Non possiamo vedere la luce se l’oscurità ci circonda. Niente luce metafisica, ma un chiarore di sogno e un bagliore di fiamma incendiaria, politica. Sogno e prassi politica, sogno e intervento sociale: il cinema di Payal Kapadia sembra comporsi di questi due elementi apparentemente inconciliabili nelle loro rispettive tensioni temporali (il futuro, il presente), ma inestricabilmente implicati quando nella sua personale cosmologia il sogno è realtà (complice il padre psicanalista), contribuisce attivamente a modificarla e trasfigurarla, pure attraverso la sua strumentalità narratologica. In The Last Mango Before the Monsoon (2015) il monsone reca in sogno a una donna il suo marito scomparso, reincarnato in un elefante ripreso da una videocamera di monitoraggio appesa a un albero nella foresta: vorrebbe mangiare con lei un ultimo piatto di puran poli. Mentre in A Night of Knowing Nothing (2021) il sogno emerge dalle lettere di L. come una premonizione che si autoavvera nella realtà politica dell’India, quando scoppiano le proteste degli studenti universitari – tra cui quelli del Film and Television Institute of India dove studiava la regista – contro il governo autoritario di Narendr Modi, a partire da alcuni casi di discriminazione e violenza sessuale, razziale e di classe ai danni di musulmani/e e dalit.
Nei film di Kapadia la dimensione onirica della donna è strettamente connessa con la sua posizione sociale. E sia in The Last Mango Before the Monsoon che in A Night of Knowing Nothing i sogni ci parlano dei rigidi rapporti intercastali che regolano la vita amorosa nella società indiana: donne costrette a sposarsi contro la loro volontà, violenze di genere, amori impossibili per separazioni religiose intestine. Come una fantasia ricorrente, in una delle prime scene di All We Imagine As Light, Grand Prix al Festival di Cannes 2024, un’anziana paziente racconta alle infermiere dell’ospedale di aver sognato suo marito, riconosciuto per il forte odore di tabacco. Un altro sogno che prepara la realtà indecisa e permeabile del cinema di Kapadia a realizzarsi, a sfolgorare come un leggero balenio luminoso.
All We Imagine As Light ritorna sugli effetti che hanno le sovrastrutture patriarcali e capitalistiche sui corpi e gli inconsci femminili, rielaborando modelli narrativi della tradizione folkloristica dell’India occidentale e mescolandoli con una sensibilità visiva e di racconto che richiama alcuni nomi del cinema europeo contemporaneo: Alice Rohrwacher, Miguel Gomes e Aki Kaurismäki, per dirne alcuni. Le tre donne protagoniste di All We Imagine As Light raccolgono in qualche modo tratti e destini delle soggettività femminili che compaiono nei lavori precedenti di Kapadia. Se Anu ricorda L. di A Night of Knowing Nothing, innamorata di un ragazzo musulmano in una società induista conservatrice che proibisce relazioni interreligiose, Parvaty assomiglia all’anziana vedova sognatrice di The Last Mango Before The Monsoon, ma trapiantata nella megalopoli neoliberista di Mumbai, il cui mercato immobiliare gentrificatore costringe la donna a lasciare la propria abitazione, di cui non conserva un attestato di proprietà (perché in tempi meno recenti mai sarebbe servito), e far ritorno al suo villaggio natale. Prabha, invece, appare come il personaggio più esemplare, abbandonata dal marito emigrato in Germania, che le spedisce misteriosi pacchi regalo (un rice cooker rosso, correlativo oggettivo della sua condizione quotidiana di passività domestica), infermiera in ospedale insieme ad Anu e sua coinquilina di età maggiore, intrappolata nella sua solitudine vulnerabile di donna sposata, e allo stesso tempo mossa dal desiderio di liberarsi dal vincolo matrimoniale.
Tutte e tre sono soggettività in divenire, che niente hanno in comune con le soggettività programmate e dottrinarie dei film pseudofemministi di Lanthimos (e non solo), perché vivono e fanno esperienza dell’errore e della contraddizione, e Kapadia ne documenta la presa di consapevolezza, l’assunzione graduale di una gestualità più politica, più libera, il percorso d’emancipazione dall’isolamento individualistico alla sorellanza solidale: un percorso d’emancipazione strutturalmente e geograficamente diviso in due parti del film, la prima ambientata a Mumbai, città di impermanenze, di amori infranti, di relazioni di potere, di tutto ciò che scorre e fugge come i treni che la attraversano, la seconda in campagna, nel villaggio natale di Parvaty dove il tempo scorre più lentamente e la vita è più comunitaria, i corpi più sensuali e vicini, seguendo un altro topos narrativo d’antica tradizione (lo spostamento dalla città alla campagna).
Dalla dimensione collettiva di A Night of Knowing Nothing, dove gli studenti marciavano per le strade gridando cori in nome di Eisenstein e Pudovkin, All We Imagine As Light si fa più intimista, più favolistico, senza però dimenticarsi le immancabili dipendenze tra individuo e società: i conflitti che interessano le relazioni d’amore intercastali e interreligiose, i rapporti tra moglie e marito, si inseriscono dentro un conflitto urbano e politico più grande, un processo di modernizzazione che stravolgendo i quartieri stravolge pure le relazioni che dentro quei quartieri hanno luogo. Non si possono disunire il sasso lanciato contro il cartellone pubblicitario che annuncia la costruzione di un complesso residenziale di lusso e il rifiuto di Prabha di tornare dentro l’alveo matrimoniale nel momento in cui suo marito compare improvvisamente naufrago dalle onde del mare, in un’altra delle tante allucinazioni oniriche che punteggiano la filmografia di Kapadia. Fanno parte dello stesso montaggio. Sotto il magistero politico e teorico di Eisenstein e Pudovkin (ma pure di autori come Ritwik Ghatak) Kapadia giustappone suoni non-diegetici e immagini, trovando nelle svolazzate jazz di The Homeless Wanderer della pianista etiope Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou un corrispettivo sonoro contrappuntistico al montaggio impermanente e atomizzante della prima parte del film, al contrario più disteso e unificante nella seconda. Anche l’utilizzo del voice over, oltre a raccontare le illusioni che nascono e muoiono nella costante ricerca di denaro e amore che muovono incessantemente Mumbai, crea un secondo punto enunciativo che distanzia favolisticamente il racconto dall’immagine, come succede per esempio nell’ultimo lavoro di Miguel Gomes, Grand Tour.
All We Imagine As Light è quindi sia favola proletaria sia cityfilm (non a caso nella selezione della regista per Criterion Closet Picks c’è Taipei Story di Edward Yang), tanto che l’incipit e molti intermezzi sono riprese documentarie di Mumbai, a rimarcare quasi le discendenze da un cinema e un racconto neorealista. Ma Kapadia si pone in una linea precisa del cinema di oggi (i già citati Gomes, Rohrwacher, Kaurismäki, ma anche Koberidze) in cui lo statuto della finzione è contaminato da due lati opposti dal documentario e dal magico, dove il reale si configura più come proiezione di visioni favolistiche che nella sua granitica razionalità ed evidenza ed è filmato e interpretato attraverso un’intermedialità, che va dalla messaggistica sovrimpressa all’immagine al disegno e alla poesia, capace di visualizzare la contemporaneità con occhi nuovi. Nel caso di Kapadia il reale è permeato di sogno, la sua immagine bucherellata da una luce precaria che richiama assenze e sottili rapporti di potere. La luce che cade sui personaggi è sempre politica, come i fantasmi che abitano i sogni delle donne indiane alla ricerca di una indipendenza dalla società e dall’immaginario patriarcale, capitalista e religioso.