Il lavoro è identità. Abituati a pensare al lavoro come manifestazione della nostra classe, del nostro prestigio, il nostro valore si misura in base al lavoro che ci rappresenta, identifica, fa di noi quello che siamo. Guardando Anywhere Anytime è chiaro come il lavoro sia la rappresentazione di uno status sociale, di una possibilità di trascendenza sul mondo, il diritto di esistere. L’opera prima del regista iraniano Milad Tangshir, in concorso alla Settimana della Critica dell’81° Mostra del Cinema di Venezia, ora in concorso al Festival Frontdoc, arriva dopo sei anni di ricerche e approfondimenti nel mondo dei rider.

Issa è un giovane immigrato senza documenti, che deve sopravvivere in una grande città italiana. Inizia a lavorare come rider ma l’equilibrio precario crolla quando la sua bici viene rubata. Mentre cerca disperatamente di ritrovarla, Issa viene risucchiato in una spirale drammatica di eventi.

Il film si distende narrativamente in modo distaccato senza caricarsi di dramma o interpretazioni ricalcando la riflessione neorealista di Ladri di biciclette. Partendo dal capolavoro di De Sica, la vera domanda è: chi sono i ladri di biciclette oggi? Senza la pretesa di scomodare una pietra miliare del cinema, Tangshir mostra una situazione attuale, una rappresentazione dell’Italia in tutta la sua impotenza politica e culturale. L’idea di proteggere la realtà dentro un film di finzione svela l’occhio documentarista di Tangshir che sceglie attori non professionisti, ne trattiene i ricordi ed emozioni, lasciando in camera tutto quello che scorre intorno. In Anywhere Anytime si mappa (letteralmente) una città in tutte le sue controversie, disparità sociali ed economiche senza nessuna forma di liberazione/esorcizzazione finale: i problemi continueranno ad esistere, anche lontano da Torino, anche in un posto libero da gerarchie come il mare del finale. Anywhere Anytime si struttura come una semplice parabola della situazione culturale italiana odierna che non offre vincitori, ma solo vinti. Chi sono i vinti? In primis noi che guardiamo, legati al nostro ruolo di spettatori in sala e nella vita reale non possiamo che restare inermi e osservare e, infine, i protagonisti (reali e inventati), impossibilitati a cambiare le loro sorti, ma costretti in una spirale infinita di richieste da soddisfare e sensi di colpa. Il cinema di Tangshir ci tiene a distanza rinunciando alla ricerca cinematografica, all’inquadratura a fuoco, alla costruzione metodica: tutto è così come si vede in nome della semplice vita documentata, niente di più costruito di questa operazione di pura “verità”.

Come in Ladri di Biciclette, la bici non è più solo un mezzo di trasporto, o un escamotage umoristico, ma una questione di sopravvivenza, che in Anywhere Anytime raddoppia la sua importanza perché alla sopravvivenza si lega inevitabilmente l’identità e il suo riconoscimento. La ricerca cinematografica si dirige verso questa nuova sensibilità, lo capiamo anche da un prodotto come La storia di Souleymane di Boris Lojkine che da Cannes a Venezia tracciano un evidente movimento resistente alla visibilità. Essere visti dunque assume una nuova potenza, perché senza la possibilità di essere visti, non si possono cambiare le regole della storia.


Abbiamo incontrato Milad Tangshir durante la presentazione del film al Festival Fontdoc.

Com’è nata l’idea e se si lega in qualche modo alla tua storia personale

Era il 2018 quando ho iniziato ad interessarmi del fenomeno dei rider. Sono andato in giro tutta l’estate con un ragazzo senegalese che accompagnavo durante le consegne, vivendo così le sue attese e mi sono reso conto dell’importanza della bicicletta per sopravvivere. L’associazione immediata è stata con il capolavoro di De sica, e mi sembrava interessante aggiornare quella situazione per raccontare dove siamo e come ci sentiamo oggi. Rispetto alla mia esperienza nel protagonista rivedo tutto il senso di ansia e instabilità costante che tanti immigrati sentono rispetto al permesso di soggiorno e stabilità economica della vita. Io per fortuna non ho dovuto vivere situazioni come quella di Issa ma ho sempre sentito queste sensazioni.

Come ha lavorato con gli attori non professionisti?

Durante i casting più che un attore giusto, cercavo la persona giusta a cui affidare la performance. Io avevo un’idea dell’andamento della storia, ma spesso il film è al loro servizio perché parte della sceneggiatura era costruita in base alle loro emozioni e ricordi. Ho immaginato il meno possibile per loro e semplicemente ho ripreso quello che c’è ed esiste nel mondo.

Il lavoro è ormai legato alla nostra identità. In questo senso però il film non ha una connotazione fortemente politica, ma lascia che la storia prenda le pieghe del reale senza caricare il dramma.

La riflessione sull’identità è uno dei temi principali del film. Anzi, tutto parte dal fatto che Issa tramite l’app per le consegne, assume l’identità del suo amico, come se uno valesse l’altro. Questa natura impersonale e priva di identità è il dramma dell’immigrazione in Italia. Issa senza documenti non ha diritto di esistere, la sua presenza in questo paese non è riconosciuta ed è spinto in una zona di ombra e invisibilità che gli permette di poter perdere tutto in un attimo. è molto difficile dire che non è un film politico, ma la mia intenzione non era di fare un film di denuncia

sociale. Niente retorica solo una storia che guarda nell’occhio di questo problema sociale

Torino diventa una città-incubo, quasi come fosse un labirinto dal quale è impossibile uscire, ma dall’altra parte però è l’unica misura del mondo che Issa conosce.

Ci sono diverse facce di questa città. Non volevo mostrare una Torino legata alle sue bellezze monumentali, ma la città che vive davvero ogni giorno, difficilmente rappresentata dalle immagini in movimento. Torino è fortemente presente, ma nel film si mostra anche nella sua dimensione anonima: è una storia che può succedere in qualsiasi altra parte del mondo.