Abbiamo incontrato il regista argentino Nicolàs Torchinsky, vincitore del premio per il miglior lungometraggio della sezione Nuove Visioni nell’ultima edizione del Sicilia Queer con El Polvo. L’intervista che copre anche altre due produzioni di Torchinsky, il lungometraggio La nostalgia del centauro e il corto Erase una vez en Quizca.

 

1- I tuoi due lungometraggi si caratterizzano per l’esplorazione di spazi chiusi, in cui la facoltà di definire il proprio statuto non è attribuita esclusivamente al soggetto umano o al regista-demiurgo. Questo è, immagino, il risultato di una lunga fase esplorativa, un attento lavoro di contemplazione, ma anche di intuizione, sul campo e in fase di montaggio.

Per cominciare, mi preme sottolineare che i film ai quali ho lavorato sono il frutto di un processo creativo condiviso con i miei collaboratori. Molto del risultato finale deriva da questo dialogo collettivo, e per fortuna sono opere che dicono molto più di quanto io stesso possa esprimere. Detto ciò, il lavoro è sempre legato alla materia, intesa in senso fisico, nel tempo e nello spazio che abitiamo durante il processo di creazione. Nel cinema credo sia fondamentale scoprire, attraverso l’incontro con gli altri, un modo di osservare. In tal senso, ho l’impressione che entrambi i film si rivolgano all’interiorità, in tutte le sue molteplici accezioni: l’interiorità di un paese, di un territorio simbolico, di una casa, di una relazione intima, l’interiorità come stato dell’anima.

Entrambi i lungometraggi non sono nati come progetti cinematografici premeditati; ciascuno di essi si è imposto con la propria forza, possedendo una vita autonoma anche prima di essere realizzato. Nel caso di La Nostalgia del Centauro, è stato fondamentale l’incontro con i protagonisti – Juan Armando Soria e Alba Rosa, genitori di una cara amica. Avvertimmo la forte sensazione che c’era qualcosa in quel legame che ci parlava, insieme all’evidente fragilità di un piccolo mondo antico sul punto di estinguersi. Loro espressero il desiderio di realizzare un film sulla “tradizione”, e così si delineò un primo approccio alla forma, un’intuizione che ha preceduto l’inizio delle riprese. Ci rendemmo presto conto della difficoltà di catturare cinematograficamente quell’“altro culturale” e della necessità di raccontare qualcosa con loro, piuttosto che fare un film su di loro. Non mi è mai interessato il mero documento, quanto piuttosto la possibilità di costruire un dialogo autentico. Pertanto, era essenziale trovare la giusta distanza, costruire un legame. In questo senso, interpreto il film come un’analisi di quel doppio gioco che tutte le costruzioni culturali ci propongono: esse rappresentano per chi le vive il rifugio, l’eden dell’intimità, ma al contempo possono rivelarsi una prigione dalla quale è difficile evadere.

Il caso di El Polvo è differente. Il film inizia con una perdita: la scomparsa di mia zia, July Regina Romero. Nel 2015, mi riunivo con lei per registrare le nostre conversazioni con l’idea di scrivere un film sulla sua vita di artista transgender. Poco dopo, July si è ammalata gravemente e non abbiamo potuto completare quel percorso. Due giorni dopo la sua morte, nel tentativo di fronteggiare lo sconcerto e la confusione di quella tragedia familiare, spinto da un impulso e con una camera prestata, ho catturato le immagini del suo appartamento, così come era rimasto l’ultima volta che lei vi era stata. Quando la mia famiglia ha iniziato a impacchettare tutto, ho continuato a registrare quel processo. A un anno e mezzo dalle riprese, ho compreso che stavo forse realizzando un film inevitabile, che in un certo senso era venuto a cercarmi, portando con sé l’opportunità di ritrovare July. Una maniera di evocarla attraverso gli oggetti che l’avevano accompagnata in vita e ciò che rimaneva di lei nei suoi spazi, portando a compimento il patto che la morte non ci aveva permesso di rispettare.

Questa pellicola, come esperienza e processo creativo, è stata profondamente segnata dalla vita. In alcuni momenti, mi sono sentito completamente perso: da un lato, l’angoscia personale, dall’altro, l’incertezza rispetto al fatto che ciò che avevo ripreso potesse essere materiale utilizzabile per un film. In mezzo a tanta confusione, sono emerse un paio di intuizioni: dal primo giorno in cui entrai nell’appartamento con la camera, avvertii che il lavoro visivo si sarebbe concentrato sugli oggetti e sugli spazi di July. Una volta iniziato il processo di sgombero, è emersa l’intuizione che familiari e amici si traducessero in mani, corpi, schiene, collane, ombre, ecc., che trasformavano lo spazio muovendo gli oggetti, cancellando tracce, e che attraverso le nostre conversazioni sarebbero potuti emergere e costruirsi riflessi dell’identità complessa e inafferrabile di colei che lo abitava. In definitiva, si trattava di trovare un modo di osservare, di esplorare il quotidiano per forse riacquistare stupore e fascino per il domestico, per il piccolo, per ciò che da lontano appare muto e inerte, ma che, se lo sguardo insiste, comincia a vibrare, a parlare. E noi, coloro che amavamo July e ci siamo trovati a dover sgombrare il suo appartamento, siamo diventati veicoli, vettori della sua memoria affinché attraverso di noi si potessero esprimere anche solo delle scintille della sua vita.

Per quanto riguarda il montaggio, ho avuto la fortuna e il privilegio di scrivere i miei film in collaborazione con grandi montatrici argentine: Ana Poliak in La Nostalgia del Centauro; Lorena Moriconi in El Polvo. Con Ana ci siamo proposti di scrivere un poema, un viaggio onirico con la costante sensazione che le immagini che osserviamo non esistano più, come se il cinema e le stelle ci riportassero dal passato quelle luci che sono ormai ridotte a mito. La possibilità di abitare un “tempo perduto”. Con Loli ci siamo concentrati sulla costruzione di una temporalità emotiva molto particolare: quella del lutto. Un montaggio verticale, di simultaneità disgiunte e di incroci temporali, per evocare July. Catturare, tra parole, suoni e immagini, qualche riflesso, piegando il tempo – il cinema è eccellente in questo – per ricongiungerci con i nostri morti.

2- Un altro elemento comune è la netta disgiunzione tra sonoro e immagine. Tutti i tuoi film partono prima di tutto con un suono, a cui l’immagine giunge in ritardo. L’effetto è a volte ingannevole, a volte particolarmente dialettico, sovvertendo l’immagine.

Quando lavoro con i materiali, nelle mie pellicole, il suono viene prima di tutto. Si presenta come un primo indizio, un impulso affinché tutto il resto accada. L’immagine arriva successivamente. Lo percepisco come un lavoro su un territorio meno certo, più ambiguo. Mi interessa esplorare le sue potenzialità narrative ed espressive affinché non si riduca a un mero accompagnamento visivo o a un ornamento. Ha la priorità nella costruzione dei procedimenti narrativi dei miei film: per contrasto, per asincronia, per discontinuità, per assenza, per una costruzione denaturalizzata dell’ascolto. La possibilità di lavorare sugli incontri e sui non-incontri con l’immagine. Nel suono c’è un mistero da esplorare.

3- In El Polvo invece la disgiunzione tra sonoro e immagine si dispiega perlopiù attraverso il contrasto tra una parola che rimemora e un’immagine che perlustra. Nei tuoi film, della parola, ridotta a formule stanche, non ci si può fidare, mentre gli oggetti si mostrano in tutta la loro tangibile evidenza, rivelando una potenza presentificante ben più incisiva.

L’incontro con la temporalità del lutto rappresenta l’incontro con un tempo che sento essenzialmente discontinuo. Un vortice o una piega in grado di raccogliere immagini e suoni guidati dagli affetti. Tutto il contrario di una temporalità ordinata e lineare.

È in questo senso che in El Polvo la parola riveste un ruolo centrale. Non solo per ciò che esprime, ma anche per ciò tace. Perché, in fondo, non si tratta di verificare la veridicità nella testimonianza, quanto di valutarne il potere evocativo, l’invenzione di un ricordo che rivela qualcosa di più profondo. Questi elementi rappresentano aspetti espressivi e caratteristici del linguaggio parlato.

La registrazione della parola nel film ha ricevuto un trattamento particolare. Non si trattava di mettere le persone in una situazione di intervista, ossia di piena consapevolezza del registro. Si è trattato di catturare una forma di oralità particolare, quella dell’intimità. Non si tratta solo di aneddoti o rappresentazioni che le persone hanno di July, ma anche della drammaturgia personale, del modo in cui ci raccontiamo. Ciò che trovo più interessante, come risultato di questo lavoro, è che alla fine siamo stati veri e propri veicoli di parola, come in un rituale spiritico. Qualcosa di più emerge attraverso le parole. Come dice Samuel Butler: “Avremo perso anche la memoria del nostro incontro…Eppure c’incontreremo, e ci lasceremo, e ancora ci incontreremo, dove s’incontrano i morti, sulle labbra dei vivi“.

Infine, credo che gli oggetti e gli spazi abbiano una loro consistenza innegabile. A modo loro, parlano. Ho anche la sensazione che senza la parola che nomina e che evoca, i fantasmi, o ciò che vi è di spettrale in essa, rimarrebbero intrappolati, e che parole e immagini acquisiscano il loro senso pieno solo confrontandosi con l’ineffabile e l’invisibile. Ecco perché il nominare implica inevitabilmente una perdita e, in questo senso, non può che costituirsi come traccia. Ogni linguaggio è una raccolta di resti o di rovine, un sistema composto da reperti eloquenti sia per ciò che dicono sia per ciò che tacciono. Parlare implica anche definire ciò che non si dirà, così come vedere è una scelta che delinea ciò che non si vede. Vedere e dire si sorreggono sempre su una perdita o un’assenza. Le immagini e le parole sembrano avere come unico obiettivo quello di assediare quel vuoto. In ogni caso, si tratta sempre di generare un incontro con e tra i materiali.

4- In Érase una vez en Quizca si mette ancora più in evidenza la fusione tra fiction e non-fiction. Tutti i tuoi film sono riempiti di performance, rituali, e in fondo anche la memoria è una grande finzione.

Érase una vez en Quizca è un cortometraggio (scritto insieme alla montatrice Valeria Racioppi) nato dall’incontro tra materiali scartati del mio film precedente (La Nostalgia del Centauro) e nuove direzioni suggerite dall’esperienza dell’isolamento sociale durante la pandemia. Per me, quel periodo ha sollevato interrogativi sulla nozione di perdita e sulla necessità di avere vicino i propri cari, di fronte a tanta morte che bussa alle porte. Cosa ci accade quando non possiamo dire addio ai nostri morti? Quando c’è qualcosa che non possiamo raccontare? Come si affronta la vita senza gli altri? Chi racconterà la nostra vita quando non ci saremo più? Quizca è uno spazio e un tempo indeterminati: un territorio aperto all’immaginazione, che ci offre una narrazione e un’esperienza analogica e umana, in un’epoca in cui la morte è divenuta informazione, un dato codificato in numeri.

Per me, ricordare significa creare. Sia in Érase una vez en Quizca che in El Polvo, i ricordi vengono creati nel presente come forme attraverso cui si materializza l’assenza. Come ha scritto Serge Daney, “il cinema esiste soltanto per far ritornare ciò che è già stato visto una volta”.

5- Nel tuo debutto, la nostalgia è anche quella dei Centauros del Desierto (il titolo spagnolo di Sentieri Selvaggi). Entrambi i tuoi lungometraggi sfidano l’immaginario di genere a cui dovrebbero appartenere: in La Nostalgia del Centauro l’ambientazione western si rivela un palcoscenico di miti logori; in El Polvo la parola rimemorante sembra incapace di racchiudere del tutto il senso di un’esistenza.

Si tratta di una tensione o di un confine. Tra ciò che rimane, ciò che è sul punto di scomparire e l’assenza. C’è un poeta argentino, Mariano Blatt, che afferma: “la poesia, ciò che si definisce poetico, è possibile solo quando qualcosa manca o sta per sfuggirci”. Credo che i film evidenzino l’incompiutezza del sistema di rappresentazione e suggeriscano un cammino verso ciò che è assente. La forma in cui si materializza l’assenza: quel vuoto attorno al quale si costruisce il linguaggio.

6- In uno dei racconti di Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese presenta il centauro Chironte come un melanconico di un tempo in cui le cose accadevano, in cui una simbiosi tra uomo e natura era ancora possibile. In un certo senso, nei tuoi film ritorna l’idea di un’eccedenza della vita che forse non si scorge più, o non si chiede più, almeno nel mondo umano.

Pur avendo avuto accesso, nel corso della mia vita, a risorse pedagogiche, letterarie e cinematografiche legate alla figura del gaucho, ho sempre trovato questo immaginario lontano ed estraneo alla mia cultura urbana. Senza poter scegliere o pensarci a fondo, la mia formazione mi ha plasmato come discendente di coloro che scesero dalle navi fuggendo da grandi catastrofi umane. Cosa potesse esserci in questa terra a quell’epoca era come un anello mancante che questo film mi ha restituito: un lignaggio meticcio poco esplorato.

Il tema della “tradizione” si presentava come un labirinto inaffrontabile, il che mi scoraggiava. Avevo solo domande e alcuni piste tematiche, un insieme di congetture su cui lavorare. Qual è il nostro passato? Come immaginiamo la nostra origine? Quali rappresentazioni abbiamo della nostra identità? Cosa significa appartenere a un luogo? Ha un significato l’appartenenza? Che valore ha oggi riflettere sulla tradizione? Cosa può raccontarci il passato sul nostro presente? A chi appartiene questo passato? La tradizione è solo la scorza vuota di cerimonie ufficiali? O nasconde un senso che vale la pena riscoprire? Il film non è una revisione del passato storico, né intende ricostruirlo. Si tratta, piuttosto, di un ritratto interiore dei protagonisti; una narrazione per memorie che propone un viaggio sensoriale attraverso il quale emergeranno questi e altri interrogativi.

La Nostalgia del Centauro lavora attorno al desiderio del gaucho Soria per un tempo (diventato mitico) che si è allontanato dal suo presente e del quale rimane solo un ricordo. La coscienza di ciò che un corpo umano è stato e che ora non è più, di una forma di abitare il mondo che, in un certo senso, cesserà di esistere insieme a lui. Ritengo che il film cerchi di evocare quel “paradiso perduto”, con le sue luci e le sue ombre. Si tratta di abitare una tensione, tra ciò che rimane e ciò che non c’è più. È in questo senso che riflettere sulle tradizioni ci può condurre verso una forma di conoscenza del nostro presente. Non si tratta di un lavoro di riscoperta nostalgica. Non credo che “il passato fosse necessariamente migliore”. Pertanto, ci è sembrato fondamentale dare a Doña Alba Rosa il giusto spazio in questa storia. L’immaginario gauchesco, almeno quello popolare, che è quello che conosciamo, riserva un posto molto marginale e accidentale ai personaggi femminili ed era questo uno dei misteri da, magari, rivelare.

Riguardo al prezioso libro di Pavese che menzioni, credo lavori sull’idea di rifondazione del mito. Un concetto bello e potente per ripensare e immaginare in questi tempi che stiamo vivendo (come ad esempio nel triste presente di un’Argentina dove l’estrema destra si sforza costantemente di “cancellare” la Storia).

7- A differenza di Pavese, tu mantieni un certo tipo di animismo, che forse non appartiene più all’uomo, una capacità di ricongiungersi a delle forze invisibili, che forse solo un freddo occhio meccanico può (farci) intravvedere.

Credo che i miei lavori, nel migliore dei casi, possano suggerire domande piuttosto che fornire risposte. L’intento è di mostrare “ciò che non si può vedere o udire”. Infine, mi ritrovo sempre attratto da persone o storie che si trovano ai margini, per un motivo o per un altro, dei discorsi dominanti. Ciò che pensiamo sia finito o superfluo può ritornare. Ad esempio, attualmente in Argentina, stiamo vivendo le conseguenze di aver considerato superati o non necessari tanto i discorsi sui diritti umani quanto quelli sulla diversità sessuale. Lo considero un errore del nostro progressismo e ora en paghiamo le conseguenze. In questo senso credo ci sia molto da ascoltare e non dobbiamo smettere di guardare intorno a noi. È necessario combattere contro la riproduzione infinita attraverso i dispositivi, i social media e i mezzi di comunicazione. Proporre un’altro tipo di narrativa che affronti quegli universi da prospettive nuove. Tentare di restituire un po’ di ambiguità a un mondo dove tutto sembra avere una risposta e ogni cosa possa essere assorbita. Creare uno spazio di silenzio da cui poterci pronunciare. Infine, credo esistano forze pronte a sottrarci la nostra potenza, a rattristarci e che ogni epoca debba cercare di ritrovare la propria potenza di resistenza e di creazione. Mai in solitudine, ma sempre in comunità.

8- Infine, riguardo alla situazione politica attuale in Argentina e alle sue ripercussioni culturali, come ti stai muovendo in un contesto di tagli ai fondi pubblici e ingerenze governative? Quali sono le prospettive per un cinema orgogliosamente indipendente?

Si tratta di una questione complessa, perché stanno accadendo così tante cose da rendere impossibile un’analisi completa. In termini generali, posso dire che credo che stiamo vivendo una sorta di incubo neo-feudale. Un tempo di distruzione, impoverimento, pauperizzazione della vita, segregazione delle differenze e censura nel mio Paese. Distruzione del pubblico in senso lato (cioè dello Stato). Disinvestimento nell’istruzione, nella sanità, nella cultura perseguito attraverso una diffamazione tramite i media e i social network volto a creare un’opinione pubblica, a generare un “buon senso” (generalmente basato sulla violenza e sul risentimento) per attaccare i vari settori sottraendo loro risorse.

Rispetto alla situazione specifica del cinema, ci troviamo in un momento particolarmente complicato. L’Instituto de cine de Argentina (INCAA) è presieduto da un tecnocrate scelto dal premier, che ha implementato politiche di distruzione del nostro cinema, ignorando il parere di lavoratori, sindacati e associazioni. Hanno dimostrato un profondo disprezzo per l’intera comunità audiovisiva, attuando licenziamenti, chiusure di programmi comunitari, tagli generali al budget e interruzioni delle risorse per le riprese. Recentemente, attraverso un decreto presidenziale, sono state apportate modifiche sostanziali alla Legge sul Cinema con l’obiettivo di distruggere la promozione e l’esercizio del nostro cinema. Tutto ciò avviene sotto argomenti fallaci che nascondono i veri interessi di questo governo: annientare il pensiero critico, costruire un’identità nazionale diversa, una nuova narrazione di questa epoca, e cancellare la nostra memoria come Paese. Questo si verifica concependo il cinema come merce, ovvero come bene di consumo e non come una possibilità di generare patrimonio culturale, accesso alla conoscenza e sviluppo del linguaggio artistico. Per questo motivo (e per molti altri) l’intera comunità audiovisiva si oppone a questo piano sistematico contro le espressioni della cultura nazionale che cercano di silenziare le voci dissidenti e denunciano i tentativi di censura nel nostro Paese.

Di questi tempi penso che il cinema indipendente abbia molte sfide da affrontare. Da un lato, dobbiamo difendere il nostro istituto cinematografico, che, con tutti i suoi difetti, ha permesso il fiorire di una cinematografia molto diversificata e prolifica. È giusto dire che senza l’istituto di cinema, il cinema argentino come lo conosciamo oggi non esisterebbe. D’altro canto, è fondamentale continuare a produrre. Penso che se smettessimo di fare cinema, anche in questi tempi così difficili e precari, quello sarebbe il loro trionfo. Dobbiamo trovare modi per continuare a produrre, perché se intendiamo il fascismo come un modo di organizzare le percezioni in modo oscuro e gli affetti in modo triste, che abbia o meno una forma politica, potrà trionfare solo se ci lasciamo guidare dalla paura. Se non ci lasciamo guidare dalla paura, allora è possibile resistere.