi radicali, e che l’avanguardia, al momento decisivo della sua accettazione da parte del sistema, è di fronte alla possibilità di un imminente evirazione o assorbimento.
10. Confondere una rondine con la primavera
Il successo commerciale di un singolo film, The Chelsea Girls, non deve farci scordare che i problemi di distribuzione e di proiezione dell’avanguardia rimangono irrisolti. Le recensioni e le voci riguardanti la presunta depravazione e audacia sessuale di un film automaticamente predispongono un pubblico “ready-made”. Non viene alla mente un osservazione peggiore; la vendibilità del sesso in una società sessualmente repressa è inevitabile.
11. Confondere una generazione con un’altra
È un’osservazione significativa della stagnazione dell’avanguardia americana che la maggior parte di quelli che sono comunemente considerati i migliori registi di oggi siano membri della generazione di mezzo vista per la prima volta a Cinema 16: Anger, Brakhage, Breer, Clarke, Conner, D’Avino, Emshwiller, Harris, Frank, Markopoulos, Menken, Maas, Rice, VanDerBeek. Della generazione più giovane, fra i pochi che si avvicinano alla vetta per promessa o interesse sono Warhol, Bruce Baillie, Peter Goldman, e forse, Tony Conrad e Sheldon Rochlin.
In questa accozzaglia di nuovi lavori e nuovi registi si troveranno innegabilmente nuovi talenti, e, in questo senso, questa esplosione è benvenuta. Ma dopo circa sei anni di questa attività, è oggi ugualmente legittimo speculare sulla povertà di nuovi talenti significativi e, nel momento in cui emergono, riflettere quanto un’approvazione incondizionata e il rifiuto del cinema mondiale ne influenzi il ritardato nella crescita.
A questa domanda deve essere aggiunto il minaccioso o già compiuto esaurimento di alcuni talenti della generazione di mezzo e la loro incapacità di andare oltre i primi risultati.
12. Confondere la letteratura con la critica visiva
Il movimento ha bisogno non solo di critici in quanto tali; ha bisogno di critici che provengono dall’arte visiva. Molti degli odierni recensori e critici giungono da una tradizione letteraria o giornalistica. Si curano di storie semplici, realismo o naturalismo, sentimenti nobili e identificabili, dove il visivo che funge da illustrazione per una tesi letteraria di fondo. Si tratta di critica orientata verso la sociologia, la letteratura e la psicologia, non verso l’essenza visiva del cinema. I critici e gli storici dell’arte come Amberg, Arnheim, Hauser, Langer, Panofsky, Read, Richter, Schapiro e Tyler si sono sempre confrontati con l’estetica del film, e la recente incursione di nuovi storici e critici dell’arte (Battcock, Cohen, Geldzahler, Kepes, Kirby, Meyer, Michelson, O’Doherty, Sontag) nella critica cinematografica è quindi benvenuta e va incoraggiata. Provenendo dall’arte visiva, le loro sensibilità e il loro impegno, la loro apertura verso le tecniche e la filosofia dell’arte moderna, possono significativamente contribuire all’elaborazione di un’estetica per il cinema visivo. Questa nuova estetica deve includere un’indagine delle differenze fra il film e le altre arti plastiche (l’elemento del tempo, la resa illusoria del movimento e della realtà su una superficie bidimensionale, l’uso del suono, il cinema come il regno dei sogni). Queste caratteristiche “filmiche”, perlomeno nel caso di happening, installazioni e opere mixed media, hanno un rapporto più stretto con le altre arti. Il NAC farebbe dunque meglio a preoccuparsi di tali questioni e studiare gli scritti di questi nuovi critici, così come le opere di Balázs, Nilsen, Cocteau, Eisenstein, and Pudovkin.
13. Confondere i papi con gli uomini liberi
Ultimamente, la crescente abilità di “vedere” implica l’abilità di vedere se stessi. La crescita giunge grazie a errori riconosciuti come tali, critiche ritenute valide, l’esposizione del sé alle influenze nuove e aliene, l’interazione con un mondo ostile e in mutamento. La cieca adulazione e l’ermetismo sono i nemici della crescita e portano alla ripetizione di ciò che è già stato raggiunto, all’ascesa degli epigoni e della mediocrità, al progressivo restringimento della visione e al deterioramento cumulativo del gusto. Ciò con cui l’avanguardia americana deve fare i conti è il settarismo spacciato per libertà, l’adulazione intesa come critica, lo sterile eclettismo come filosofia artistica, l’ignoranza anti-intellettuale come liberazione. Dogmi, miti e papi sono lo stadio inevitabile della preistoria umana; raggiungeremo uno stadio più elevato quando saranno sostituiti da uomini liberi.
(pubblicata su Evergreen Review, giugno 1967; traduzione di Maria Giovanna Cicciari)