Passano le stagioni, gli inverni e la spazzatura sulla stella, nella hall of fame hollywoodiana, di Elisabeth Sparkle (Demi Moore), la cui brillante carriera è ormai giunta alla fine. A sancire il suo licenziamento è inesorabilmente la sua età, Elizabeth è ormai troppo vecchia per continuare a dirigere lo show di aerobica di cui per anni è stata protagonista, il pubblico vuole qualcosa di nuovo, non è più tempo del mostrare una vecchiaia in forma come fece Jane Fonda. Inizia così The Substance, il secondo film di Coralie Fargeat.

Le premesse sono così vicine al nostro mondo da istituire nel film una dimensione di iperrealismo; la critica al sistema dell’intrattenimento – e di conseguenza alla nostra società nel suo complesso – appare subito limpida: viviamo in un mondo usa e getta, dove l’unica cosa che vende è la novità. Non ci vuole molto, però, perché sia esplicitamente evocata una piega sci-fi, quando durante una visita un giovane medico consegna a Elizabeth un biglietto misterioso, che la porterà a scoprire La Sostanza.

Una volta iniettato il farmaco Elisabeth mette al mondo, per partenogenesi, un secondo corpo, una versione più giovane e migliore di sé: Sue (Margaret Qualley). A tutti gli effetti Sue viene “partorita” da Elisabeth, nasce dalla sua schiena aperta in due e si nutre del suo fluido spinale, usandolo come stabilizzante. Le istruzioni sono molto chiare: i due corpi non possono coesistere, ma devono alternare la loro presenza nel mondo di settimana in settimana. Il tema della modifica corporea futuristica è una continua fascinazione per Fargeat: il suo cortometraggio del 2014, Reality+, trattava di un chip cerebrale impiantato che permetteva al ricevente di percepire di avere il fisico perfetto, arrivando a un più accomodante finale.

In The Substance, che piaccia o meno uno dei “film caso” dell’anno, proprio quando Elisabeth inizia a provare invidia per Sue, la giovane smette di rispettare l’equilibrio, portando al progressivo deterioramento del corpo originale. Tra le due si instaura una dinamica di tipo madre-figlia che sembra trasparire nel rapporto tra le due donne: non solo in quanto Sue è nata dal corpo di Elisabeth, ma in quel particolare tipo di invidia e tristezza che spesso le madri provano osservando le figlie. La stessa scusa che Sue usa per assentarsi dal lavoro, ovvero che sua madre è malata, fa leva su quest’idea. Così come il fatto che più Sue prospera, più il corpo di Elisabeth soffre e invecchia può ricordare ciò che molte donne affrontano durante la gravidanza e nei primi anni di vita di una figlia.

Fargeat pone queste riflessioni da un punto di vista femminile, sottolineando attraverso la relazione tra le due, ma anche attraverso il rapporto che le protagoniste hanno con la propria immagine – che sia un riflesso, una locandina, o la propria immagine in televisione – come spesso siano le stesse donne a creare un ossessione morbosa per la bellezza, avendo ormai introiettato lo sguardo della società su di loro, sui loro corpi. Nonostante le inquadrature ravvicinate in maniera grottesca – e quasi disgustosa – del manager del programma, qui non c’è nessun nemico esterno, l’unica forza antagonista si trova già dentro, nei loro sguardi che si riflettono tra le pareti specchianti dell’appartamento di design pronto a diventare l’antro del loro sentire interiore. Il corpo femminile è un film horror in avvenire. Dalla pubertà, l’orribile inizio delle mestruazioni, fino al parto – di cui Carrie e Rosemary’s Baby ne sono l’esempio più scontato – le donne sono spesso state fonte d’ispirazione per generazioni di registi, fino a quando Titane di Julia Ducournau, con la sua vittoria della Palma d’oro, ha segnato l’avvento del body horror al femminile nel cinema. Ma qui la regista è anche interessata al male gaze: la macchina da presa scruta apertamente il corpo di Qualley, vestita e truccata in modo da apparire lucida, un tipo di presentazione dei corpi femminili che ricorda soprattutto il porno. Queste scene sono volutamente protratte nel tempo ed esagerate, fino a diventare satiriche, per meglio ricordarci come una sovraesposizione a film e porno hanno plasmato la nostra idea di bellezza ideale. Il film non è interessato al mantenimento di una logica interna, il funzionamento della Sostanza non è mai chiarito e rimaniamo incerti riguardo all’effettiva condivisione della coscienza di Elisabeth, ma questo non importa, coscienza condivisa o meno, non è forse il destino di ogni donna quello di essere superata da una versione più giovane e migliore di sé?

The Substance è una metafora estremamente caricata e condita dal gore, il messaggio lo conosciamo fin dall’inizio, ma la regista lo porta agli estremi, privando il pubblico di qualsiasi spiraglio di speranza. Il finale non evoca nessun futuro migliore, nessuna soluzione, nessuna fine alla stritolamento della società dello spettacolo. Perché la gioventù come valore capitale pare essere visto come qualcosa di impossibile da sradicare, neppure quando rivela l’organico a chi ci stiamo attaccando.