“Imaging there’s something amazing out there ”, dice il fotografo a Kristina al suo primo shooting per diventare una modella. In effetti qualcosa di bellissimo, le protagoniste di Toxic della regista lituana Saulė Bliuvaitė, lo possono solo immaginare, perché la realtà fuori da quella finestra è ben diversa.
In una Lituania industriale abbandonata a se stessa, Marija e Kristina, due ragazze di quattordici anni, stringono amicizia e aspirano a diventare modelle professioniste, portando alle estreme conseguenze la modellazione del loro corpo come unica possibilità di evasione da un mondo che le soffoca di aspettative.
Fin da subito è chiaro che per Saulė Bliuvaitė, Pardo d’oro alla 77esima edizione del Locarno Film Festival, le singole storie non sono importanti. In un inizio che ricorda la Carrie di Stephen King, l’approccio alla storia è già corale. Un gruppo di ragazze ruba i jeans a Marija, ragazzina timida e claudicante, ed è proprio da quel gesto che Kristina e Marija si troveranno a litigare furiosamente. Le loro vite però sono linee di contorno, approssimate e incastrate in un’espressione metaforica del mondo che cresce attorno a loro. Ciò che le circonda è un luogo ostico, difficile, radioattivo, appunto tossico, dal quale cercano di evadere.
In Toxic il corpo è una macchina pronta ad esaudire ogni desiderio esterno, le azioni quotidiane sono quadri asintomatici di situazioni che devono necessariamente accadere, senza che nessuno abbia veramente la volontà o la capacità di prendere una posizione. Il senso di straniamento è rafforzato dalle inquadrature formalmente impeccabili e alla stregua del campo forzato, volte a rappresentare i pensieri delle ragazze che non restano mai dentro di loro, ma si ripercuotono sull’ambiente. Per questo Bliuvaitė ci mostra inquadrature distorte, forzando le linee e la prospettiva; i loro pensieri sono per forza in relazione con l’ambiente che le circonda – le riprese dal basso indicano che il pensiero è sempre pronto a modificarsi – non ci sono mai solo Kristina o Marija, ma c’è sempre inevitabilmente anche il contesto. Un ambiente in putrefazione (il cibo che viene gettato dalla finestra) e al contempo asettico (la scuola di moda), abbandonato (il paesaggio industriale) ci suggerisce che bisogna fare i conti con il luogo prima ancora delle storie.
Un film-saggio sulla condizione esistenziale degli adolescenti e su come il paesaggio, ma anche la condizione sociale di crescita, influenzino irreversibilmente il modo di vivere caricandolo di aspettative. Quando si parla di adolescenti si parla sempre di identità, e la restituzione di Toxic è quella di un’identità deformata dove la distruzione del corpo diventa un gesto rituale, il corpo come misura e valuta per ottenere qualsiasi cosa, perfino la libertà. A differenza della protagonista di Sick of myself, in cui ritroviamo ancora una necessità di plasmare il corpo, qui il fine non è l’alimentazione del narcisismo della nostra epoca social-zombieland, quanto una necessità vitale di trovare una vita alternativa; allargando così la prospettiva e la riflessione alla storia nazionale lituana.
Non c’è più differenza dunque tra l’interno e l’esterno, tra l’identità e il luogo, nella vita delle adolescenti il mondo è una serie di regole imposte, è un ripetitivo modo di fare e mimare le gestualità in una passerella infinita che lascia in decomposizione l’io per trovare solo alla fine, in una partita di basket disinteressata, un possibile noi.