Come riassumere, dunque, lo “spirito di Bandung” al centro della retrospettiva Through Cinema We Shall Rise!? Tra le tante risposte possibili, è probabilmente quella di Veerapandiya Kattabomman (B. R. Panthulu, 1959) a spiccare. Prendendo il nome dal leggendario re Tamil del diciottesimo secolo che più di ogni altro seppe resistere alla colonizzazione inglese, il film scarta qualunque primato del racconto lineare-teleologico all’occidentale/hollywoodiana per rimanere strenuamente attaccato alle forme dello spettacolo popolare locale. Non tanto la narrazione ordinata conta, dunque, quanto la simbiosi tra il cinema e la selvatica, frontale, ammiccante teatralità da avanspettacolo, in costante filo diretto con il pubblico, che tra una corrida, una barba finta, un balletto e un intrigo (spesso amoroso) di palazzo sostituiscono il filo della storia con l’immediato deflagrare di ogni momento delle tonalità emotive e delle lusinghe ottiche delle scenografie e dei costumi, le une più irrealmente sgargianti degli altri. Quando poi, a due terzi del film, arriva la battaglia vera, preludio alla resa, la celebrazione dell’eroico sovrano protagonista (lui stesso un trionfo di ruspante, sanguigna saggezza e vigore popolaresco) alza i toni oltre il lirismo (ai dialoghi si sostituisce la declamazione di versi come fossimo dentro un poema epico), rigorosamente in spregio a qualsiasi equilibrio espressivo, ma sempre in funzione dell’orgoglioso riconoscersi, da parte di un certo gruppo sociale/nazionale, non solo nelle proprie radici mitiche, ma anche nelle forme spettacolari forgiate autonomamente lungo secoli.
Tracce dello “spirito di Bandung” nel cinema contemporaneo non si lasciano reperire facilmente. Difficile trovare un approccio più contrario a quello di Veerapandiya Kattabomman de L’abbaglio di Roberto Andò, appendice finzionale sulla spedizione dei Mille (c’è però il tenente colonnello Vincenzo Orsini, oltre a Garibaldi stesso) presentato a Rotterdam pochi giorni dopo l’uscita italiana. Se da un lato la testardaggine con cui Andò continua a realizzare un cinema dignitosamente, mediamente letterario fuori tempo massimo e forse fuori dal tempo tout court lo porta ad agganciare elementi apprezzabili (qui: una maniera virtuosa e non banale di trattare il paesaggio siciliano), dall’altro pesanti ombre ideologiche gravano sul triangolo Ficarra-Picone-Servillo riproposto dopo il successo de La stranezza. Sembra cioè che Andò voglia capitalizzare l’abilità del duo comico di passare fluidamente dal dramma alla commedia e viceversa per creare una sintesi tra nazional-popolare e impegno autoriale che però, via Servillo, riconduce puntualmente alla supremazia implicita del secondo. Complice una certa appropriazione di Sciascia (dichiaratamente tra i riferimenti principali del regista), Andò sembra insomma simulare un’alleanza tra coscienza individuale borghese e emancipazione/autocoscienza popolare (l’alleanza che, come è stato detto mille volte, in Italia è stata la grande assente da più di centocinquant’anni in qua) che però si verticalizza sempre a favore della prima, distinguendola troppo nettamente dalla seconda.
Assai più interessante come allegoria della storia nazionale recente è Yasa, di un regista ucraino (Sergij Masloboishchykov) omaggiato dall’IFFR con una retrospettiva. Girato quasi tutto in forma di duetti (ben stratificati in quasi ogni inquadratura in virtù di mise en scène, luci, profondità di campo etc.) nel suo villone modernista sul Dnepr e con vista sui cupoloni di Kiev tra la non più giovane, ricchissima Hanna, e Darka, ex di suo figlio morto a Maidan nel 2014, ragazzina che accoglie come una figlia dopo il suo ferimento al fronte, Yasa drammatizza (nel senso squisitamente teatrale del termine) l’impasse di una nazione in cui ogni nuova palingenesi (rivoluzione arancione del 2004, sequel nel 2014, guerra in Donbass etc.) si rivela sterile: a proliferare, ricorrere, ripetersi, sono solo gli specchi (la regia si sofferma sovente sulle superfici del villone, spesso opacamente riflettenti), che essi rimandino un’immagine fedele o distorta o magari capovolta. Niente catarsi, ma neanche niente polarizzazione melodrammatica: le incursioni liriche (musica sacra, ralenti) frapposte fra una e la seguente di quasi tutte le scene hanno appunto la funzione di fare correre elettricamente l’energia (catalizzata egregiamente dalle due bravissime attrici protagoniste) senza stabilizzarla, perché mai stabilizzato rimane l’andirivieni binario tra buttarsi a piedi pari dentro il trauma e proteggersene, l’uno e l’altro infinitamente reversibili l’uno nell’altro senza mai risolversi dialetticamente. Cinema civile di impressionante solidità estetica, che guarda alla propria nazione con amore evidente (Hanna è interpretata dalla compagna del regista), ma che per “amore” intende, come deve essere, mettere spietatamente l’oggetto d’amore faccia a faccia con le sue magagne irrisolte, con le sue contraddizioni, con i suoi vicoli ciechi.
E se il pessimo L’oro del Reno (di Lorenzo Pullega) non si scosta quasi per niente da un’idea di heritage territoriale (qui, dell’area del fiume omonimo, nel bolognese e dintorni) da Pro Loco, dal Bangladesh arriva l’ottimo Kajolrekha di Giasuddin Selim ad insegnarci che il patrimonio culturale può essere qualcosa di vivo, credibile, vicino a noi. Su di un poema in versi (e musica) di quattrocento anni fa si snodano le peripezie di un principe che perde tutto al gioco e della figlia caduta in schiavitù ma che riacquisirà il proprio status lungo una linea di azione dritta e tortuosa a un tempo, dove il Destino è tutto, ma anche tutto tranne che prevedibile. Selim è ben consapevole delle strutture del Mito e del suo spinoso potenziale universale, e tra i pochi cambiamenti impressi all’originale i rovesciamenti alla Edipo in particolare vengono sbozzati con attenzione verosimilmente auto-cosciente, come auto-cosciente è il sistematico rovesciarsi di continuità (la fedeltà alla predestinazione) e discontinuità (apertura alla contingenza), tra scritto e orale. Questa consapevolezza viene tuttavia (e giustamente) nascosta “in profondità” e usata per ridare vita a uno spettacolo vecchio secoli come immediatamente popolare e leggibile anche nel contesto attuale. Lungo circa 25 canzoni (poche quelle cantate dei personaggi, molte in voce over) con ruolo di spina dorsale narrativa, Selim fa sì che inquadrature di chiaro stampo pittorico (rette, più che dai pochi ma armonici elementi grafici, dal gioco di campiture cromatiche) si affaccino sulla tridimensionalità e sulla verosimiglianza riducendo la recitazione a pochi segni quasi stilizzati, ma che non rinunciano a un certo volume e spessore pur nella grande economia emotiva, così come il montaggio non rinuncia a creare uno spazio filmico a tutto tondo.
Non è arduo capire perché, in ambito europeo, si faccia fatica a rintracciare lo spirito di Bandung: è soprattutto in Europa (benché, certo, non solo lì) che lo stato-nazione è mutato in qualcosa di difficilmente riconoscibile e maneggiabile, qualcosa di indubbiamente molto diverso da quell’implacabile centralizzazione del Potere che era un tempo. Morto, lo stato-nazione non è né probabilmente sarà mai, ma sicuramente ha cambiato pelle. Ce lo ha insegnato Sokurov con la sua tetralogia Hitler-Lenin-Hirohito-Faust: il Potere oggi ha forme disperse, disciolte, fluide, pervasive che si sovrappongono solo debolmente con chi, il Potere, crede di tenerlo in mano. Non sorprende dunque che molti, in Europa, stiano seguendo il solco tracciato da Sokurov per cercare di mappare la mutazione dello stato-nazione e del Potere di cui deve, o doveva, fungere da centralizzazione.
Poco più che interessante Our Father – The Last Days of a Dictator di José Felipe Costa, sugli ultimi giorni di vita di Salazar, nel 1968. Non mancano i lati positivi: dona Maria de Jesus, governante nel palazzo del dittatore portoghese (dal cui perimetro il film non esce mai), è un gran personaggio, e già da sola rende alla perfezione quanto patetico fosse il paternalismo straccione, l’ottusa demonizzazione del godimento, che caratterizzavano quel regime – ciò che comunque traspira egregiamente anche dalla ricostruzione d’epoca, dall’arredamento rispettabilmente polveroso in cui cominciavano a infiltrarsi timidamente i nuovi materiali dello sviluppo postbellico. Il problema è che, per due ore, il film batte sempre sugli stessi tre-quattro tasti tematici senza trovare immagini che suppliscano alla mancanza di varietà. Troppo abusate, ad esempio, troppo facilmente bunueliane, le allucinazioni del tiranno con gli animali – e da sola l’atmosfera (che pure Costa è bravo a costruire) di tetro isolamento, con il futuro che assedia da ogni parte senza alcuna chance di poterlo sconfiggere, non è sufficiente a reggere l’intero film.
Più riuscito il Quisling di Erik Poppe, già passato a Toronto. Pericoloso impostare un film intero su una Ponderosa Parabola Cristologica, ma la scommessa, se non stravinta, non è neanche persa. Adattando per lo schermo i diari del Pastore che fino alla fine cercò di redimere l’anima del premier che, durante la seconda guerra mondiale, aprì le porte ai nazisti per evitare che la Norvegia venisse distrutta e che subito dopo fu portato davanti al plotone d’esecuzione, Poppe vuole dirci che chi non è collaborazionista scagli la prima pietra, e che dunque Quisling è morto assumendo su di sé i nostri peccati di ignavia affinché essi non ci schiaccino e noi possiamo comunque conviverci. Regista (è quello di Utoya 22 luglio, per intenderci) avvezzo a cercare soggetti spinosi da districare con soluzioni di mise en scène semplici ed efficaci (qui: la ricorsività degli ambienti controbilanciata da una varietà molto deliberata di pattern cromatici e luminosi), Poppe nella parte finale risolve brillantemente il groviglio tra morale, politica e patologia individuale (Quisling, ovviamente, è uno di quelli che vede bolscevichi ovunque anche quando non ci sono) e non si fa mancare pezzi da antologia: il dialogo incrociato, molto bello, tra Quisling, il Pastore, e le rispettive compagne incapsula l’intero assunto del film, di un cristianesimo scandinavo tradizionalmente inseparabile dall’amore coniugale. Il problema è che, se risolve così brillantemente il compenetrarsi di morale, politica e patologia individuale nel finale, è soprattutto perché nella maggior parte del film fino a quel momento Poppe ha confuso deliberatamente e abbondantemente i tre piani, soprattutto con un montaggio non di rado subdolo e tendenzioso. C’è dunque un che di pretesco in questo gioco-delle-tre-carte, e si rimpiange la radicalità che avrebbe avuto un Verhoeven nel tuffarsi a capofitto in questo ginepraio ideologico senza barare, ma nel complesso l’esito è più che degno, regge la propria (notevole) ambizione e si mantiene a livelli nettamente maggiori di fanfaronate senza senso tipo M.
Il peccato imperdonabile di Scurati e di Wright, come quello di Salles con cui si è iniziato questo articolo, è quello di assolvere troppo facilmente lo spettatore, di piazzarlo in una posizione di inattaccabilità che gli risparmia la fatica di uscire da un puro narcisismo individualista. Ai tempi di Bandung come oggi, il cinema veramente politico fa l’esatto contrario.