Secondo Geoff King il cinema of discomfort, il cinema del fastidio, il cinema del supplizio, è arrivato in Inghilterra con Joanna Hogg. È questa ormai una tesi storicizzata da almeno una decina d’anni, contro cui è difficile procedere: lo stile naturalista di Hogg – dotato di una linea d’esecuzione talmente avvolgente e impercettibile da riuscire a rendere psicologicamente interessante per molti spettatori anche gli ambienti più alto borghesi – ha rappresentato in territorio anglosassone una valida esemplificazione degli stilemi di questo linguaggio del nuovo millennio. Il linguaggio degli Haneke, dei Seidl, degli Andersson, dei registi insomma di quel cinema interessato ad attivare l’imbarazzo dello spettatore e così risvegliarlo dalla sua posizione di progressiva passività. Bastano poche inquadrature di Hogg, soprattutto dei suoi primi film, per capirlo: piani fissi, distanza misuratissima, composizione statica, qualcosa di osservativo più che documentaristico, un aggiornamento del realismo inglese. Un aggiornamento, nello specifico, secondo le modificazioni dei profili autoriali degli anni Dieci, e cioè secondo quell’ingerenza del ricco mercato dell’arte che ha portato gli autori a pensare in termini installativi le proprie immagini cinematografiche.
Dopo questa fase, Hogg ha in parte cambiato configurazioni, ma la curvatura rarefatta e aristocratica impressa dalla regista all’urgenza di documentazione delle abitudini inglesi rimane fissa nella storia del cinema contemporaneo, e ogni omissione di consapevolezza a riguardo è un po’ una dichiarazione di campo, soprattutto se fatta da un connazionale. Come Richard Hunter, giovane regista che nelle interviste promozionali in lingua inglese per Foul Evil Deeds – presentato a Locarno a Cineasti del Presente, e in replica a Locarno a Milano – non ha citato minimamente Joanna Hogg tra le aspirazioni connazionali. Curioso: nelle sue parole si legge molto chiaramente il desiderio, si direbbe performativo, di spiegare alla stampa festivaliera la volontà di essere identificato con il cinema del discomfort. Non sorprendente: ci si poteva aspettare un silenzio strategico da parte di un regista tanto volenteroso di volersi posizionare come unica voce inglese di questo linguaggio ora molto di tendenza, soprattutto nel cinema da festival. Poco male: il cinema del fastidio si sviluppa come un virus nell’audiovisivo europeo e, giustamente, come ogni endemica diffusione, ha le sue varianti. Questa presentata da Hunter è una nuova variante generazionale, che aspira agli spazi del white cube ma preferisce arrivarci ribaltando verticalmente le condizioni d’esistenza dell’altra voce, scegliendo quindi di inquadrare non tanto la bolla sociale dell’upper class ma la più generale intersezione tra middle class in fase di decomposizione (operai, membri del clero, impiegati statali) e figure più opache ma ancora presenti negli indici di pubblico (studenti, ricchi acculturati) attraverso le forme del video-diario e soprattutto dell’umorismo inglese a denti stretti.
Hunter prende quindi quello che aveva intuito Hogg – il felice connubio tra naturalizzazione figurativa e forte tensione drammaturgica –, lo esacerba – il suo posizionamento appare naturale e neutrale ma equivale sempre a una punch line – e ottiene da un’ossimorica triangolazione – la trasparenza del linguaggio documentario, l’artificiosità del cinema d’arte e l’ironia anglosassone – un’inedita variabile vignettistica, rimasta inesplorata dall’incontro tra l’inglesismo di Hogg e il linguaggio dell’imbarazzo cinematografico. Che il cinema del supplizio potesse essere comico lo aveva già mostrato in territorio americano Todd Solondz, ma Hunter ha importato la possibilità nel proprio paese natale. Il linguaggio d’offesa con cui Foul Evil Deeds provoca lo spettatore è per questo d’interesse, anche quando troppo strategicamente provocatorio. Lo è di certo per il pubblico da festival, che si può arrovellare sia su quanto ancora si potrà spremere fuori da questo modulo espressivo, ormai probabilmente quasi esaurito, sia sulla flessibilità espressiva del video – qui degradato e poi riconvertito, in un processo di mascheramento forse ormai frequente ma sempre generativo di riflessioni.
Lo è anche per il pubblico della sala? Quando lo sguardo di quest’ultimo, non allenato o alienato dalle logiche esoteriche del cinema d’arte, intercetterà questo film, non rimarrà tanto disorientato dall’aggressività dell’ironia al vetriolo quanto dalla sua inerte carica drammaturgica, pensata per mimare lo stato di sospensione ripetitiva e repressione sessuale della classe sociale rappresentata. È questa, in fondo, la più interessante mossa del regista inglese: lasciare irrelato l’intreccio delle molteplici storie che porta in scena, consentendo allo sguardo di chiunque di entrare liberamente nell’inerzia nichilista dell’osservazione e muoversi a piacimento, mentre l’immobilismo narrativo si trasforma piano piano in astrazione figurativa. Proprio al pubblico della sala, al pubblico occasionale e non professionale, andrebbe posta la domanda essenziale in merito agli effetti di queste acrobazie: il cinema della scomodità è ancora un cinema scomodo?