“Senza dubbio la deliberata rimessa in causa di ogni feticizzazione naturalistica del mondo, la presa di coscienza che l’uomo non è riducibile ad oggetto fra oggetti, l’attiva demistificazione di quanto a noi si presenta col pigro prestigio dell’autorità e della tradizione, la deliberata conquista della soggettività variamente alienata, costituiscono un salutare esercizio in un’epoca come la nostra.”

Se potessimo trovare un parallelo contemporaneo con le inchieste e le indagini antropologiche attuate nella prima metà del ventesimo secolo da Ernesto De Martino, dovremmo certamente scandagliare il web. Scandagliarlo per comprendere come le ritualità più recondite si siano ormai reincarnate totalmente nel digitale e nel virtuale.

È esattamente questo il tipo approccio portato avanti da Adele Tulli con Real, presentato in Cineasti del Presente all’ultimo Locarno Film Festival, uno scandaglio profondo e globale nell’universo della rete, all’interno di quella “realtà” non reale, ma per molti più reale del reale stesso.

Lo sguardo registico si pone da subito completamente avulso da ogni giudizio, senza condanne impresse di alienazione o “moralismo analogico” nei confronti dei suoi protagonisti, ma anzi cerca di riempire tutto lo spettro dell’argomento portato a tesi, muovendosi tra comunità trasferitesi in toto sulla VR e centri per dipendenze patologiche da tecnologia. In Real la sensazione più forte con cui probabilmente si uscirà dopo la visione (consigliata in sala, per la sua maggiore immersività, che dato l’argomento è quanto mai essenziale) sarà quella di una presa d’atto assoluta del presente, di una coscienza che non può far altro che rendersi conto che siamo sempre più oltre quel sottile orlo che ci teneva fermi all’interno di un immaginario di un mondo passato, verso un’idea di futuro che è ormai in mezzo a noi, con tutte le conseguenze positive e negative che questo comporta.

Dal sesso (e la sua vendita), all’identità di genere, passando per il mondo del lavoro e per le dipendenze, tutto quell’agglomerato che siamo abituati a chiamare reale, diventa a conti fatti la sua estensione. Si compie così la funzione primaria teorizzata da tutte le teorie post moderne e di analisi della società dello spettacolo. La nostra vita è un’immagine, da osservare, da esperire e da accettare. Ed è qui forse che un velo di amarezza viene sottilissimamente suggerito (dalla regista o dal film stesso), ossia la sempre maggior difficoltà nel rifiutarla, questa immagine esondante che diventa la nostra identità. In queste inquadrature multiple prese da camere di sorveglianza sparse in tutto il mondo, in queste enormi video chat di auto coscienza, tutto sembra dirci “sono ovunque”, anche dentro di te. La scelta è l’agente messo in crisi in questo tutto sempre mutevole e autoaggiornante, la possibilità di restare al di fuori dalla macchina, la sempre più impossibile coscienza di un mondo che possa esistere al di là di uno schermo.

Come anche in Normal quindi Adele Tulli cerca di affrancarsi da un’idea di documentario in cui l’autore sta con i proprio personaggi, ma decide di osservare come un occhio diverso, non per questo meno approfondito, ma che in questo caso diventa volutamente quasi artificiale, mimetizzato con le inquadrature delle web cam, delle camere di sorveglianza o delle go pro, per porci un quesito che arriva, in verità, quasi subito: quale può essere il ruolo del cinema nella società delle immagini al suo massimo potenziale di immersività? Cosa abbiamo ancora dire? Forse nulla, forse l’unica cosa che ci resta da fare, è osservare.