A Fidai Film fin dal titolo sottolinea la sua carica rivoluzionaria, sabotatrice: fidai, singolare di fedayyin, indica i combattenti sabotatori nella guerriglia armata palestinese. L’ultimo film di Kamal Aljafari (Port of Memory, An Unusual Summer) sabota e sovverte, con gesto guerrigliero, le rappresentazioni propagandistiche di Israele e del suo esercito. Quando nel 1982 Israele invase Beirut, il Palestinian Research Center venne raso al suolo dalle bombe e i documenti, le fotografie e le immagini in movimento lì conservate, se non scomparvero, vennero saccheggiate dall’esercito di occupazione. Un patrimonio perduto che in A Fidai Film viene ri-trafugato, portato nuovamente alla luce attraverso un’operazione filmica tra documentario, cinema d’archivio e cinema sperimentale che nel sabotaggio cerca una contro-storia, un contro-racconto tanto più fondamentale e necessario nel contesto mediale occidentale di falsificazione sistematica delle informazioni visive e testuali che ci arrivano dalla Palestina dopo il 7 ottobre dello scorso anno. Presentato prima alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, e da poco passato in concorso ad Archivio Aperto, A Fidai Film genera nuovi spazi discorsivi sull’uso e ri-uso delle immagini d’archivio e si/ci interroga sul nostro posizionamento di fronte agli archivi coloniali e alle rappresentazioni che producono.
L’archivio per Aljafari si configura come luogo materico su cui intervenire, su cui metter mano: manomettere. La manomissione avviene ad ogni livello del film: dalla produzione — dove ogni mediazione economica e culturale con i proprietari delle immagini salta (l’escamotage usato è quello del “manoscritto ritrovato”, ovvero una misteriosa chat con un amico, posta nei titoli di coda, dove si svela la provenienza delle immagini scomparse: da un posto abbandonato) — fin dentro all’immagine e alle sequenze stesse attraverso risemantizzazioni, cancellature, manipolazioni digitali. L’archivio come spazio istituzionale, generatore di sguardi e archeologia delle ideologie, viene sovvertito, de-istituzionalizzato: dalle mani e dagli occhi del colono le immagini arrivano alle mani e agli occhi del colonizzato, che le ribalta, le inverte. Il processo non è però un’altra riappropriazione, ma un gesto di condivisione e socializzazione. Aljafari rende farockianamente visibili le immagini che compongono l’universo visivo del conflitto israelo-palestinese, rifiutando le associazioni tra archivio e proprietà privata, tra archivio e segregazione: le immagini in A Fidai Film sono possibilità per la creazione di nuovi sguardi politici. In questo modo i documenti e le testimonianze “rubate” dall’esercito israeliano nel 1982 possono circolare nuovamente dentro il discorso de-coloniale e anti-imperialista della lotta palestinese. Il reenactment pacifico dell’occupazione di Jaffa del 1948 si rivela in tutta la sua atroce falsificazione storica; le lacrime di una madre di un martire si vedono nella loro estrema durezza; i bombardamenti su Beirut esplodono ancora dentro i nostri sguardi. L’archivio viene liberato (pure dai suoi confini nazionali e nazionalistici), l’immagine di propaganda restituita brechtianamente al suo reale significato. Le cancellature agiscono nello stesso senso distruggendo l’immagine, tacendo le incursioni grafiche e testuali israeliane, e allo stesso tempo dando voce ad alcuni scritti di Ghassan Kanafani, sovrascritti alle sequenze di propaganda. Come si capisce, A Fidai Film è un lavoro su un immaginario “occupato”. È quindi, fondamentalmente, un lavoro sul cinema come dispositivo del potere da sabotare dal basso, ancora: un luogo immaginario da occupare con il proprio sguardo, un edificio da ricostruire dopo la sua distruzione e scomparsa, come la città di Jaffa in Port of Memory (2010).
La struttura del film assomiglia a un’installazione a canali multipli che accosta intuitivamente e poeticamente le tracce di una contro-storia sull’occupazione e sul genocidio israeliano in Palestina. Il ritmo, più che dal montaggio, che segue ricorrenze e associazioni in una sorta di cronologia sfasata, si dà nella ricostruzione sonora del materiale d’archivio. Se a prima vista può sembrare un film caotico, senza una reale traccia da seguire, a una seconda visione possiamo scorgere la sua costruzione circolare e diffusa, come circolare e diffusa è la violenza che si ripete nella storia del territorio palestinese, nel museo dei giorni ripercorsi nell’archivio (Museum of Days, oltre a essere il titolo della canzone che apre e chiude il film, è anche il nome di uno dei suoi tre capitoli, The Camera of the Dispossesed e Epilogue). A Fidai Film resiste alla cancellazione e falsificazione della memoria storica che passa attraverso le immagini grazie ad altre cancellature, arrivando a modificare l’immagine con l’utilizzo di VFX, viraggi, sgranature, interventi pittorici dove il rosso del sangue riga il quadro dell’inquadratura, o nasconde volti, ricalca dei gesti, insanguina il mare. Ci scorrono davanti tantissime immagini: di gioia di rivolta di dolore, bambini fantasmi un sole infuocato campi di rifugiati. Dentro il museo dei giorni il tempo sembra fermarsi, ma in realtà riverbera rosso sul nostro presente di guerra. L’archivio è maceria, il cinema è maceria, la Palestina è maceria, ma c’è ancora tutto da costruire, ancora tanto da combattere. Ancora una colomba può spiccare il volo.