Un feretro scoperto, al centro (prospettico) di una stanza scarna. Ai lati, prima un gruppo di donne, poi un drappello di uomini, che sollevano la bara e la fanno danzare in tondo, poco prima di portarla via. Stacco. Dal cielo, un enorme maglio cade sulla carcassa di una macchina; alle sue spalle, una discarica di veicoli dismessi e di rottami abbandonati.

Si può riassumere così la doppia sequenza inaugurale di Holy Electricity, esordio alla regia del georgiano Tato Kotetishvili. Due corpi ormai senza vita, l’uomo e la macchina, accostati in un montaggio brutale, che riflette in nuce la pulsione che Kotetishvili consuma verso un cinema ragionato e auto-esposto alla molteplicità interpretativa, di segni e dunque di significati. Perché che sia volontario o meno (David Foster Wallace titolava Che esagerazione il suo saggio sulla diatriba post strutturalista sulla proprietà determinativa del significato di un testo), questa non-storia ambientata a Tbilisi, frutto di un lavoro profondo di incontro antropologico-fotografico del regista con la sua città e le persone che la abitano, ha in sé molto più di quello che il suo tono (apparentemente) dimesso e la sua piccolezza, ricercatissima, sembrano comunicare distrattamente.

È un incontro tra due vite, Holy Electricity: tra Gonga, un ragazzo che ha appena perso il padre (il feretro della prima scena) e il cugino maggiore Bart (interpretato dall’attivista trans Nikolo Ghviniashvili), perennemente carico di debiti e alla caccia di soldi, derelitto come le discariche che frequenta. In uno di questi depositi, i due trovano una valigia piena di croci arrugginite: se si possono trasformare in crocefissi al neon, pensano, si possono anche vendere sulle porte degli abitanti di Tbilisi.

Ma è anche un incontro cinematografico, il film di Tato Kotetishvili. Da una parte possiamo percepire la stessa crociata dell’Agnès Varda di Les Glaneurs et la glaneuse: trattare uno stigma sociale e valorizzare una pratica reale (quella di coloro che trovano o si imbattono in rifiuti e materiali scartati e li rielaborano in artefatti artistici, utili a loro stessi o agli altri) e, al contempo, riordinare – attraverso il cinema – vite a loro volta rifiutate o scartate dal mondo a loro circostante. E questa è la prima direzione del movimento (cinefilo) di Kotetishvili.
La seconda, possibilmente connettiva, è quella che sembra provenire, con tutte le differenze che la storia del cinema può e deve rimarcare, da un maestro armeno, ma nato in Georgia e proprio a Tbilisi: Sergei Parajanov, e in particolare il Parajanov del Colore del melograno. Come Il colore del melograno, Holy Electricity si struttura in scenette, più che in sequenze, giustapposte in un découpage di immagini composte, ferme, a movimento azzerato. Certo, non c’entrano tableau vivant o vertiginose visioni di effetto-quadro, non abbiamo a che fare con quella peculiare e irripetuta forma di integrazione dell’artistico nel filmico, ma qualcosa, tra le pagine chiare e scure dell’immaginario collettivo, può rimanere. Come rimane la possibilità di inscrivere il sacro nell’ironico, o viceversa; o come rimane, eredità incontestabile, il rapporto che il film instaura tra l’inquadratura fissa – che è quasi l’unica marca stilistica e di accesso al mondo filmico di Holy Electricity – e ciò che la mdp inquadra.

Che sia la mutevole e bislacca relazione tra Gonga e Bart; che sia la loro missione di business tra le strade, davanti ai volti e sugli usci degli appartamenti della capitale georgiana, la cui «sinfonia visiva» viene scoperta insieme allo spettatore; che siano gli innamoramenti, paralleli e dolenti nella loro tenerezza, di cui i due protagonisti fanno esperienza… il 4:3 a inquadratura fissa, con tanto di sfocatura ai lati del quadro, non comprime i personaggi, non li rinchiude in quanto cinema all’interno del cinema, non li mummifica psicologicamente o come immagini. Ovvero, la regia dell’esordiente Kotetishvili, pur sfiorando la ricerca di una «autor-ità» eccessivamente studiata (cioè da studente diligente del cinema europeo da festival), non atrofizza il suo film, non impone una morte dell’immaginazione, né dell’attenzione. Semmai, paradossalmente, il regista georgiano impiega tutto il cinema a sua disposizione, sintetizzando in un’ora e trenta tutte le inquadrature possibili (dalla scala dei campi fino al dettaglio), e quindi i punti di vista sulle cose; come se il suo film fosse un saggio, o un compendio, di come la visione può – ancora – cambiare a seconda del punto di ripresa, aggiornando quindi alla propria sensibilità una questione che è vecchia quanto l’invenzione del cinema stesso.

Tra le pieghe del fuori campo, così come nella capacità di includere in una sola inquadratura lo statico e il cinetico, la pesantezza – materica e oppressiva – dello sguardo fisso della mdp e la levità dei corpi e degli sguardi che inquadra e delle voci che registra, Tato Kotetishvili impara così ad assegnare allo spettatore un ruolo attivo. E ci ricorda, ancora una volta, come il cinema possa far (intra)vedere qualcosa che non c’è, come chi guarda possa indagare l’immagine e navigare lo spazio sullo schermo, facendolo suo. Forse è proprio per questo che, tra i Pardi di Domani, il nome vincitore sia stato il suo.