Prevedibilmente, dopo l’enorme successo al botteghino mondiale, Io sono ancora qui di Walter Salles ha conquistato anche il pubblico dell’International Film Festival Rotterdam, che gli ha attribuito con i suoi voti l’Audience Award. Ruffiano come pochi, il film brasiliano è calcolatamente in sintonia con l’aspetto più deteriore dello Zeitgeist contemporaneo: supporre di essere dalla parte del giusto senza residui, attribuendo simmetricamente il 100% dei torti alla parte avversa. “Io ho ragione e la coscienza pulita, quindi chi non la pensa come me è fascista, quindi io sono antifascista”, e il circolo ricomincia. Per confermare il pubblico in questo (invero pericolosamente manicheo) automatismo circolare, Salles riserva tutte le energie del film a manipolarlo, a centellinare cioè con gradualità la minaccia de, e poi il confronto con, la dittatura militare, in modo che attraverso questa graduale suspense venga assicurata, e poi rinsaldata, l’identificazione a senso unico con una protagonista oppositrice senza macchia. Così, lo spettatore viene riconfermato nelle proprie certezze e scoraggiato a mettersi in discussione, mentre la dimensione individuale viene certificata come necessaria e sufficiente per connettersi alla “causa giusta” e ricevere da essa una gratificazione puramente narcisistico-identitaria (del tipo: mi concepisco in opposizione astratta rispetto a “il governo e i matusa” (cit.), quindi sto dalla parte giusta, quindi non c’è bisogno di entrare nel merito della complessità delle cose). Passati da decenni i giorni (che nessuno sembra più ricordare) in cui la teoria del cinema dimostrava che un simile approccio formale era sufficiente a bollare un film come reazionario a prescindere dalla validità del messaggio e dalla bontà del contenuto, non tutto è perduto: è ancora possibile evidenziare che questo modo di concepire il rapporto con lo spettatore è una maniera estremamente limitata (oltre che ricattatoria) di gestire la politicità di un film, e che altre maniere sono possibili affinché un film sia politico.
Senza che sia necessariamente intenzione dei programmatori, è la pantagruelica programmazione stessa dell’IFFR2025 ad aver fatto emergere questo dato. Negli stessi giorni in cui Io sono ancora qui trionfava presso il pubblico, l’IFFR ha anche ospitato Through Cinema We Shall Rise!, retrospettiva esplicitamente politica che raccoglieva alcuni dei film presentati ai festival di Tashkent 1958, Cairo 1960, Jakarta 1964: manifestazioni tese a consolidare i rapporti tra le nazioni africane e asiatiche che allora si stavano decolonizzando, in uno spirito analogo a quello formalizzato dalla celebre conferenza di Bandung nel 1955. Ciò che oggi passa per “Global South” nacque lì, e lì vennero discussi i presupposti per qualche convergenza politico-economica: insomma, per mettere in pratica la decolonizzazione e perfezionare l’autodeterminazione supportandosi gli uni con gli altri.
Naturalmente, le questioni storiche toccate da questa retrospettiva sono legione (un esempio fra molti: l’assenza di film effettivamente realizzati da africani in kermesse dove i film africani erano fatti da russi o britannici): in questo breve articolo le lasceremo da parte, limitandoci invece a segnalare qualche esempio di come i titoli presentati in questa retrospettiva ci offrano occasioni preziose di renderci conto di quante altre possibilità estetiche ci siano di fare e leggere film politicamente, al di là di quelle spesso misere e tremendamente conformiste a disposizione oggi (almeno in un numero scoraggiante di casi).
Realizzato con mezzi poco più che di fortuna (ma che occhio per gli spazi nelle scene di battaglia!) e ambientato durante la lotta per cacciare gli olandesi dall’Indonesia, Turang (Bachtiar Siagian 1958) guarda alla protagonista Tipi (figlia di un capovillaggio che ospita, con grande rischio, uno dei guerriglieri feriti nascondendolo dagli occupanti) in maniera diametralmente opposta a come Salles guarda alla sua Eunice Paiva – e non solo perché questa appartiene alla élite socioeconomica laddove quella di Siagian appartiene al popolo minuto. Tutto Io sono ancora qui ruota intorno alla protagonista, in Turang quasi niente: fatto per riavvicinare dimensioni notoriamente a distanza (o vicinanza) variabile nelle lotte anticoloniali come il popolo da un lato e la lotta militare dall’altro, ambo queste dimensioni (anche per via della meticolosa lunghezza con cui vengono restituiti da un lato i rituali di gruppo come le occupazioni quotidiane in un caso, le operazioni di guerriglia nell’altro) sono macro-blocchi che si compenetrano con ruvidità senza fondersi in un tutto unico. Tale fusione sarebbe illusoria, una truffa idealistica ai danni dello spettatore: ed è esclusivamente nei dolorosi interstizi di dimensioni che si attraggono senza davvero integrarsi, senza diventare Uno (nemmeno con l’ingombrante collante del musical: altro blocco che può incastrarsi solo a fatica), che emerge qua e là la figura melodrammatica di Tipi, innamorata del fuggiasco e poi vittima, ma tutt’altro che centro di gravità di un film giustamente interessato molto più agli spigoli vivi della lotta che all’identificazione dello spettatore con il singolo lottatore. Regola numero uno del film politico per davvero: mostrare i conflitti estendendo il conflitto alla forma, rendendola internamente conflittuale essa stessa, senza indorare la pillola.
E se proprio la si deve indorare, si ecceda in quel senso: come noto, i film di propaganda sono spesso eccellenti indicatori dei conflitti politici nel momento stesso in cui si sforzano vistosamente di occultarli. Five Golden Flowers (Wang Jiayi, 1959) è una ridente commedia degli equivoci ambientata in un ridente villaggio di etnia Bai, nello Yunnan: uno dei non pochi casi in cui il governo di Pechino ha dipinto folklore, costumi e paesaggi delle remote comunità periferiche in termini idilliaci per dare l’idea che il Grande Balzo In Avanti stesse procedendo senza intoppi e, soprattutto, capillarmente in ogni anfratto dell’impero. Filone, questo, ovviamente tutt’altro che privo di intersezioni con tanta propaganda sovietica di esagerata operosità e felicità rurali, e dunque scelto dai selezionatori per indicare che tra Tashkent, Cairo (dove questo film fu presentato) e Jakarta l’influenza cinese stava crescendo via via, sostituendosi a quella russa. Impossibile dubitare che i due giovani di province e etnie diverse incontratisi in una festa paesana e fortuitamente smarritisi si reincontreranno e sposeranno infine dopo molte peripezie, ma il moltiplicarsi parossistico dei mediatori (un paio anche venuti dalla capitale) che, cercando di ricongiungerli, finiscono ogni volta per allontanarli, suggerisce involontariamente ma inequivocabilmente che il centro e la periferia dell’impero sono connessi meno fluidamente di quanto si potrebbe pensare – e soprattutto: che il centro (Pechino) potrebbe non essere la via più efficiente per collegare tra loro una comunità periferica con un’altra. E in un film che tanto insiste sulla genuinità delle ambientazioni, le due principali scene musicali della coppia protagonista sono in un locus amoenus visibilmente ricostruito in studio… Rimosso dalla porta, il conflitto rientra insomma dalla finestra, soprattutto a livello formale.
È il bello dei film di propaganda. A Rotterdam se ne è rivisto un grande classico: The Red Detachment of Women (Xie Jin, 1961), sempre cinese. Capace di padroneggiare un’ampia palette di toni e di articolarne le transizioni con maestria alla John Ford (ma, a differenza di questo, lasciando proficuamente spazio nella tavolozza anche a larghe chiazze di opaco, di anodino, di atonale), Xie Jin firma un saggio intramontabile sui rapporti controversi tra spontaneismo velleitario e disciplina rivoluzionaria: naturalmente la seconda passa per superiore, ma davvero è così lontana dal primo? Fa invece pensare a Howard Hawks l’ambiguità con cui guarda, oltre che al travestimento, all’universo femminile (al centro anche di Woman Basketball Player no. 5, 1957, e Two Stage Sisters, 1964): cosa esattamente distingue le donne-soldato dagli uomini-soldati, in questo “distaccamento rosso” che trasforma un’anarchica schiava liberata “alla Mulan” in un lucido capo militare che lotta per la rivoluzione? Gli estemporanei e ininfluenti neonati che si portano appresso? Dappertutto, insomma, si annida il paradosso, la dialettica, e le zone oscure (anche, letteralmente, a livello fotografico) – e che la retrospettiva Through Cinema We Shall Rise! tenga molto a che la decolonizzazione vada inquadrata dialetticamente anziché a senso unico (specie per orientarsi in ciò che della decolonizzazione rimane oggi, nel presente) è confermato dalla presenza di due film su quando, a fine anni Cinquanta, l’Esercito Popolare di Liberazione prese il controllo del Tibet: uno di propaganda cinese (Serfs, Li Jun, 1965), l’altro tibetano (Four Rivers Six Ranges, Shenpenn Khymsar, 2025).
Insieme a quello di Xie Jin, The Open Door (Henry Barakat, 1963) è l’altro titolo spiccatamente femminile della rassegna. Impegnata nelle piazze e nelle strade per l’affermazione del socialismo anticoloniale del presidente Gamal Abd el-Nasser, Laila si scontra con il conservatorismo della propria famiglia e del microcosmo sociale che le ruota intorno, specialmente per quanto riguarda i costumi matrimonial-sessuali. The Open Door comincia esasperando melodrammaticamente, come solo il cinema egiziano sa fare, i conflitti (soprattutto quello tra pubblico e privato, enfatizzato con una resa molto intelligente dello spazio domestico e delle sue stratificazioni); man mano però che Leila prende coscienza di se stessa e la parabola nasseriana passa di fase in fase (non ultima la nazionalizzazione del canale di Suez), sempre più lontane però dai protagonisti, i conflitti (melo)drammatici si stemperano, e la matrice romanzesca della storia conquista sempre più il piano piano, stringendo sempre più sulla coscienza soggettiva di Leila. Affiora così il tremendo sospetto che il sogno di emancipazione sociale dell’Egitto repubblicano sia essenzialmente un fantasma borghese, non meno fantasmatico di come uomini e donne (borghesi) concepiscono il proprio desiderio verso l’altro sesso. Come ci si comporta con i fantasmi? Esiste davvero un’alternativa a correre tra le loro braccia?
Altro grande personaggio femminile è la mater familias di Ballad of the Cart (Yamamoto Satsuo, 1959). Nei tre festival in questione non c’erano delegazioni nipponiche (a Bandung il Giappone non c’era), ma come non mostrare in quei contesti un film con una tale vocazione sociale? Di decenni di storia giapponese non rimane che qualche lontana rifrazione: per il resto, la lunga vita di una umile coppia di provincia dalla giovinezza fino alla terza età è innervata soprattutto da preoccupazioni materiali, transazioni di soldi e servizi, e finanche attivismi sindacali (il regista ha la tessera del partito comunista). Letteralmente, non c’è tempo per il dramma: anche i figli venduti per debiti vanno e vengono (e tornano via, in città) senza tante storie; gli affetti sono bolle che si formano e scoppiano a lato dell’incalzare spedito delle circostanze pratiche della vita di tutti i giorni. Yamamoto sa di cosa parla, conosce le campagne e la gente che ci lavora; non solo ne riproduce egregiamente tipi e caratteri, ma soprattutto lo spazio (formato scope “largo” usato magistralmente per infondere dettaglio a paesaggi e focolari domestici, rendendoli vivi, pulsanti di dettagli) e il tempo (il flusso veloce in cui i sempre indaffarati personaggi si lasciano trascinare, e che volenterosamente, pragmaticamente cercano di navigare alla meglio).