«Il film saggio è un genere cinematografico caratterizzato dalla presenza della voce dell’autore (o di un alter ego) che guida lo spettatore attraverso le sue riflessioni», questa la definizione riportata sul sito del Cagliari Essay Film, premio dedicato al film-saggio che lo scorso dicembre ha tenuto la sua seconda edizione. Un festival che fa del proprio contenitore di appartenenza un punto di forza importante, contrariamente a certi eventi di genere che, a un certo punto, ne vengono limitati. Per esempio, una buona rassegna di film horror sarà in grado di proporre i contemporanei approdi tematico-stilistici legati al cinema dell’orrore e, nel migliore dei casi, di anticiparne qualcuno. Un’operazione che col passare del tempo rischia però di soffocare la proposta, portandola alla ridondanza. Una questione che nel caso del film-saggio è ben diversa in quanto, così come per il documentario, per “genere” si intende qualcosa di potenzialmente incatalogabile, o comunque che va ben oltre la definibilità che un western o un musical può avere. Questo perché la specificità dell’ essay film ha molto a che vedere con la forma cinematografica e il suo sviluppo.
In Mama micra , film vincitore del Concorso Internazionale, abitiamo il ricordo di una madre mentre è in dialogo con la figlia. Scopriamo i retroscena di una decisione sofferta e complessa, che nel proprio svelamento riesce a riavvicinare le due protagoniste. Cosa è andato storto? Il cinema, il film-saggio, permette di risolvere la questione accostando alla voce narrante (tipica del genere) un’ascoltatrice attiva che permette, nel finale, di “vedere” ciò che nell’apertura del film veniva meno. Ovvero il controcampo sulla madre. Nella prima scena vediamo la ragazza tenerle la mano e, infine, riflettersi su uno specchio. Ciò a cui tutto Mama micra tende è proprio la ricerca di quel controcampo, che nell’ultima inquadratura – tramite un’associazione compositiva – , si darà, permettendo di totalizzare lo specchiarsi della figlia.
A home on every floor ripensa la memoria in altro modo. La poetessa Hanna Asefaw racconta il palazzo in cui è cresciuta da bambina, mentre le immagini ne propongono una miniatura visitabile. Uno spazio del ricordo che, in questo caso, è reso ancora più tangibile e con cui è possibile interagire, toccandolo. Anche qui, ancora una volta, sarà il narratore a essere l’elemento peculiare in quanto, alla voce viene dato anche un volto, un corpo, quello di Hanna Asefaw stessa. Un corpo che consente un’immersione ancora più profonda e rabbiosa nella memoria, che si fa grido prima personale e poi politico. Fino alla distruzione dell’elemento primitivo di quel ricordo.
Un elemento che in Simply divine , un film saggio in animazione, corrisponde a una valigia da cui riemerge una storia d’amore nella Romania degli anni ‘30. A narrare la vicenda è la ricettrice di alcune lettere, oggi novantenne. Ed è proprio dal suo punto di vista che esperiremo questa storia, come suggerito dalla soggettiva che ci trasporta dal presente a quasi un centinaio di anni prima. Il ricordo dell’anziana signora si percepisce, allo stesso tempo, come presente e lontano. Non vi sono dettagli nei tratti animati e nei colori. Gli sfondi risultano abbozzati, così come i suoni d’ambiente. L’unico elemento rimasto “vivo” è tutto ciò che riguarda il giovane soldato. Il suo primo amore.
Al contrario di A home on every floor , dove la ricostruzione del palazzo è certosina, qui non vi è volontariamente spazio per il dettaglio. In compenso, sono palpabili le sensazioni e il sentimento: gli sguardi, le carezze, una risata. Tre cortometraggi del Cagliari Essay Film che pensano la memoria (tematica tra le più trattate dal film saggio) in maniera sempre diversa. A cui vanno aggiunti i temi delle sezioni “Isola” e “Corpo e Mente”, che rivelano le possibilità con cui questo cinema riflessivo si mostra. Un genere da sempre fortemente influenzato dalle derive tecnologiche del momento, come testimoniato dal cinema di Andrea Gatopoulos, a cui il festival quest’anno ha dedicato un focus. Tutti elementi che ampliano ancor di più l’indefinibilità di questo cinema che spesso – Marker insegna – è stato un luogo dover poter sperimentare, e da cui poi fiction e documentario hanno attinto.